Buffon "Ricco e famoso
la depressione mi prese lo stesso"

"Nel 2004 mi seguì una psicologa non ero soddisfatto della vita e del calcio".

13 novembre 2008. - Decide di raccontarsi partendo dal fondo, Gigi Buffon, da quel «buco nero dell’anima» che lo inghiottì per sei mesi, «dal dicembre 2003 al giugno 2004». Senza tanti giri di parole: «Sono caduto in depressione, sono stato in cura da una psicologa». Filava tutto storto: «Non ho mai capito perché proprio allora, perché non prima, perché non dopo». L’unica certezza, era sbagliata: «Non ero soddisfatto della mia vita e del calcio, cioè del mio lavoro. Mi tremavano le gambe all’improvviso». Anche il portiere più forte del pianeta può ritrovarsi nell’abisso. Sempre «all’improvviso», riemerse, «proprio là dove avevo paura di andare, agli Europei in Portogallo». Durante Italia-Danimarca, «una partita orrenda»: difatti, «ero l’unico che sorrideva». Da lì fa iniziare la sua storia, srotolata nelle 178 pagine di “Numero 1”, l’autobiografia pubblicata ora da Rizzoli (16 euro), insieme al giornalista del Corriere della Sera Roberto Perrone.
 

Gigi Buffon, che le era successo?

«È stato un periodo molto cupo, davvero. Perché poi io sono una persona solare, ottimista, molto altruista. Ma quando vivi una cosa simile, è chiaro che queste qualità vanno a farsi benedire, per parlar chiaro».

Ha scritto: «Era come se la mia testa non fosse mia, ma di qualcun altro, come se fossi continuamente altrove».

«Devi convivere con un Gigi nel quale non ti rispecchi. E finché non ti accade, non capisci l’importanza della situazione.

Pensare che, da ragazzo, nella mia inconsapevolezza, mi chiedevo come facessero le persone ricche, o normali, a cadere in depressione».

Quattrini e fama non le mancavano.

«Infatti. Allora lo capisci, che sono tutti discorsi sciocchi e superficiali. Perché ci possono essere mille motivi: anche se sei ricco e acclamato, poi questa condizione diventa la norma. E come tutti, che hanno lavori diversi, può capitare che venga a mancarti uno stimolo, o che tu non sia soddisfatto della tua vita».

Per esempio?

«Magari perché ti accorgi che non riesci a trovare la donna giusta, o non riesci a vincere la Coppa dei campioni. Oppure non riesci ad apprezzare quello che hai. Allora ti fermi e vieni sommerso da dubbi e da pensieri: ed è un attimo cadere nella depressione. È stato davvero un periodo brutto».

Cosa s’aggira per la mente?

«Ricordo che mi dicevo: “Ma che cosa me ne frega di essere Buffon?” Perché poi alla gente, ai tifosi, giustamente, non importa un cavolo di come stai. Vieni visto come il calciatore, l’idolo, per cui nessuno ti dice: “Ehi, come stai?”».

Inseguito dalle folle, ma solo.

«Tutti ti dicono le stesse cose: dai, forza Gigi, mi raccomando, la partita, mercoledì, domenica. Sai, ti ho visto a Paperissima. Ci fosse uno che ti chiedesse: “Scusa, ma ti è successo qualcosa?”»

Chi la salvò?

«Se hai una famiglia e dei rapporti importanti, e per fortuna io li ho, sono gli unici che ti possono dare una mano».

Andò anche da uno psicologo.

«Vero, ed è un’altra cosa che ho rivalutato. Pensavo fossero figure che rubassero, tra virgolette ovviamente, soldi agli insicuri. Invece sono persone che servono, perché se ne trovi uno bravo e capace, trovi una figura con la quale non hai paura a confrontarti. Parli di tutto, ti apri, senza il minimo timore: e farlo non è mai facile».

Mai pensato di mollare il pallone?

«Sai cosa pensi in quei momenti? “Ma porca puttana, perché sono Gigi Buffon, il calciatore conosciuto?” Perché finisce che, a volte, diventi schiavo della tua figura, di quello che sei. Se Buffon dice: “Vado due mesi via, a curarmi la depressione”, è finita. Dopo, ogni volta che sbagli, una parata per esempio, ci sarà sempre il richiamo di questa cosa. Allora non ti puoi permettere di andare via tre mesi per curarti».

Cita Marilyn Monroe: «Meglio piangere su una Rolls Royce che in un tram affollato», dicendo, però, che aveva torto.

«A parte che io giro con una 500, neanche mia, ma della Juve. Voglio dire che materialmente non mi mancava nulla, ma poi capisci che oltre alle cose, ci devono essere dei valori morali, affettivi, religiosi. Quando ti mancano, rischi».

Una «storia nera» da cancellare?

«Premessa: tutte le disavventure che ho avuto, alcune cercate con consapevolezza, se vogliamo, le ho sempre pagate, ci ho messo la faccia. Però ne vorrei cancellare una, quella del diploma comprato: fu un gesto di slealtà nei confronti degli altri e io di solito sono molto leale. Anche nei confronti dei miei genitori, che sono pure professori: il figlio che compra il diploma non è proprio il top».

Qualcosa che è rimasto fuori dal libro?

«Le mitiche occupazioni a scuola. E quando vedo tutto questo baccano, mi viene da ridere, perché sono stato studente e ricordo come andava: il 10% aveva un ideale, gli altri erano delle capre che seguivano la massa. Nell’ultimo anno andavo a scuola poco, tra squadra e Nazionale, e non vedevo l’ora che uno dicesse: “Ragazzi, sciopero”. Ero il primo che diceva a tutti di uscire».

Si mette nel novanta per cento?

«Sì, ma gli altri mi seguivano volentieri. La sera andavo a dormire a scuola, entravo con la Vespa, facevo dei lavori da matti. Allora dico: giusto sentire i ragazzi, ma non scordiamoci che molti se ne approfittano anche, come facevo io».

Si rimprovera qualcosa?

«Nulla, perché sono arrivato presto in questo mondo, a 17 anni, e penso avessi tutto il diritto di crescere sbagliando. Poi chiaro che a differenza di un altro ragazzo le mie storie finivano sui giornali. Se dicessi che sono soddisfatto, sarei scemo, però non mi sento in colpa. Un po’ della mia gioventù la volevo vivere come piaceva a me».

 

(La Stampa.it)