Agitava in aria le mani
per scacciare la luce

Marco Vichi.

«Ciao».

«Ciao... Ma che è successo?». disse lei.

«Dove sei?».

«Sono ancora a Firenze. Che succede?».

«Hai sentito della donna sbranata?».

«Non vivo mica in una caverna...».

«Però non sai che sono stato sul luogo del delitto. E ho anche visto arrivare la scientifica». Non le dissi di aver pensato che la morta era lei, e nemmeno che avevo fatto la conoscenza del barbuto.

«Figurati se te ne perdevi una» fece Camilla.

«È più o meno quello che mi ha detto il maresciallo. C’era anche lui».

«Se penso che è successo a pochi chilometri da casa mia...».

«E se ci fosse davvero un lupo mannaro?».

«Basta... Finirò per crederci sul serio».

«Comunque non è per questo che ti cercavo».

«Volevi dirmi quanto ti manco?».

«Sono riuscito a capire cosa succede alla villa con la meridiana» buttai lì con noncuranza.

«Parli di quelle voci?».

«Esatto».

«Non dirmi che ci sono davvero fantasmi...».

«Te lo dico quando ci vediamo».

«Stronzo... dimmelo ora...».

«Saprai tutto appena ci vediamo».

«È un ricatto?».

«Sì».

«Se me lo dici subito, appena torno... ti faccio contento» sussurrò lei.

«Questa è corruzione».

«Siamo in Italia, no?».

«Sii più chiara. Mi fai contento in che senso?».

«Sto parlando di sesso».

«La regina della delicatezza...». Ce l’avevo già mezzo ritto, e lo considerai un buon segno. Non mi capitava spesso di eccitarmi per telefono.

«Ci sono i fantasmi o no?» insisté lei.

«Nulla da fare. Quando ci vediamo?».

«Dopodomani».

«A cena da me?».

«Va bene... stronzo».

«Ti aspetto per le nove?».

«Alle otto».

La notte era mia. Ero pronto per l’ennesima battuta di caccia. Alle dieci montai in macchina con una canna in bocca e scivolai verso la provinciale, accompagnato dal violoncello di Baldovino. La luna calante aveva la forma di un limone, e il cielo era così nero e pulito che sembrava dipinto.

Ero molto più preoccupato delle altre volte, ma anche più deciso. Qualcosa mi diceva che quella notte avrei finalmente incontrato il gigante, anche se una parte di me sperava il contrario. Ero pieno di contraddizioni.

Passavo e ripassavo in quelle stradine sterrate, con la digitale a portata di mano e la sigaretta facile. Le Suites per violoncello di Bach mi entravano nel cervello come un verme caldo, impedendo al barbuto di guadagnare terreno.

Mi venne in mente il racconto che stavo scrivendo... Orrore sulle colline, appunto. Era una storia molto simile a quella che stavo vivendo, ma si svolgeva in un mondo dove i lupi mannari esistevano davvero. C’era questo Filippo che si era messo in testa di fare tutto da solo...

L’atmosfera del racconto avvolgeva il mio viaggio notturno, e le chiazze nere dei boschi che si stagliavano in mezzo alla campagna mi sembravano imperi del male. Forse era anche merito dell’erba. Ormai conoscevo ogni avvallamento di quelle stradine. La luce degli abbaglianti si scontrava con muraglie di cespugli e distese di olivi. Scene memorabili.

Dopo l’ultima Suite ringraziai Baldovino, e misi il CD di Transformer. Basso basso. Il suono sembrava nascermi dentro la testa.

Vidi un paio di cinghiali che passeggiavano tranquilli in mezzo alla strada, e poco dopo una lepre s’incantò davanti ai fari della macchina. La notte era piena di vita.

Tornai sulla provinciale. Magari in quel momento il gigante era sotto le mie finestre. Guidavo lentamente verso casa, ipnotizzato dalla voce di Lou Reed. Le tre e mezzo. Ero rassegnato ad andarmene a letto a mani vuote. Imboccai una curva, e quando entrai sul rettilineo mi sembrò di vedere un’ombra in fondo alla strada, più o meno a un centinaio di metri. Sentii una contrazione al collo, e rallentai. Spensi i fari e la musica. Non mi ero sbagliato. C’era qualcuno che camminava, dandomi le spalle. Mi avvicinai ancora... Era lui, il gigante. Stava avanzando a grandi passi sul ciglio della strada.

