5 marzo 2013 - Che la Storia non fosse finita lo abbiamo saputo l’11 settembre 2001. Ora possiamo anche dire che nemmeno la Geografia è finita. Che il mondo non è «piatto» come sosteneva Thomas Friedman del «New York Times». Non solo i confini ci sono ancora: con la Grande Crisi sono diventati più difficili da valicare. La globalizzazione sta tornando indietro. Si è fermata nel 2007 e da allora ha iniziato una marcia a ritroso, non per le proteste dei sindacati, non per le manifestazioni No Global, non per il buon sapore del chilometro zero. Perché il vento che le gonfiava le vele ha cambiato direzione: nella finanza, nei commerci, nelle scelte delle aziende, ma anche nelle istituzioni, nella politica e, soprattutto, nelle idee che danno forma al mondo.

Per alcuni è un bene. Più probabilmente è un pericolo. Anche la prima globalizzazione si arrestò, e lo stop fu drammatico, cristallizzato nella Grande guerra e in quasi tre decenni di trincee, di morti e di odi nazionalisti. Non che debba finire così anche questa volta: un pianeta più chiuso, però, non promette bene.

La nostra Belle Époque è durata un quarto di secolo, forse una trentina d’anni. Anni selvaggi. Belli e spietati. Miliardi di persone sono uscite dall’indigenza: le Nazioni Unite dicono che nel 2015 sotto la linea di povertà ci saranno 920 milioni di persone, la metà che nel 1990, nonostante la popolazione del mondo sia passata dai 5,2 miliardi di allora agli oltre sette di oggi. La democrazia e la libertà hanno preso piede: i Paesi dove si vota sono 117 e l’organizzazione Freedom House calcola che nel 2012 le nazioni ad alto tasso di libertà sono state 90, contro le 44 del 1985. I viaggi si sono decuplicati. Internet ha messo in rete la Terra. La finanza e le banche globali hanno portato capitali in ogni angolo, e ciò ha fatto crescere decine di economie. La Cina, fino al 1978 del tutto chiusa, è diventata la fabbrica del mondo. L’India, nel 1990 ancora un’economia di piano in stile socialista, è il Paese emergente più giovane e con il futuro più brillante, se saprà affrontare le sue immense contraddizioni. E via così, in decine di luoghi, con il pianeta delle meraviglie.

Che naturalmente aveva anche una faccia oscura. In Occidente in quel quarto di secolo molte fabbriche hanno chiuso perché spostate dove il lavoro costa meno. Gli sweatshop del Terzo Mondo, popolati da donne e bambini sfruttati, si sono moltiplicati: anche la vergogna è diventata un fenomeno globale. Persino le malattie — ricordate la Sars? — prendevano l’aereo per spostarsi da un continente all’altro. La cultura era solo americana, uguale ovunque, senza sfumature. «Nonostante diverse culture, la gioventù della classe media di tutto il mondo sembra passare la propria vita come se fosse in un universo parallelo, scriveva nel 1999 Naomi Klein nel suo bestseller No Logo. Si svegliano al mattino, indossano i Levi’s e le Nike, afferrano i loro cappellini e i loro zaini e il Sony personal Cd e se ne vanno a scuola». Nonostante Apple abbia dato altro pane di riflessione alla signora Klein e l’i-Phone sia diventato l’oggetto di maggiore concupiscenza di massa del secolo, con la Grande Crisi questo mondo con tante luci e parecchie ombre si è fermato. Prima là dove la catastrofe è scoppiata, poi via via quasi ovunque.

Dopo il crollo della Lehman Brothers nell’autunno del 2008, gli Stati sono intervenuti per salvare e spesso nazionalizzare le banche, hanno imposto nuove regole alla loro espansione, hanno spinto, soprattutto in Europa, per limitare le attività degli istituti di credito dentro i confini domestici. Il risultato è che il modello di banche con una spinta globale è tramontato. Alla fine del 2011, i prestiti non nazionali delle banche sono crollati di 799 miliardi di dollari, 584 dei quali per la ritirata in casa di quelle europee. E la tendenza è continuata nel 2012. Il Fondo monetario internazionale ha calcolato che entro la fine di quest’anno gli istituti di credito della Ue potrebbero ridurre le loro attività di 2.600 miliardi di dollari (il 7 per cento del totale) e che un quarto di questa cifra potrebbe venire dal taglio dei prestiti fatti fuori dai confini di casa, in aggiunta alla vendita di titoli internazionali.

