Beethoven si sarebbe potuto
fermare lì


Di Alessandro Baricco.

10 Agosto 2006. - Non c'è nulla come la musica classica, per capire cosa avessero in testa i romantici. Ma come fanno a scuola a spiegare tutto senza neanche un'ora di Beethoven, o Schumann, o Wagner?

Si può partire da una domanda solo apparentemente scema: c'era la musica classica, prima che inventassero l'idea di musica classica? Naturalmente sì. Non si chiamava così, non c'entrava niente col romanticismo, non era pagata dai borghesi, era sentita da pochissimi, ma c'era. Una forma elitaria di intrattenimento, dai modi piuttosto sobrî e intellettualistici. Spesso legata al piacere della danza, altre volte legata a testi poetici. C'era naturalmente un versante religioso: musica liturgica, o composizioni votate all'elevazione morale del credente: insomma il solito, massiccio, lavoro pubblicitario pagato dalla Chiesa per promuovere il suo prodotto (chissà quanto ci metteremo ancora ad ammettere che siamo debitori del meglio dell'arte occidentale alla geniale intuizione di una setta religiosa che inventò la pubblicità e vi investì quantità di denaro irragionevoli). Adesso noi leggiamo quel mondo con gli occhi del poi, ammaestrati da quel che successe dopo. Per cui, in generale, tendiamo ad attribuire a quella musica del cinque-seicento le stesse qualità che abbiamo imparato a riconoscere in un Beeethoven, o in un Verdi. Ma in realtà è un effetto ottico. Là dove le attribuiamo una certa elevatezza spirituale, o addirittura una superiore espressione dell'animo umano, è probabile che gli ascoltatori del tempo registrassero giusto una certa eleganza, o un'intensità cui non sapevano dare nomi.

Ma l'idea stessa che, per loro, quella forma di intrattenimento avesse a che fare con sentimenti e non con sensazioni, è quanto meno dubbia: per come l'abbiamo ereditata noi, la mappa del sentimentale era, ai tempi, una cosa ancora da inventare. Che ci fosse un umanesimo profondo, in una parte più colta dei compositori, è certo: ma ci si può domandare se, tolti i nomi che poi, retrospettivamente, abbiamo riconosciuto come grandi, il resto del consumo musicale non girasse, in realtà, a un numero di giri, spiritualmente, assai inferiore. Probabilmente nel mirino avevano poco di più che un sofisticato diletto.

A furia di dilettarsi, comunque, affinarono tecniche, strumenti e linguaggio. L'aristocrazia del primo settecento ereditò così una forma di intrattenimento già matura, pronta per diventare l'espressione ufficiale del suo primato sociale, e del proprio lusso. Così la usò, massicciamente. Il pubblico restava quello selezionatissimo dei saloni di palazzo e dei teatri di corte, e i musicisti rimanevano degli impiegati, se non dei servi: figure comparabili a un giardiniere o a un cuoco. Ma indubbiamente iniziò ad affacciarsi l'ipotesi di una forza espressiva che sembrava perfino sprecata se l'unico obbiettivo era fare da scenografia sonora alla noia dell'Ancien Régime. Su per la dorsale Bach - Haydn - Mozart, crebbe un linguaggio che faceva quasi fatica a rimanere nel contorno dell'eleganza e del puro intrattenimento. Noi oggi, sempre per via di quell'illusione ottica che ci dà il sapere come le cose andarono a finire, tendiamo in realtà a ingigantire quella forma di insofferenza, attribuendole ambizioni spirituali che probabilmente non si sognò mai di avere. Se conosci la Nona di Beethoven, il Don Giovanni di Mozart ti sembrerà effettivamente carico di echi romantici. Ma nel 1787 lo spettatore reale del Don Giovanni non aveva mai sentito Beethoven, e neanche si sognava una cosa come Chopin: facile che il Don Giovanni gli sembrasse giusto bizzarro, bello da sentire e stop. Troppe note, ebbe a dire, pare, l'imperatore Giuseppe II. Era un uomo del suo tempo.

In realtà, a voler essere cinicamente esatti, fu con Beethoven che nacque, davvero, l'idea di musica classica che noi abbiamo ereditato e che ancora usiamo. Nella sua musica davvero accadde che quel linguaggio raffinato lievitasse al punto da offrirsi come dimora di un riflesso alto, sentimentale, e perfino spirituale della sensibilità umana. La tensione, l'intensità, la spettacolarità che portava con sé, era quasi il fisico spalancamento di spazi che non aspettavano altro che il defluire di una spiritualità fino ad allora clandestina e nomade. Fu una mirabile coincidenza di eventi: nello stesso istante in cui la borghesia nascente intuiva la necessità di una propria elevazione ad aristocrazia del sentire, quella musica coniava esattamente la forma e il luogo in cui trovarla.

Non a caso Beethoven fu praticamente il primo a comporre simultaneamente per l'aristocrazia settecentesca e per la ricca borghesia del primo ottocento: stava in bilico su un confine, e aveva tutta l'aria di un testimone che sanciva la staffetta dal potere aristocratico a quello borghese. Il fatto che fosse apprezzato da entrambe dà un'idea della vertiginosa ricchezza di quel che fece: era una musica capace di emozionare due civiltà diverse e, in certo senso, antitetiche.

