Ora tutti ricordano
il Pavarotti sbagliato

Sui media l'icona pop ha soppiantato il tenore.
Così il "vero" Luciano muore un'altra volta.

2 settembre 2008. - Luciano Pavarotti morì il 6 settembre scorso. Un anno dopo, si sta celebrando il Pavarotti «sbagliato»: la popstar, non il tenore.

Esaurite per esaurimento dei contendenti le polemiche fra i familiari, gli amici e gli eredi, è il momento del ricordo. Sono annunciate dalle due parti dell’Atlantico altrettante Messe da Requiem di Verdi, in cui il tenorissimo fu grandissimo: rispettivamente nella città dov’è nato e nel teatro dove ha cantato, in assoluto, di più. Dunque, sabato Requiem al Comunale di Modena, che adesso si chiama Pavarotti, diretto da Aldo Sisillo (diretta su Rai Radio3, replica il 7 perché i biglietti per il 6 sono andati esauriti in due ore), e Requiem il 18, al Metropolitan di New York, direttore James Levine. Sempre a Modena, il 3 ottobre, gran finale del concorso di canto intitolato al Maestro. A Parigi, il 13 settembre, concertone nel parco di Saint Cloud, con una prima parte lirica (canta, fra l’altro, Roberto Alagna, uno degli aspiranti a una successione impossibile: cantanti come Pavarotti non lasciano eredi, al massimo epigoni) e la seconda, ahinoi, leggera. E ancora, il 12 ottobre, giorno del compleanno, un «evento», ovviamente «mega», con gli amici pop a Petra, in Giordania. Sarà il primo «Pavarotti & Friends» senza Pavarotti, ovviamente a scopi benefici e fortemente voluto dalla vedova, Nicoletta Mantovani, e dalla Principessa Haya, figlia di Re Hussein di Giordania.

Fin qui tutto bene. Ma l’impressione che si ricava da questo anniversario è agrodolce, e forse più agra che dolce. Non tanto per le polemiche di questi dodici mesi, in fin dei conti preventivabili quando muore un uomo molto importante, molto famoso, molto ricco, molto popolare, insomma molto tutto. No: il punto è che si sta ricordando una specie di Pavarotti-bis, un’ombra dell’originale. Un’opinione pubblica incapace di farsi idee sue ha ormai introiettato quella, sbagliatissima, che la vera grandezza dell’uomo in frac fosse la sua celebrità mondiale e che la gloria di Pavarotti (che fu, beninteso, vera gloria), sia di aver eseguito canzoni negli stadi o improbabili duetti con star alla moda di cui, cinque minuti prima, non conosceva nemmeno il nome. Ma così la popstar cancella il tenore, l’icona planetaria l’artista vero, il grande cantante degli Anni Settanta e Ottanta il canzonettiere declinante dei Novanta. Luciano è diventato Pavarotti perché era, si sentiva e voleva essere ricordato come un tenore. Un grande tenore. Poi è arrivato il passaggio successivo, che gli ha portato popolarità e soldi, ma non ha aggiunto niente alla sua statura di artista. Anzi: l’ha sminuita. Disprezzare il business è quasi sempre ipocrita, ma non ha senso giudicare un artista dal numero di persone che lo riconoscono o di dischi che vende. Gli affari sono un’altra cosa. E infatti la sua casa discografica, la Decca, nell’anniversario della morte del suo artista più importante e pagante non trova di meglio che ristampare dimenticabili must come Va’ pensiero cantata con Zucchero o Live like horses con Elton John.

Non c’è stata trasmissione televisiva o articolo di rotocalco in cui non si sia belato che Pavarotti ha fatto tanto «per portare la gente all’opera». Detto e scritto, evidentemente, da chi non ci ha mai messo piede. Ma io non ho mai incontrato nessuno, in nessun teatro, che ci fosse entrato perché aveva sentito il tenorissimo duettare con le Spice Girls. Molti, invece, perché avevano ascoltato il Pavarotti vero, anche solo sui dischi. E che dischi: la Bohème con Karajan e la Freni, la Turandot con Mehta, gli Inediti verdiani con Abbado, il Ballo in maschera con Solti, il Guglielmo Tell con Chailly, la Fille du régiment con la Sutherland, gli incredibili Puritani e via scegliendo a caso in una discografia sterminata, la sua vera eredità.

E poi Pavarotti è stato un grande tenore (lasciamo perdere le classifiche, per favore) ma anche, in un certo senso, l’ultimo tenore. Per carità: l’opera è viva, molto più di quanto si creda in Italia dove si fa di tutto per mummificarla prima ancora che muoia, e di grandi cantanti ce ne saranno ancora. Ma Pavarotti apparteneva all’ultima generazione per la quale il melodramma non era né una raffinatezza elitaria né un obbligo culturale. Era ancora, piaccia o non piaccia (alla nostra cultura non è mai piaciuto), l’unica espressione artistica nazionalpopolare italiana, come aveva capito Gramsci. Il Luciano non ancora Big non era cresciuto ascoltando scemenze da un televisore, ma i 78 giri di Gigli e di Schipa. Erano i tempi in cui non si girava con l’iPod infilato nell’orecchio come tanti automi e il silenzio di una bella notte italiana poteva ancora essere rotto da una languida voce tenorile che intonava Verdi o Puccini. Era ancora vivo e vitale il sublime paradosso del melodramma: un’arte artificiosa, sofisticata, fatta di convenzioni, nata da un ristretto gruppo di intellettuali per una ristrettissima élite di cortigiani, che diventa un fenomeno popolare, che porta folle quasi analfabete a contatto con la Bellezza. Dove davvero cantava la memoria, la tradizione, la passione di un popolo intero. Come disse D’Annunzio di Verdi: pianse e amò per tutti. Questo è, o è stata, l’opera in Italia: quel miracolo che ha permesso al figlio del fornaio di Modena, come a quello dell’operaio di Napoli, di diventare Pavarotti o Caruso. E questo era Pavarotti: l’ultimo rappresentante di una tradizione antica, affascinante, bizzarra, talvolta cialtrona, spesso sublime, sempre autentica. Il resto è business, globalizzazione, mercato, immagine. Il Pavarotti sbagliato, appunto. Quello che tutti rimpiangono, perché quest’epoca è così piccola che non sa nemmeno ricordare la grandezza.

 

(La Stampa.it)