In parallelo, i due grandi collanti «fisici» della globalizzazione si sono fermati. Il commercio internazionale — che nei decenni passati cresceva a ritmi impressionanti, spesso sopra al 10 per cento l’anno, e trascinava la crescita del mondo — ha rallentato dopo una certa ripresa nel 2010. L’anno scorso l’Organizzazione mondiale del Commercio (Wto) ha rivisto per due volte al ribasso le sue previsioni per il 2012: gli scambi mondiali non dovrebbero essere cresciuti più del 2-2,5 per cento; e il Cpb World Trade Monitor ha calcolato che nel dicembre scorso sono addirittura diminuiti, dello 0,5 per cento rispetto a novembre.

L’altro grande fenomeno dei decenni passati, il decentramento produttivo, non solo si è fermato, ma molte imprese americane e europee stanno riportando a casa le produzioni che avevano esportato nei Paesi emergenti. Un po’ perché si sono accorte che non sempre l’outsourcing è stato redditizio, un po’ perché i salari in Cina sono molto cresciuti e non sono più attraenti come quando l’onda dell’offshoring— dello spedire fabbriche e posti di lavoro nel Terzo Mondo — era il vangelo dei grandi manager, soprattutto americani, ma anche europei. Questo ritiro nazionale ha provocato la rottura della cosiddetta catena globale delle forniture, cioè di quella rete di aziende produttrici di beni intermedi che nei decenni scorsi aveva consentito il decollo di intere economie dei Paesi poveri.

La società di trasporti Dhl, che ogni anno produce un indice della connettività globale, ha calcolato che nel 2012 «il mondo è meno integrato che nel 2007»: i mercati dei capitali si sono frammentati; il commercio dei servizi è stagnante; la «connettività globale è anche più debole di quanto sia comunemente percepito»; «la distanza e i confini contano ancora», con le connessioni online che sono per lo più domestiche. Lo studio della Dhl sostiene che «i guadagni potenziali derivanti dall’incremento della connettività globale possono raggiungere miliardi di dollari»: ciò nonostante, l’opportunità non viene sfruttata.

L’indice di gradimento dei governi per la globalizzazione non è mai stato elevato, dal momento che essa erode il loro potere, rimasto nazionale. Nei tempi più recenti, spinti anche in questo caso dal dover fare qualcosa per affrontare la recessione, hanno accentuato la loro refrattarietà all’apertura e in più di un caso hanno imboccato strade protezioniste, per quanto camuffate. L’ultimo G7, due settimane fa, ha dovuto riunirsi per discutere di possibili guerre valutarie, intese come mezzi per abbassare il valore di una moneta allo scopo di favorire le esportazioni. Mercantilismo valutario, con germi da anni Trenta, insomma. I dibattiti sull’opportunità di reintrodurre vincoli ai movimenti di capitale in situazioni di crisi, d’altra parte, hanno riguadagnato quota anche nel dibattito accademico. Per riassumere le tendenze in corso nella finanza, ma non solo, l’economista britannico Howard Davies sostiene che il 2013 sarà un anno «decisivo per la deglobalization». In questa cornice, persino la democrazia arretra, come raccontano le strade repressive prese dalle rivoluzioni arabe: Freedom House calcola che nel 2012, per il settimo anno consecutivo, il numero di Paesi in cui l’indice della libertà è peggiorato supera il numero di quelli in cui è migliorato.

Non sorprende che, con queste tendenze così accentuate, anche sul piano delle idee l’internazionalismo non sia in forma. Le Nazioni Unite non solo deludono di fronte al massacro della Siria: non ispirano più e, anzi, la superburocrazia del Palazzo di Vetro deprime l’antica e nobile idea di governo mondiale. Dopo la crisi del debito, l’Unione Europea è vista, nel mondo, meno come modello di superamento delle frontiere e sempre più come aggregazione litigiosa e incapace di decidere. Il G7 si è ridotto a un ruolo marginale, ma anche il G20, che l’ha sostituito nel 2009, ha presto perso la sua capacità di dare risposte ai problemi del mondo. Persino la questione più globale che si dovrebbe affrontare, il cambiamento del clima, si trascina da vertice inutile a vertice inutile, segno dell’incapacità del mondo di accordarsi anche di fronte alle sfide più importanti.