Afferrai la digitale, ma in quel momento il mostro scartò di lato e s’infilò nel vigneto. Fermai la macchina e scesi. Al chiarore della luna vedevo la sua sagoma muoversi tra le vigne ormai ingiallite. Più avanti cominciava il bosco. Mi feci il segno della croce e gli andai dietro, nascondendomi dietro le viti. Avevo la torcia in tasca e la digitale appesa al collo. Il gigante era a una cinquantina di metri da me, e continuava a dirigersi verso il bosco. Riuscivo a sentire i suoi borbottii, a volte sembrava addirittura che ridesse...

Ero un coglione, lo sapevo. Stavo seguendo un colosso che aveva sbranato una donna. Pensai a Camilla. Ancora poche ore e forse avremmo fatto l’amore. Perché non tornavo indietro? Vidi mia madre che andava all’obitorio per il riconoscimento del cadavere, e stentava a capire dove fosse la mia faccia...

Il gigante sparì in mezzo agli alberi e affrettai il passo, tenendo ferma la digitale con una mano. Entrai nel bosco una decina di secondi dopo di lui. Era buio pesto, e dovetti fermarmi. Non volevo accendere la torcia. Dopo un po’ cominciai a scorgere i contorni delle cose, e m’inoltrai nel bosco. Non dovevo pensare troppo a quello che stavo facendo.

Avanzai lentamente in mezzo alla vegetazione. Davanti a me, forse a una trentina di metri, sentivo il fruscio del gigante che camminava nella boscaglia. Possibile che non mi avesse ancora visto?

A un tratto calò il silenzio, e mi bloccai. Il gigante doveva essersi fermato. Magari mi aveva sentito. Mi accucciai e presi in mano la torcia elettrica. Trattenevo il respiro, ma a parte il vento che passava tra le foglie non si sentiva nessun altro rumore. Mi accorsi che stavo sudando. Forse avrei fatto bene a tornare indietro... E se il gigante mi avesse inseguito? Avrei dato una mano per essere già a casa con la spranga alla porta. Quel silenzio non mi piaceva per niente. Perché non si muoveva più? Che stava facendo?

A un tratto sentii dei passi, e il rumore di qualcosa di grosso che strusciava contro i cespugli. Rimasi immobile, schiacciato per terra. I passi si avvicinavano, irregolari, e sentivo anche un borbottio sordo. Forse i miei capelli erano già diventati tutti bianchi. Aspettavo solo l’urlo dell’uomo lupo... Sarei morto senza aver scopato Camilla, ero un vero coglione...

I passi erano sempre più vicini. Sentii un ringhio prolungato, vidi muovere il cespuglio di ginepro di fronte al mio naso... Mi alzai in piedi di scatto puntando la torcia nel buio, cacciando un urlo disumano. Mi rispose un grugnito isterico, e nel cono di luce apparve un grande occhio attorniato di peli neri, luccicante di sorpresa. L’occhio mi fissò per un paio di secondi, poi il cinghiale si lanciò in una fuga fragorosa in mezzo alla boscaglia, sfondando ogni ostacolo che gli si parava davanti. Un cinghiale, cazzo. Accidenti alla sua mamma puttana. Speravo che il cuore non mi scoppiasse.

Feci scorrere lentamente la torcia tutto intorno... tronchi d’albero, piante, cespugli, grovigli di ogni tipo, e a un tratto... il gigante. Era a una decina di metri, e ci separava soltanto un largo cespuglio di rovi spinosi. Gli puntai la torcia in faccia come se fosse un fucile, senza sapere cosa fare. Lui agitava in aria le mani per scacciare la luce. Aveva mani enormi. Torceva il collo uggiolando come un cane, ma non se ne andava...

