La morte di Franco
il Caso e il Destino

«Mi sono trovata davanti un colosso mezzo nudo, con un cesto di capelli sulla testa».

Le mandai un messaggio, Se hai una macchina fotografica digitale portala per favore, poi ti spiego. Bacio. Le avevo scritto più per il bacio che per la macchina.

Alle nove e mezzo apparecchiai la tavola. Camilla non mi aveva risposto. Misi la solita pentola d'acqua sul fuoco, sistemai due ciocchi nel camino e continuai a leggere, cullato dal poderoso tic tac dell'orologio a parete.

Alle undici sentii la macchina di Camilla che si fermava sull'aia. Scodinzolai, alzai la fiamma sotto la pentola e andai ad aprire.

«Oddio che paura...» disse lei entrando. Le tremava un po’ la voce.

«Che ti succede?».

«Dammi qualcosa da bere». Andammo in cucina, e le servii un bicchiere di vino. Camilla bevve un lungo sorso e si lasciò andare sul divano. Inutile dire che era bellissima. Aveva i soliti jeans stretti stretti e un giubbotto di pelle nera.

«Ora ci credo, ai lupi mannari...» sussurrò.

«Sono tutto orecchi». Ero un po’ preoccupato.

«Stavo guidando sulla provinciale... A un tratto mi sono trovata davanti un colosso mezzo nudo, con un cesto di capelli sulla testa...».

«Il mio gigante».

«Non so come ho fatto a non andargli addosso».

«Probabilmente avresti sfasciato la macchina...».

«È rimasto immobile davanti al cofano, a guardarmi. Non sapevo cosa fare... Mi sono attaccata al clacson, e finalmente lui si è buttato in mezzo ai campi».

«Perché non usciamo a cercarlo?» proposi.

«Non ci penso nemmeno».

«Come non detto».

«Mi domando come hai fatto a scambiare quel ciclope per Rachele».

«Era notte, l’ho visto di lontano... e poi si muoveva con agilità, non sembrava così grosso» mi giustificai, anche se sapevo che a ingannarmi era stata la volontà di confermare le mie teorie.

«E se fosse davvero lo yeti?» fece lei.

«Se ti sente il maresciallo ti arresta».

«Oh, sì...».

Buttai la pasta, spaghettini De Cecco. Alla carrettiera.

«Avevi ricevuto il mio messaggio?».

«La macchina digitale?».

«C’era anche un bacio, a dire il vero».

«A che ti serve?» fece lei.

«Il bacio?».

«La macchina...».

«L’hai portata?»

«Ce l’ho sempre dietro, ma non so se è un granché» disse lei, aprendo la borsa. Tirò fuori una digitale e me la passò. Era una bella Canon a cinque megapixel, con un obiettivo ottico niente male.

«È perfetta. Me la presti?».

«Vuoi fotografarti nudo allo specchio?».

«Voglio fare un servizio sull’accoppiamento dei cinghiali. È tutta la vita che aspetto questo momento».

«Dai, a che ti serve?».

«Dobbiamo fotografare il lupo mannaro che azzanna le galline» dissi, serio.

«Il gigante?».

«Proprio lui».

«Vacci da solo, non ci tengo a rivederlo».

«Come vuoi, ma ti perdi la vera emozione».

«Ho fame».

«Dev’essere quasi pronta». Appoggiai la digitale sopra la credenza e assaggiai la pasta. Mancavano ancora un paio di minuti, e ne approfittai per mettere altra legna nel camino.

«E come fai a fotografarlo?» disse Camilla.

«Semplice. Lo chiamo sul cellulare e gli chiedo un appuntamento».

«Una bella cena a lume di candela?».

«Già, le candele...». Ne avevo viste un paio, dentro un cassetto. Semplici candele bianche per quando saltava la corrente, ma andavano benissimo. Le accesi e le misi sul tavolo infilate in due bicchierini.

«Come ti sembra?».

«Ci manca solo un teschio nel mezzo, poi è perfetto».

«Ti sembra così macabro?».

«Ma no, è carino...». Sorrise. Anche lei aveva un cuore, in fondo.

Scolai la pasta, molto al dente, e ci sedemmo a tavola. Le candele facevano il loro effetto. Continuammo a parlare degli arcani di Fontenera, bevendo un ottimo Primitivo.