La Wto — simbolo della globalizzazione nell’immaginario No Global fin dagli anni Novanta — da oltre dieci anni non riesce a portare a termine il Doha Round, la trattativa per liberalizzare ulteriormente il commercio mondiale che darebbe una spinta rilevante all’economia del mondo, a costo zero. L’idea stessa di multilateralismo — cioè di accordi generali aperti a tutti i Paesi su basi paritarie, pilastro della ripresa post-bellica — è in ritirata: la proposta di Obama, accettata con entusiasmo da molti leader europei, di aprire i negoziati per una zona transatlantica di libero scambio si muove in una logica bilaterale, tra Stati Uniti ed Europa, e rischia di provocare irritazioni e reazioni in altri Paesi, Cina in testa ma non solo.

L’anno scorso, l’analista geopolitico Robert Kaplan ha pubblicato un libro — The Revenge of Geography(«La rivincita della geografia»), Random House — nel quale sosteneva la necessità di tornare a studiare i confini naturali, la loro influenza sulle culture e sulle politiche, le risorse del sottosuolo per capire le grandi scelte delle nazioni: mappe più rivelatrici delle dichiarazioni politiche, dei documenti top secret, delle ideologie — a suo parere. Perché — sosteneva citando Paul Bracken di Yale — la dimensione finita della Terra è una forza di instabilità. La globalizzazione, in altri termini, ha un limite nella tendenza espansiva delle nazioni, soprattutto degli imperi vecchi e nuovi: quando si raggiunge il punto in cui non è più possibile andare oltre con un grado di armonia che soddisfi tutti, perché la Terra è in qualche modo finita, si ritorna sui passi compiuti, riprendono i vecchi meccanismi che si possono sfogare solo sulla faccia del nostro pianeta.

Non siamo già arrivati al momento in cui la Terra è finita e non si può andare oltre. Sembra però sempre più difficile, nella Grande Crisi, mantenere quel livello di armonia e di apertura nel quale tutti hanno dei vantaggi, come negli anni d’oro della globalizzazione: l’ombra della somma zero — quel che guadagni tu lo perdo io — comincia a fare paura. Così, la vecchia, polverosa Geografia torna a misurare confini e distanze del nostro piccolo mondo.

 

(danilo taino / corriere.it / traduzione allo spagnolo di joaquín ladrón de guevara

***

 

5 de marzo de 2013 - Supimos el 11 de septiembre que la historia no había llegado a su fin. Ahora también podemos decir que tampoco se ha acabado la geografía. Que el mundo  no es plano, como sostenía Thomas Friedman del New York Times. No solo aun existen los confines: con la Gran Crisis se han vuelto más difíciles de atravesar. La globalización esta retrocediendo. Se detuvo en el 2007 y desde entonces ha iniciado la marcha regresiva, no por la protestas de los sindicatos, no por las manifestaciones del Movimiento No Global, no por el buen sabor del  kilómetro cero. Porque los vientos que soplaban las velas han cambiado de dirección: en las finanzas, en los negocios, en las decisiones de las empresas, pero también en las instituciones, en la política y, sobre todo, en las ideas que dan forma al mundo.

Algunos lo consideran un beneficio. Para muchos, probablemente, sea un peligro. También la primera globalización se detuvo, y la parada fue dramática. Cristalizada en la Gran Guerra y en casi tres decenios de trincheras, de muertos y de odios nacionalistas. No debería terminar así en esta ocasión: sin embargo, en un planeta cada vez más cerrado, el futuro no es prometedor.

Nuestra Belle Époque duró un cuarto de siglo, tal vez una treintena de años. Años fieros. Bellos y despiadados. Millones de personas salieron de la indigencia: las naciones unidas declararon que, para el 2015, estarán bajo la línea de la pobreza 920  millones de personas, la mitad de las que había en 1990, a pesar de que la población del mundo ha aumentado de 5 mil 200 millones de entonces a mas de 7 mil millones de ahora. La democracia y la libertad se han  reforzado: los países donde se vota son 117 y la organización Freedom House calcula que en el 2012 las naciones con índices altos de libertad son 90, contra las 44 que había en 1985. Los viajes se han incrementado considerablemente. El Internet ha conectado al mundo. Las finanzas y la banca internacional llevado capitales a todos los rincones, haciendo crecer decenas de economías. China, completamente cerrada al mundo en 1978, se ha convertido en la fábrica del mundo. La india, que en los años noventa era todavía una economía planificada de corte socialista, es el país emergente mas joven del mundo y con el futuro más prometedor. Y así sucesivamente, en decenas de lugares del planeta de las maravillas.