Ora o mai più. Con la mano libera accesi la macchina digitale, zoom al massimo, scatto continuo... Cli-cli- cli-cli-click. Il flash illuminò a giorno il bosco e il gigante si abbassò con un muggito. Ce l’avevo fatta, ma ora veniva la parte più difficile: uscirne vivo. Spensi la torcia e cominciai a strisciare verso il vigneto, cercando di fare meno rumore possibile... ora mi salta addosso, pensavo... mi fa a brandelli come il ragazzo tedesco... come Maria Conti...

Ci voleva un fucile a pallettoni, per bloccare un bestione del genere. Ogni tanto mi fermavo e tendevo l’orecchio, ma l’unico fruscio era quello del vento. Finalmente sbucai fuori dal bosco. Mi alzai in piedi e cominciai a correre verso la provinciale, senza voltarmi, accompagnato dalla mia ombra che la luna proiettava sul terreno. La macchina sembrava lontanissima... non dovevo perdere tempo a voltarmi, dovevo solo correre e guardare avanti... ma la curiosità di Orfeo vinse sulla prudenza, e mi voltai.

 

 

Per un istante vidi tra i filari la sagoma del mostro che correva verso di me, ma era solo un’allucinazione. Non c’era nessuno. Solo una leopardiana luna indifferente. Ormai ero quasi arrivato. La mia adorata macchina era là ad aspettarmi. Mi passavano in mente le classiche scene dei film dell’orrore: il faccia a faccia con il mostro, la fuga in preda al terrore, la speranza che perde punti... a un tratto invece la salvezza sembra a portata di mano, è lì davanti... ancora pochi passi, e quando il poveraccio sta per salire in macchina...

Avevo già le chiavi in mano. Mancavano gli ultimi metri. Senza smettere di correre feci il giro della macchina e mi ci tuffai dentro. Un’occhiata veloce all’oliveto e alla collina. Nessuno. Il motore partì al primo colpo, alla faccia dei film dell’orrore. Stirai la prima, poi la seconda, e quando misi la terza sentii la bocca che sorrideva da sola. Mi sganciai la digitale dal collo e l’appoggiai sul sedile accanto, con amore. Nella sua memoria al silicio erano imprigionate le immagini del gigante, il lupo mannaro di Fontenera. Avevo rischiato la vita per quelle foto, ma ce l’avevo fatta. Accesi lo stereo, e quando sentii la chitarra di quel drogato di Lou Reed alzai il volume.

Appena arrivai a casa accesi il computer e ci infilai dentro la scheda della digitale. Scaricai le foto. Lo avevo centrato in pieno. Ci andai dentro con lo zoom. Aveva una testa enorme e lo sguardo animalesco. Faceva paura. Forse era un uomo cresciuto isolato nella foresta, come Kaspar Hauser. Un caso interessante da studiare. Ma soprattutto andava fermato il prima possibile. Aveva ucciso una donna.

Controllai le tracce sonore dei trasmettitori, e come mi aspettavo erano piatte. Ormai avevo capito. I muggiti di quel maniaco sessuale li avevo sempre sentiti con la luce del giorno, e così sarebbe sempre stato. Di notte non doveva essere piacevole entrare in quella villa, dove il tempo si era fermato trentasei anni prima. Senza contare che dopo cena era più difficile inventare balle alla moglie, in un paese sperduto sulle colline.

Spensi tutto e mi sdraiai sul letto, lasciando la luce accesa. Ero spossato. Fissando le travi del soffitto ripensavo alle sorprese di quei giorni... il lupo mannaro... il barbuto mezzo nudo... Alle nove ero già in piedi. Avevo dormito poco, ma mi sentivo riposato. Giurai che fino al ritorno di Camilla non avrei pensato al barbuto. A che sarebbe servito? Solo a farmi venire il mal di stomaco. Andai in cucina a preparare il caffè. Con la tazzina in mano tornai in camera e accesi il computer. Senza guardarle isolai le foto del barbuto in una nuova cartella, che per semplicità nominai Barbuto. Non volevo trovarmele sempre tra i piedi.

