11
giugno
2013 -
Città dal passato coloniale ad appena un’ora
dalla capitale messicana, Toluca è diventata
un polo industriale di importanza mondiale.
Lì vivono quasi un milione di persone e
lavorano a pieno ritmo centinaia di
fabbriche: dalla Bmw alla Nestlé, dalla
Pfizer alla Coca-Cola, dalla Mercedes ad
altre multinazionali.
Sempre lì —da un
impianto della Chrysler in mezzo a 100
ettari di parco—
vengono sfornate decine di migliaia di Fiat
500 destinate all’insaziabile mercato
americano.
Toluca. Piazza
González Arratia.
Secondo Automotive News, Sergio
Marchionne vorrebbe trasferire nel 2015 le
catene di montaggio della nuova 500 a Tychy,
in Polonia, ma solo per razionalizzarne la
produzione e permettere che lo stabilimento
di Toluca si concentri sui modelli Chrysler.
Del resto tutte le big dell’auto puntano
sull’espansione delle loro attività in
Messico: sia per le esportazioni negli Stati
Uniti e in Canada, favorite dal trattato di
libero scambio del Nafta (North America
Free Trade Agreement); sia per
soddisfare la domanda interna di un paese
che ha ormai 115 milioni di abitanti ed è al
secondo posto dopo il Brasile nella hit
parade economica dell’America Latina.
Risultato: ad aprile la produzione messicana
di automobili è cresciuta del 15,6 per cento
rispetto allo stesso mese dell’anno scorso.
Toluca è un ottimo esempio del miracolo che
ha valso al Messico il soprannome di “tigre
azteca”. Mentre infatti i media e l’opinione
pubblica negli Stati Uniti (e altrove)
sembrano distratti
dalla violenza della guerra al narcotraffico,
che pure è grave, e ha fatto 60
mila morti in sei anni, più delle
vittime americane nel Vietnam, l’economia
messicana cresce a ritmi semi-asiatici: il
Pil (prodotto interno lordo) è salito l’anno
scorso del 4 per cento, il reddito pro
capite è aumentato del 59 per cento dal 2002
e l’agenzia Fitch ha appena alzato il rating
del paese.
Dietro al boom ci sono soprattutto le
esportazioni verso gli States: l’anno scorso
il valore dell’interscambio commerciale tra
i due paesi ha raggiunto quasi i 500
miliardi di dollari. L’80 per cento
dell’export messicano attraversa la
frontiera settentrionale, mentre le
esportazioni americane verso il Messico sono
inferiori solo a quelle verso il Canada e
sono superiori al valore complessivo di
quelle verso Germania, Francia e Gran
Bretagna messe insieme.
E
se qualche anno fa c’era chi a Washington
parlava del Messico come il “nuovo
Afghanistan”, tanti erano i timori per la
spirale di violenza, adesso il settimanale
Business Week definisce il paese come la
“prossima Cina”: perché sta diventando il
nuovo paradiso della delocalizzazione delle
aziende americane e solo nei primi tre mesi
di quest’anno ha registrato investimenti
diretti per 5 miliardi di dollari.
Il viaggio ufficiale di Barack Obama a Città
del Messico all’inizio di maggio ha permesso
al presidente americano e al suo nuovo
collega messicano Enrique Peña
Nieto —eletto
come candidato del
Pri e insediatosi nel dicembre scorso—
di prendere atto di questa svolta economica
e di affrontare due questioni ad essa
legate.
La prima è sempre il narcotraffico: gli
Stati Uniti si rallegrano per l’offensiva
contro i mercanti di morte lanciata sei anni
fa dall’ex-presidente Felipe Calderon, ma
hanno anche la coscienza sporca: o meglio
dovrebbero proprio averla, secondo quel che
dicono i messicani, che accusano i vicini di
casa di fare troppo poco per limitare da un
lato la domanda interna di droga, che
alimenta il contrabbando e arricchisce i
cartelli, dall’altro la vendita delle armi,
che finiscono inevitabilmente al di là del
confine e contribuiscono all’eccidio.
La seconda questione è la riforma delle
leggi sull’immigrazione al vaglio del
Congresso di Washington. Già oggi le rimesse
degli emigranti contribuiscono al 2% del Pil
messicano. Ma se i 6,5 milioni di messicani
che vivono negli Stati Uniti avessero la
possibilità di acquisire la cittadinanza del
paese che li ospita e di vedersi così
riconosciuto il diritto a salari più alti,
aumenterebbe anche il flusso di capitali
verso il Messico.
Al di là dei contenziosi bilaterali come
droga e immigrazione, il Messico si sente
anche molto vulnerabile rispetto
all’andamento dell’economia americana,
proprio per l’importanza dell’interscambio.
«Siamo molto
preoccupati per i segnali che ci
arrivano dalle statistiche ufficiali degli
Stati Uniti»,
ammette Luis Videgaray, ministro delle
finanze del governo
federale e stretto collaboratore del
presidente Enrique Peña
Nieto. «Da un lato
– spiega il ministro – sembrano esserci
buone prospettive, dall’altro regna ancora
l’incertezza e quindi siamo preoccupati».
E
non è un caso che proprio la settimana
scorsa l’Ocse abbia rivisto al ribasso le
prospettive di crescita del Messico: nel
2013 il Pil aumenterà “solo” del 3,4%
rispetto al 3,9 del 2012. Sulle previsioni
di crescita pesano anche problemi endemici
del Messico, dalla corruzione alle
infrastrutture, dalla scuola al
narcotraffico.
Il presidente Peña
Nieto lo sa bene: e anche se i suoi nemici
politici lo accusano da destra e da sinistra
di riproporre lo stesso schema clientelare
che il suo partito Pri (Partito
rivoluzionario istituzionale) ha avuto per
quasi 71 anni, lui ha lanciato il “Pacto por
Mexico”, un piano in 6 anni per rilanciare
l’industria petrolifera e aumentare la
concorrenza nel settore delle
telecomunicazioni, per combattere contro la
corruzione e migliorare l’istruzione
pubblica.
Basterà? L’opposizione dice di no, ed è
anche scettica sulla scelta di Peña
Nieto di nominare il generale Alberto Reyes
come capo della guerra anti-narcos.
Ma intanto l’economia messicana va avanti,
dimenticando sia la crisi del peso del 1995
che i contraccolpi della crisi di Wall
Street del 2007-2008. E il Messico –
ricordano gli ottimisti filo-americani –
resta il primo consumatore
procapite al mondo di Coca Cola.
(arturo zampaglione /
repubblica.it / puntodincontro.mx /
adattamento e
traduzione allo
spagnolo di
massimo barzizza)
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