Le labbra di Camilla
rosse come il fuoco

Marco Vichi

Alle nove e quarantadue sentii in lontananza il rumore di un motore, e subito dopo vidi un’onda di luce muoversi tra gli olivi. Corsi dentro con il cuore accelerato. Non volevo farmi trovare sull’aia ad aspettarla, come un innamorato ansioso. Nascosto dietro la porta sentii la macchina che si avvicinava. Appena il motore si fermò, in punta di piedi tornai in cucina. Aspettai di sentirla bussare, e con passo tranquillo andai ad aprire. «Scusa il ritardo» disse lei entrando. «Quale ritardo?». «Che bella casa». Tremava un po’ dal freddo.

Era bellissima. Jeans e scarpe basse, trucco leggerissimo. La guidai in cucina, sperando di non avere sulla faccia lo stesso sorriso idiota che mi sentivo nel cervello. «Che bel fuoco...» disse lei. Era un ottimo inizio. «Fame?». «Muoio». «Fra dieci minuti si mangia. Un po’ di vino?» «Volentieri, grazie». Si avvicinò al camino per scaldarsi le mani. Alzai la fiamma sotto la pentola. Riempii i calici di Teroldego e ne passai uno a Camilla. Penne alla polpa di granchio. Speravo di stupirla. Lei si sedette sul divano. «Cos’è questa storia del lupo mannaro?». «Bisogna che ti racconti tutto dall’inizio, sennò non capisci...». «Comincia subito». Mi fissava con due bellissimi occhi neri. «Ti chiedo solo un favore. Niente commenti fino alla fine». «Giuro». «Bene».

Buttai la pasta e cominciai a raccontare, cercando di essere più chiaro possibile. Procedevo lentamente, per darle il tempo di riflettere. La sagoma umana che correva tra gli olivi, il maresciallo Pantano, la signora Rondanini, l’ispezione alla villa, la copia delle chiavi... Ci sedemmo a tavola, davanti alla pasta fumante. Continuai a parlare con calma, senza tralasciare i particolari. Camilla mi ascoltava senza aprire bocca. Guardavo le sue labbra rosse e immaginavo di metterci sopra le mie. Dopo la macedonia stappai la bottiglia di vin santo. Riempii due bicchierini tozzi e andammo a sederci sul divano, davanti al caminetto.

Continuai il mio racconto, mentre le fiamme illuminavano il suo viso. Era un momento magico, che non si sarebbe mai ripetuto. Al secondo bicchiere arrivai alla fine della storia. Dopo qualche attimo di silenzio mi alzai, e mi misi a camminare su e giù dietro la spalliera del divano. «Ora che sai tutto ti riassumo la storia. Rachele ha cinque anni. Una sera si nasconde sotto il letto dei genitori e vede il cane lupo, Buch, che sbrana sua madre. Ovviamente subisce un trauma, e si chiude in se stessa. La sua mente è incapace di elaborare quella terribile verità, che per anni resta sepolta nel suo inconscio. Nella sua psiche si crea una specie di equilibrio malato. Da una parte le immagini della tragedia che cercano di venire a galla, dall’altra la coscienza di Rachele che vuole cancellarle. Forse è tutta qui la sua demenza. Due forze che combattendosi si annullano, senza lasciare spazio a nient’altro.

Ma andiamo avanti. A un certo punto, per chissà quale motivo, l’equilibrio si spezza. Dall’inconscio di Rachele emerge una pulsione nuova, una volontà incontrollabile che la spinge a rivivere l’orrore che ha visto da bambina. E così la notte scappa da casa e vaga per la campagna, uccidendo dei poveri animali da cortile... Allora, che ne pensi?». Ero ansioso di sentirmi elogiare, ma Camilla era accigliata. «Be’...». Non disse altro. «Be’ cosa?». «Credi davvero che Rachele vada in giro di notte a...». «Perché no?» la interruppi. Lei bevve un sorso di vino, pensierosa. «Non so, mi sembra tutto così strano...». «Dovevi vedere come si mordeva le braccia». «Questo non dimostra che sia lei a uccidere le galline». «L’ho anche vista due volte girovagare di notte nella campagna... sono quasi sicuro che fosse lei». «Hai detto quasi». «Un tributo all’imponderabile». «Non so...» ripeté lei, per niente convinta. Si mise a fissare il vuoto. Mi riempii di nuovo il bicchiere e restai in piedi.

Ero un po’ agitato. «Se ci pensi bene non fa una piega. Sono successe spesso cose del genere. Ti ricordi il mostro russo che mangiava i bambini? A otto anni aveva visto divorare il fratellino, e dopo un sacco di tempo...». «Non mi ricordare quella storia» disse Camilla con una smorfia. Andai a sedermi sul divano accanto a lei, e le riempii il bicchiere. «Dimmi la verità. Credi davvero che Rachele sia nata demente, come dice sua nonna?». «Non ho elementi per pensarla diversamente». «Nemmeno dopo quello che ti ho raccontato?». «Ammetterai che non è facile crederci». «Ero convinto di sì». «C’è anche chi è convinto di essere Napoleone...» rise lei. Finsi di non aver accusato il colpo. «Andiamo avanti. So che esiste il segreto professionale, ma quella notte che ti ho accompagnato dalla signora Rondanini, eri andata per lei o per Rachele? Non è una semplice curiosità, fai conto che sia un’indagine». Aspettavo la risposta con aria drammatica, ancora scosso dal suo scetticismo. Camilla ci mise un po’ a rispondere. «E va bene, in fondo è una cosa da nulla... La signora mi ha detto che da qualche tempo non riesce più a dormire. Voleva un sonnifero, e le ho dato una scatola di compresse che avevo nella borsa». «Secondo me le schiaccia con un cucchiaio e le scioglie nell'acqua di sua nipote. Forse si è accorta che la notte scappa di casa e cerca di impedirglielo» dissi, cercando di trovare appigli alla mia teoria. Camilla fissava le fiamme che si agitavano nel camino, mordendosi le labbra.

 

(Continua)

 

(La Stampa.it)