Feci scorrere lentamente le altre immagini sullo schermo. La povera matta con il porco, il gigante mannaro... Non vedevo l'ora di raccontare a Camilla le novità della settimana, per cogliere nei suoi bellissimi occhi lo stupore e la paura. E magari anche qualche lampo di ammirazione. Ma prima di tutto dovevo fare una cosa. Alzai il telefono e chiamai la stazione dei carabinieri. Chiesi del maresciallo, e come al solito mi fecero aspettare un sacco di tempo. Sembrava che dovessero andare a cercarlo nell'ala opposta di un’immensa caserma. Finalmente sentii raccogliere il telefono. «Mi dica Bettazzi, che c’è ancora?» disse Pantano, annoiato. Non mi aveva chiamato dottore, notai.

«Vorrei vederla un minuto, maresciallo».

«Non mi può dire per telefono?».

«Non è possibile, devo farle vedere una cosa».

«Cosa?».

«Una fotografia».

«Di che?».

«Non è facile da descrivere, è meglio se la vede con i suoi occhi».

«Non ho tempo da perdere, Bettazzi».

«Forse so chi ha ucciso Maria Conti» buttai lì, per impressionarlo. Ci fu un attimo di silenzio.

«Non mi dica che è stato lei...». Si sentiva bene che non scherzava del tutto.

«No, è stato il mio criceto. Quando c’è la luna piena diventa un orso bruno» dissi, ma il maresciallo non rise.

«Venga al dunque, Bettazzi».

«Dieci minuti e sono da lei... D’accordo?».

«Va bene, l’aspetto» sospirò, rassegnato.

«A tra poco». Riattaccai e misi il computer nella valigetta. Altro che coglionate. Chissà che faccia avrebbe fatto Pantano...

Montai in macchina e pigiai sull’acceleratore, mordendomi le labbra dalla soddisfazione. Arrivai a Fontenera in pochi minuti. Il maresciallo stava per vivere la sua Caporetto. Parcheggiai davanti alla stazione dei carabinieri e suonai il campanello. Mi aprì Schiavo, con un sorrisino sulle labbra. Mi accompagnò nell’ufficio del maresciallo e mi chiuse dietro la porta.

«Sentiamo la grande novità» disse Pantano, senza alzarsi. Non mi strinse nemmeno la mano. Dietro la sua testa era appeso il presidente della Repubblica, e più in basso c’era una fila di calendari dei carabinieri agganciati per il cordoncino. Mi accomodai con calma sulla sedia. Sfilai il Pc dalla borsa, lo appoggiai sulla scrivania sommersa di fogli e lo accesi. Il maresciallo mi guardava senza dire nulla, con aria svogliata. Dopo aver scelto la foto più chiara del gigante, lanciai a Pantano un’occhiata ricca di significato.

«Ecco qua». Voltai il computer e lo fissai bene in faccia, per cogliere il suo stupore... invece lui sorrise.

«È Angiolino» disse, guardandomi come si guarda uno scemo. Facevo fatica a inghiottire. «Chi?».

«Angiolino».

«E chi è?».

«Un trovatello che sta su dalle monache».

«Ah, sì?». Ero arrossito. Angiolino il trovatello, cazzo. Avevo una novità in più da raccontare a Camilla, dopo la nostra prima scopata. Il maresciallo continuava a dondolare la testa, piuttosto divertito. «Quel poveraccio non ha mai fatto male a una mosca».

«Davvero?».

«Se trova un passerotto zoppo si toglie un osso dal dito per fargli la stecca».

«Mi scusi, ma come mai quando le ho detto che avevo visto un gigante non mi ha spiegato subito chi era?».

«Se sto dietro a tutte le coglionate che sento posso chiudere bottega» disse Pantano, sorridendo.

«Insomma lei esclude che Angiolino sia capace di...».

«Lo escludo» m’interruppe Pantano, di nuovo annoiato.

«Però magari è lui che ammazza le galline...».

«Ecco un’altra coglionata».

«Ne è proprio sicuro?».

«Come i tafani sulla cacca di mucca».

«E queste monache dove stanno?» chiesi, rimettendo a posto il computer. «Cosa vorrebbe fare?».