Dopo cena ci sedemmo sul divano, davanti al fuoco. Le fiamme erano magnifiche, il divano era magnifico, le crepe sui muri e il tic tac dell’orologio erano meravigliosi... e capii che stavo perdendo la testa per quella bella dottoressa dai capelli neri. Calma, Emilio, calma.

Le raccontai della radio-spia che avevo ordinato, e della mia idea di piazzarla dentro la villa con la meridiana. Lei mi guardò con un certo stupore, ma non disse nulla.

Esauriti i misteri di Fontenera mi lasciai andare. Le raccontai di Franco, la nostra amicizia, la sua morte in ospedale e tutto il resto. Mi stavo avventurando lungo una strada che tirava in ballo il Caso e il Destino... a un tratto lei mi si avvicinò e mi prese la faccia fra le mani. Aveva le dita calde. Mi baciò, poi mi sussurrò all’orecchio.

«Non avevi una collezione di farfalle, in camera da letto?».

«L’ho venduta ieri a un marocchino».

«Anche il letto?».

«Quello no...».
«Fai una canna, ti aspetto di sopra» fece lei, alzandosi.

«Sai dove andare?».

«Abbi fiducia» disse lei con un sorriso appena accennato, simile a quello della Gioconda. Si avviò verso le scale e non riuscii a evitare di guardarle il culo, stretto in quei jeans micidiali. Rimasi un po’ stordito per qualche secondo, poi mi svegliai e cominciai a occuparmi della canna. Non era facile, in quella situazione. Me la infilai in bocca e salii le scale, con la sensazione di andare incontro al mio destino.

Entrai in camera mia. Camilla era sdraiata sul letto con un libro in mano, e appena mi vide lo chiuse. L’unica luce accesa era la lampada sul comodino, e la stanza era piena di ombre. Mi sedetti sul bordo del letto, le passai la canna e gliela accesi. Lei ne fumò più di metà, poi me la infilò tra le labbra.

«Tutta tua» disse.

«Stai parlando di te?».

Sorrise. Mi abbassai su di lei e la baciai. La sua lingua sapeva di bacco e di tabacco, e lei era Venere. Mi sentivo poetico. Alzai la testa per spegnere la canna nel posacenere, poi mi sdraiai accanto a lei e continuai a baciarla. Cominciammo ad accarezzarci. Si aprì qualche bottone e calarono un paio di cerniere, ma restammo vestiti. Due ragazzini alla scoperta del sesso. Il suo odore mi stordiva. Il cuore mi batteva svelto. Mi sentivo più o meno come da bambino la vigilia di Natale, quando attraverso una porta a vetri vedevo lampeggiare le palline colorate dell’albero. Davanti a me avevo una persona tutta da scoprire, e non sapere quasi nulla di lei era più emozionante di un salto nel vuoto. Riuscivo addirittura a non pensare ai lupi mannari e alle galline decapitate. Un bacio più lungo, poi ci guardammo negli occhi. I suoi luccicavano come sassolini bagnati.

«Starò via qualche giorno, parto domattina».

«Vai da tuo marito?» chiesi, un po’ per gioco e un po’ no.

«Vado dai miei, è il compleanno di mia mamma».

«Sono sicuro che è una donna bellissima».

«Più bella di me di sicuro».

Un altro bacio.

«Sai già quando torni?».

«Giovedì».

«Ma sono quattro giorni...».

«Sopravviverai?».

«È proprio quello che mi domandavo... Meno male che esistono i cellulari».

«Preferirei il silenzio radio, ho bisogno di riflettere».

«Su di me?».

«Non sentirti sempre il centro del mondo».

«Le donne che riflettono mi fanno paura...».

«Perché sei un porco» fece lei, e mi strizzò il naso.

«Preferisco essere un lupo mannaro» sussurrai alzando il labbro di sopra. Lei mi tirò sopra di sé e mi baciò ancora, abbracciandomi con le gambe.

Non scopammo nemmeno quella sera, ma i baci continui e la sua pelle caldissima sotto i vestiti erano un’attesa bellissima... ecco, quando usavo i superlativi voleva dire che mi stavo innamorando sul serio. Speravo di non essere il solo.

Camilla se ne andò verso le quattro. Rimasi a guardare la sua macchina che spariva nel buio della campagna, e continuai a sentire il rumore del motore per almeno un minuto. Poi silenzio. Prima che chiudessi la porta in lontananza si alzò un verso lamentoso, ma non riuscii a capire se era un uomo o una bestia.

(Continua)
 
 

(La Stampa.it)