Rachele aveva
visto tutto

Marco Vichi

Non poteva che essere la manina di Rachele. Mi morsi le labbra, pensando a quello che poteva essere successo. Tutti pensavano che la bambina stesse dormendo come un sasso... invece lei si era svegliata, e in un momento in cui non c'era nessuno era entrata nella stanza dei genitori. Aveva visto sua madre morta, il cane sparato, il sangue sparso dappertutto... e chissà in che modo si era imbrattata una manina. La stessa che poi aveva appoggiato sul muro, prima di tornare nella sua cameretta. Purtroppo mi sembrava la spiegazione più logica.

Illuminai il pavimento, e osservai bene le impronte di tutte quelle suole che avevano camminato sul sangue. Dopo un po' trovai quelle che cercavo: scarpe da bambino. S'intravedevano appena, ma ero convinto di non sbagliarmi. Le seguii con la torcia. Alcune andavano dalla pozza di sangue accanto al letto fino al punto dov'era stato ucciso il cane lupo, altre si dirigevano verso la porta della cameretta. Un pensiero mi fece gelare. Poteva essere andata molto peggio di quello che avevo immaginato: forse Rachele si era nascosta sotto il lettone dei genitori, come fanno spesso i bambini, e aveva visto Buch che assaliva la mamma...

Speravo con tutto il cuore di sbagliarmi, ma ero sempre più convinto che fosse andata proprio in quel modo. Rachele aveva visto tutto, mentre succedeva, e da quel giorno la sua mente folgorata mischiava insieme realtà e leggenda. Aveva trasformato Buch in un lupo mannaro. Nulla di più facile, povera Rachele. Viveva chiusa nella sua follia, segregata in quella cascina tenebrosa con una vecchia nonna che aveva sorriso per l'ultima volta trentasei anni prima...

Un rumore sopra la mia testa mi fece sobbalzare, e d'istinto illuminai il soffitto. Dovevano essere dei grossi topi che si rincorrevano nel sottotetto. A un tratto quel buio intorno mi fece paura... Uscii in fretta dalla stanza, girai l'angolo del corridoio e trottai giù per le scale. Socchiusi il portone e spiai fuori, per controllare che non ci fosse il contadino con le bretelle rosse. Attraversai il giardino quasi di corsa. Aprii il cancello, richiusi il lucchetto e me ne andai a passo svelto. Solo in quel momento mi accorsi che per tutto il tempo avevo trattenuto il respiro.

Appena entrai in casa ripresi in mano il foglietto di Rachele, e mi misi a osservare i disegnini con molta attenzione. Dopo la visita alla villa mi sembravano più chiari. Ormai ero quasi convinto: Rachele aveva visto azzannare sua madre, e in quel momento aveva perso l'uso della ragione. Per questo disegnava scenette macabre, ma al posto del cane ci metteva il lupo mannaro.

A un tratto mi vennero in mente i conigli straziati e lo sterminio di polli denunciato dalla Cianfroni. Forse era stata lei, Rachele. Non mi sembrava un'idea sbagliata, anzi la spiegazione era a portata di mano. Roba da manuale del piccolo psicologo: per il classico gioco perverso dell'inconscio, la mente malata di Rachele aveva bisogno di rivivere le emozioni devastanti di quei momenti orribili, e non potendo fare altro si aggirava di notte nella campagna uccidendo a morsi polli e conigli. Non faceva una piega.

Immaginai anche la scena, come in un film. La notte Rachele si chiudeva nella sua stanza e aspettava che la nonna si addormentasse. Scavalcando la finestra scendeva sul tetto del fienile, si calava giù in qualche modo e vagabondava nei campi alla ricerca di una fattoria per poi azzannare piccoli animali... così come aveva visto fare a Buch con la sua mamma. Era proprio lei che avevo visto correre nell'oliveto, quella notte. La massa di capelli che di giorno restava nascosta sotto il fazzoletto, la notte si agitava libera sulla sua testa. Tornava tutto. Era lei il lupo mannaro. Niente zanne, niente orecchie a punta, solo follia.

Mi tornò in mente anche la storia dello studente tedesco trovato morto in mezzo al bosco, e mi domandai se Rachele potesse arrivare a tanto. Ma era una domanda senza senso. La follia non ha limiti. Povera donna. Non aveva nessuna colpa. Il mistero dei polli sembrava risolto. Un mistero un po' ruspante, ma sempre un mistero. Nonostante tutto mi sentivo soddisfatto. Rimaneva solo da capire cosa diavolo fossero le voci che avevo sentito alla villa. Forse erano davvero i fantasmi. Ero deciso a scoprirlo. Accesi il computer e aprii il file Orrore sulle colline. Dopo aver riletto l'ultima frase cominciai a scrivere come un forsennato, sulle tracce di un vero lupo mannaro con le orecchie a punta e il corpo ricoperto di peli.

Quando mi fermai erano quasi le undici. Mi bruciavano gli occhi. Andai in cucina per mangiare qualcosa e sopra il tavolo vidi il cellulare. C'era una chiamata da parte di un numero che non conoscevo, e pensai subito a Camilla. Guardai a che ora mi avevano cercato: sedici e ventidue, quando ero su alla villa. Provai a richiamare. Al decimo squillo rispose una voce femminile.

«Pronto?».

«Buonasera, sono Emilio Bettazzi. Ho trovato questo numero sul cellulare» dissi, per non scoprirmi troppo.

«Ciao, sono Camilla». Non capivo se era contenta o seccata.

«Ciao... come stai?». Una domanda magnifica. Lei rispose, ma ci fu un vuoto di segnale e non capii nulla.

«Non ti sento bene...» dissi.

«Ora mi senti?».

«Sì».

«Dicevo che po... ee... ol... ai... set...». Il segnale se n'era andato di nuovo, questa volta del tutto.


(Continua)



 

(La Stampa.it)