Il gesto strategicamente geniale dei romantici fu quello di adottarlo come padre fondatore di ciò che avevano in mente. E' difficile dire se a lui sarebbe piaciuto, ma loro lo fecero, e in questo dimostrarono un'astuzia e un'intelligenza sbalorditive. Beethoven fu per loro il lasciapassare per una nuova civiltà. Era un maestro intoccabile, e sarebbe bastato dimostrare che, in realtà, stava dalla loro parte. Ci riuscirono. Non era nemmeno tanto difficile: in effetti quella musica sembrava generare e descrivere esattamente ciò che essi intuivano come il respiro spirituale dell'uomo romantico. Nel modo più alto, quasi riassuntivo, sembrava farlo in un'opera particolare: la Nona sinfonia. Ancora ai tempi di Wagner era adottata come totem supremo, luogo dell'origine e legittimazione fondante di tutto ciò cui la musica del tempo aspirava. E in effetti, se ci pensate, quella sinfonia sembrava davvero disegnare, fisicamente, la silhouette della spiritualità romantica. La sua lunghezza esagerata alludeva nel modo più chiaro a un'espansione dell'orizzonte umano. La sua difficoltà (alla prima esecuzione, metà del teatro se ne andò prima della fine, esausta) già preconizzava l'idea, molto borghese, che la crescita spirituale dell'individuo passava attraverso un selettivo cammino di fatica e di studio. E poi c'era la prodezza finale: quell'Inno alla Gioia. Tre movimenti strumentali e poi un ultimo movimento con l'ingresso, anomalo, della voce umana e di un testo poetico (guarda caso Schiller, uno dei padri nobili del romanticismo). Era una struttura accecante, nella sua esattezza. Nei primi tre movimenti c'erano tutte le conquiste linguistiche beethoveniane, e dimorava, quasi come in un dépliant promozionale, tutta la gamma delle possibilità spirituali dell'uomo borghese.

Beethoven si sarebbe potuto fermare lì: è invece c'era ancora un gesto da fare, acrobatico, per consegnare ai romantici quello che davvero cercavano: riconoscere a quel cammino spirituale la meta più alta, Dio. Addirittura dedurre l'orizzonte religioso dai materiali della spiritualità laica dell'uomo: porlo come ultimo scalino di un'ascesa tutta umana. Lo fece con quell'Inno da cui, ancor'oggi, siamo soggiogati. Il testo di Schiller convocava esplicitamente Dio al cospetto della spiritualità dell'uomo. L'uso spettacolare del coro, strumento che era privilegio della musica sacra, gettava il linguaggio terreno della musica oltre se stesso. Difficile immaginare qualcosa di più perfetto.

La Nona non era musica romantica: ma fondava il campo da gioco della musica romantica. Inventava e sanciva per sempre l'esistenza di uno spazio intermedio tra natura e divinità, tra la materiale eleganza dell'umano e il trascendentale inifinito del sentimento religioso. Lì, precisamente lì, l'uomo borghese avrebbe collocato se stesso. Quando noi, eredi del romanticismo, usiamo generiche espressione come anima o spiritualità, indichiamo quello spazio. Quella terra intermedia.

La musica classica è stata per secoli uno dei modi più precisi per abitare quella terra. Per rigenerarla ogni volta, in sé, contro la miseria della vita quotidiana. Ancora fino agli anni '70 del novecento è stata, per la borghesia dell'occidente, un rito ideale per confermarsi nella propria nobiltà spirituale. E anche quando era ormai, in realtà, puro diletto raffinato, era vissuto come gesto spirituale, a priori. E' questa concessione che, per lungo tempo, le ha permesso di offrirsi ancora come efficace coagulante dell'identità borghese. C'è un momento esatto in cui ha iniziato ad andare in crisi: quando si sono fatti vivi i primi barbari.

Quello della musica classica è indubbiamente uno dei villaggi usciti peggio dall'invasione barbarica. Il suo evidente rifarsi a una civiltà del passato (addirittura maniacale nella fissazione su un repertorio fatalmente circoscritto) l'ha lasciato praticamente senza difese. I barbari, come abbiamo visto, non hanno l'istinto a distruggere e basta: quel che immediatamente cercano di fare è convertire quel che trovano in sistema passante. Ma la musica classica offre una resistenza a una simile metamorfosi che altri gesti non sfoggiano. Più che distruggere, allora, se ne sono semplicemente andati. Non se ne cava niente, devono aver pensato. Quel che non ci deve sfuggire, è che, nella loro logica, è un gesto sensato. Proprio perché così saldamente collegata a un'idea di spiritualità borghese, quella musica ha poco da offrire ai barbari. Se tu cerchi di vivere senza anima, che te ne fai di Schubert?

Voilà. Mi impressionano un po' queste ricostruzioni in poche righe di secoli di storia, ma dev'essere un tratto barbaro che già si è impossessato di me. Surfing. E' tutta colpa di queste branchie che mi sono spuntate. Comunque il senso dell'operazione era di farvi vedere da vicino cosa intendiamo con espressioni come anima o spiritualità. Volevo portarvi a pensare che non sono tratti costitutivi dello stare in terra, ma derivano da un processo storico che ha avuto un suo inizio e probabilmente avrà una sua fine. E' altrettanto importante capire che noi usiamo quelle categorie nella formulazione che ne ha dato un preciso gruppo sociale in un preciso momento storico. Fa perfino sorridere dirlo, ma non abbiamo ancora cessato di usare parole d'ordine romantiche. E la resistenza che facciamo all'invasione barbarica spesso si riduce a un'inconsapevole difesa di principi romantici coniati secoli fa. Di per sé non ci sarebbe niente di male: i principi possono restare validi per millenni, non sono surgelati che scadono. Ma è anche vero che uno sguardo sugli uomini che generarono simili principi aiuta a riflettere. Anzi, posso permettervi di farveli vedere? Ne ho convocato uno, emblematico, qui. Comprate il giornale, domani, e in questa pagina ve lo faccio conoscere.