Esto, por otro lado, también tiene un lado oscuro. En occidente, muchas fábricas han cerrado en el último cuarto de siglo porque la mano de obra se ha trasladado a lugares donde es mas barata. Las maquilas del tercer mundo, poblados por niños y mujeres explotados, se multiplicaron: también la vergüenza se ha convertido en un fenómeno global. Incluso las enfermedades —Recuerdan el SARS? [1]— tomaban vuelos para mudarse de un continente a otro. La cultura era solo americana, en todos lados igual, sin matices. “A pesar de la diversidad cultural, la juventud clase mediera de todo el mundo da la impresión de pasar la propia vida como si estuvieran en un universo paralelo”, escribía Naomi Klein en su best seller No logo: el poder de las marcas.  “Se despiertan cada mañana, se ponen sus Levi’s y Nike’s, se recogen el cabello, toman sus mochilas,  su reproductor de música Sony y se van a la escuela.” A pesar de que Apple le da dado otra perspectiva a la señora Klein, y el Iphone se ha convertido en el objeto de mayor consumo de masa del siglo, con la Gran Crisis,  este mundo con tantos claroscuros, se ha detenido. Primero allá, donde la catástrofe estalló, y posteriormente, en casi todos lados.

Después del colapso de la Lehman Brothers en el otoño del 2008, los gobiernos han intervenido  para salvar, y, a menudo nacionalizar, los bancos, han impuesto nuevas reglas a su expansión, han presionado, sobre todo en Europa, para restringir las actividades de las instituciones de crédito dentro de los confines domésticos. El resultado es que el modelo de la banca de impulso global ha decaído. A fines del 2011, los créditos externos de la banca  han caído a 799 millones de dólares, 584 de los cuales corresponden a los retiros nacionales. Y la tendencia ha continuado durante el 2012. El Fondo Monetario internacional ha calculado que para finales de este año las instituciones de crédito de la Unión Europea reducirán sus actividades en 2,600 millones de dólares (el 7 por ciento del total) y que un cuarto de esta cifra podría venir del  recorte de créditos realizados fuera de los confines internos, además de la venta de títulos internacionales.

Al mismo tiempo, los dos grandes adherentes “físicos” de la globalización se han paralizado. El comercio internacional –que en los decenios anteriores crecía a ritmos impresionantes, frecuentemente por arriba del 10 por ciento anual, e impulsaba el crecimiento del mundo- ha descendido después de un restablecimiento en el 2010. El año pasado la organización Mundial de Comercio (OMC) ha revisado dos veces a la baja sus previsiones para el; 2012: el comercio  mundial no debería crecer más del 2-2., 5 por ciento, y el medidor Cpb de la OMC ha calculado que en diciembre pasado incluso ha disminuido en un 0.5 por ciento respecto a noviembre.

El otro gran fenómeno de los decenios anteriores, la descentralización de la productividad, no solo se ha detenido, muchas empresas norteamericanas y europeas están regresando a casa la producción que antes habían exportado a  los mercados emergentes. En parte porque han descubierto que el Outsourcing no siempre es redituable, y en parte porque los salarios en China se han elevado y no son tan atractivos como cuando la tendencia del offshoring-trasladar fabricas y puestos de trabajo al tercer mundo- era el evangelio de los grandes managers, sobre todo los norteamericanos, pero sin excluir a los europeos. Este retiro nacional ha provocado la ruptura de la denominada cadena global de los suministro, a decir, la red de empresas productoras de bienes intermedios que en los decenios pasados había impulsado el despegue de economías enteras de países pobres.

La sociedad de transportes DHL, que cada año publica  un índice de la conectividad global, ha calculado que en el 2012 “el mundo esta menos integrado que en el 2007: los mercados de capitales se han fragmentado; el comercio de servicios esta estancado, la “conectividad global también es mas débil de lo que normalmente se percibe”, “la distancia y las fronteras ahora cuentan”, con las conexiones en líneas que son en su mayoría  domesticas. El estudio de la DHL sostiene que “las ganancias potenciales derivadas del incremento de la conectividad global pueden alcanzar los millones de dólares”, y sin embargo, la oportunidad no ha sido explotada.

