America, quando i migranti eravamo noi

Alla mostra di Venezia il regista italiano Emanuele Crialese racconta, in "Nuovomondo", le storie degli italiani che emigravano negli Stati Uniti in cerca di fortuna.

VENEZIA, 8 settembre 2006. - Quando gli immigrati eravamo noi. Quando gli italiani, trattati come bestie, si ammucchiavano nelle navi in partenza per l'America, e non tutti sopravvivevano alla traversata. Quando la terra promessa, Ellis Island, dopo lo sbarco si rivelava un lager. Quando i nuovi venuti venivano ispezionati come cavie da laboratorio, e i più deboli deportati in patria. Per non dimenticare da dove veniamo, per recuperare - in forma poetica - questa nostra memoria, arriva qui alla Mostra il secondo, attesissimo film italiano in concorso: "Nuovomondo" di Emanuele Crialese. Accolto da molti applausi, alla proiezione mattutina riservata alla stampa.

Insomma un buon esordio festivaliero per l'autore, già considerato cult per la sua pellicola precedente, "Respiro": vincitrice della Settimana della critica a Cannes, accolta con indifferenza in Italia, diventata poi un successo internazionale. Un boom che ha permesso al regista (classe 1965) di dedicarsi a un film impegnativo e ambizioso come quello che vediamo oggi al Lido.

Ambientata ai primi nel Novecento, la storia è divisa in tre parti di uguale lunghezza: la Sicilia, la traversata, lo sbarco a Ellis Island, l'isola che è di fronte a New York. Si comincia dunque a Petralia Sottana, paesino di pastori. E' qui che vive il protagonista Salvatore (il Vincenzo Amato di "Respiro"), vedovo e padre di due ragazzi, uno dei quali (Filippo Pucillo) è muto. L'uomo decide di partire per la terra promessa, suggestionato dalle leggende di un paese della cuccagna in cui sui rami crescono le monete e in cui ci si fa il bagno nel latte. E così decide di affrontare la traversata insieme ai figli e alla madre (Aurora Quattrocchi), molto riluttante a lasciare il luogo d'origine.

I quattro dunque si imbarcano sulla nave. E qui, tra gente ammassata come su un carro bestiame, conoscono Lucy (Charlotte Gainsbourg): inglese decisa a conquistare il diritto di restare in America con un matrimonio. E, tra i tanti passeggeri che la guardano con desiderio, lei sceglie proprio il mite Salvatore. Intanto, dopo quattro settimane in mare (con tanto di tempesta in cui muoiono diverse persone), i nostri eroi giungono a Ellis Island.

Ed è qui che comincia la parte forse più straziante - e più realistica - del film. Perché gli immigrati vengono sottoposti a una serie di operazioni che ricordano più un lager, che un centro d'accoglienza: lavaggio, accurate (e invasive) visite mediche, test di intelligenza per stabilire chi può e non può rimanere. Chiunque sia debole, o anziano, viene rispedito indietro. Mentre le donne, che possono entrare nel Paese solo se non sposate, vengono costrette a una sorta di umiliante "asta" in cui gli uomini già residenti le scelgono come mogli. Il finale, però, abbandona il realismo per la poesia: vediamo infatti i protagonisti, dal destino ancora incerto, fare il bagno nel latte.

In altre parole, un mix tra ricostruzione storica e potenza dell'immaginazione. Come del resto Crialese conferma: "Al realismo preferisco il mito, è vero. Ma il film ha comunque una sua base concreta e una sua attualità: ad esempio sono assolutamente veri i test d'intelligenza e attitudinali a cui venivano sottoposti gli immigrati. Un meccanismo bio-politico di persecuzione e di discriminazione. Ma dietro il viaggio di Salvatore e della sua famiglia io vedo soprattutto l'epocale passaggio dall'uomo antico all'uomo moderno. Ed è questo che ho voluto raccontare". Sarà: ma è vero che a colpire gli spettatori è soprattutto lo strazio atroce della "selezione" a Ellis Island. Quella burocratica mancanza di umanità che - forse - colpisce anche i clandestini che sbarcano oggi sulle nostre coste.

 

Da Repubblica.it