El índice de aceptación de de los gobiernos para la globalización nunca ha sido elevado, desde el momento en que esta erosiona su poder perjudicando la soberanía. En tiempos  recientes, impulsado en este caso por la necesidad de hacer algo para afrontar la recesión, han acentuado su obstinación a la apertura y en más de una ocasión  ha desembocado en medidas proteccionistas, aunque camufladas en cierta medida. El G7 siete ha tenido que reunirse hace dos semanas para discutir sobre la posible guerra de divisas y los acuerdos como medios para  reducir el valor de una moneada con el fin de favorecer las exportaciones. En fin, un mercantilismo de divisas, originado hace treinta años. Los debates sobre la posibilidad de introducir vínculos a los flujos de capital en situaciones de crisis han recobrado altura en el debate académico. Para retomar las tendencias en curso de las finanzas, pero no exclusivamente, el economista británico Howard Davies sostiene que el 2012 será un año “decisivo para la globalización”. En este marco, hasta la democracia pierde terreno, como demuestran las medidas represivas de la revolución árabe: Freedom House calcula que en el 2012, por séptimo año consecutivo, el número de países cuyos índices de libertad han empeorado supera al; número en los cuales ha mejorado.

No sorprende que, con estas tendencias tan pronunciadas, tampoco el internacionalismo este en forma en plano de las ideas. Las Naciones Unidas no solo evaden el tema de la masacre en Siria: no aspiran a hacer más y la burocracia del “Palacio de Vidrio”  suprime la noble y antigua idea del gobierno mundial.  Después de la crisis de la deuda, la Unión Europea es vista por el mundo manos como un modelo de superación de las fronteras y más como una camarilla  peleonera e incapaz de tomar decisiones. El rol del G7 se ha reducido a uno imaginario, pero también el G20, que lo ha sustituido en el 2009, ha perdido inmediatamente la capacidad de dar respuesta a los problemas del mundo. Incluso, la cuestión más global que se debe afrontar, el cambio climático, se arrastra de una cumbre a otra, muestra de la incapacidad del mundo para llegar a acuerdos frontales a los desafíos más importantes.

La OMC-símbolo de la globalización en el imaginario No Global hasta los años noventa-por mas de diez años no alcanzo a llevar a cabo los acuerdos de la ronda de Doha, la negociación para liberalizar posteriormente el comercio internacional que daría un impulso relevante a la economía del mundo, sin costo alguno. La misma idea del multilateralismo –aquella de acuerdos generales abiertos a todos los países sobre bases equitativas, pilar de la recuperación post bélica- esta en desaparición: la propuesta de Obama, aceptada con el entusiasmo de muchos lideres europeos, de abrir negociaciones para una zona trasatlántica de libre comercio se mueve bajo una lógica bilateral, entre los Estados Unidos de America y Europa, y corre el riego de provocar la irritación y reacciones de otros países, China a la cabeza pero no exclusivamente.

El año pasado, el analista geopolítico  Robert Kaplan ha publicado un libro – The Revenge of Geography (La Venganza de la Geografía- ed. Random House) en el cual sostenía la necesidad de recuperar el estudio de la fronteras naturales, su influencia en las culturas y sobre la política, los recursos del subsuelo para comprender las grandes decisiones de las naciones: mapas –en su opinión- mas reveladores que las declaraciones políticas, que los documentos Top Secret y que las ideologías. Porque –sostenía citando a Paul Bracken de la Universidad de Yale-la dimensión finita de la tierra es una fuerza de inestabilidad. La globalización, en otros términos, tiene un límite en la tendencia expansiva de las naciones, sobre todo de los viejos y nuevos imperios: cuando se alcanza el punto en el cual ya no es posible ir más lejos con un grado de armonía que satisfaga a todos, porque la tierra es de todos modos finita, se regresa por el camino ya recorrido, retomando los viejos mecanismos que se pueden desahogar solo sobre el rostro de nuestro planeta.

No hemos llegado todavía al momento en el que la tierra se acabe y no se puede ir mas allá. Cada vez parece más difícil mantener, en la Gran Crisis, aquel nivel de armonía y de apertura en el cual todos tienen ventajas, como los años dorados de la globalización: la sombra de la suma cero –cuando ganas tú pierdo yo –comienza a provocar miedo. Así, la vieja y polvorienta geografía vuelve a medir límites y distancias de nuestro pequeño mundo.

_______________________

[1] SARS por sus siglas en inglés (severe acute respiratory syndrome)

 

(danilo taino / corriere.it / traducción al español de joaquín ladrón de guevara)