«Ho bisogno di un aiuto spirituale».

«Bettazzi, perché non se ne sta tranquillo a scrivere le sue poesie?».

«Faccio male a qualcuno?».

«A se stesso, Bettazzi... a se stesso».

«In che senso?».

«Prima o poi si ficcherà in qualche guaio, me lo sento».

«Sembra quasi una minaccia, maresciallo» dissi con un sorriso freddo.

«È solo un consiglio, Bettazzi. Solo un consiglio». Ci fissavamo negli occhi. Aveva vinto lui, ma era solo il primo round.

 

 

La ringrazio, maresciallo. Ci vediamo alla prossima coglionata». «Si goda la campagna, Bettazzi...».

«Arrivederci». Dopo un’ultima occhiata intensa, carica di sfida, me ne andai. Avrei dato non so cosa per scoprire che il lupo mannaro dei pollai era Pantano. O magari l’appuntato Schiavo. Passai dall’alimentari della Marinella per fare un po’ di spesa, ma soprattutto per scoprire dov’era il convento delle monache. Lanciai la domanda all’esercito di donnine in coda.

«Quali monache? Le oblate o le domenicane?».

«Le domenicane» dissi a caso. Da qualche parte dovevo cominciare. Le donnine si misero a gesticolare, come se il convento fosse lì fuori. «È su per andare da Gino...».

«...nel viottolone dopo il capanno di Beppe...».

«...sopra il podere del Troia...».

«...dove hanno ammazzato quel cinghiale grosso come una mucca...».

«Sì, ma... da dove passo?» chiesi. Intervenne la Marinella, con la sua concretezza da mercante.

«Prenda la provinciale verso Montesevero, un chilometro più avanti c’è un cartello di legno con scritto CASCINA VECCHIA, vada su di là e dopo un po’ se lo trova davanti."

«Grazie».

«Che ci andate a fare al monastero?» chiese una vecchietta.

«Voglio farmi monaca» dissi, serio. Calò il silenzio. Per ogni donnina che se ne andava ne entravano due, e le nuove arrivate venivano informate a bisbigli sull’ennesima bizzarria dello straniero. Aspettai con pazienza il mio turno, e comprai qualche affettato. Mentre uscivo sentii un borbottio della Marinella, ma non capii nemmeno una parola.

Montai in macchina e presi la provinciale verso Montesevero. Un chilometro più avanti c’era un cartello di legno con scritto CASCINA VECCHIA, andai su di là e dopo un po’ mi trovai davanti il convento. Era piuttosto grande, mezzo nascosto dagli alberi, con i muri altissimi. Parcheggiai davanti al portone principale e scesi. C’era un silenzio perfetto. Tirai una maniglia arrugginita, e di là dal muro suonò una campanella. Dopo un po’ sentii dei passi lenti che si avvicinavano. Si aprì uno spioncino protetto da due ferri messi in croce, e apparve un viso rugoso.

«Sia lodato Gesù Cristo». Due occhi mi fissavano.

«Sempre sia lodato».

«Cosa volete?».

«Scusi il disturbo, sorella. Vive qui al convento un certo...Angiolino?».

«Perché lo volete sapere?». Il suo tono allarmato mi fece capire che avevo trovato il gigante.

«Se fosse possibile, vorrei... vederlo».

«Gesummaria! E perché volete vederlo?». Ancora una volta mi sembrava di essere finito nei Promessi sposi. La monaca mi fissava senza sbattere gli occhi. Aveva tre sopraccigli, uno sopra la bocca. «Be’... ecco...» cominciai, senza sapere cosa dire. Sentii dei passi avvicinarsi. La vecchia monaca si scostò e apparve un altro viso. «Sia lodato Gesù Cristo» disse in fretta la nuova arrivata. Era più giovane dell’altra, e aveva due enormi occhi neri.

«Sempre sia lodato...».

«Prego, mi dica». Non mi dava del voi come la vecchia.

«Ecco... stavo dicendo alla sua colleg... cioè, alla consorella... mi piacerebbe, sempre che sia possibile... parlare con Angiolino».

«Parlare?» disse lei, stupita.

«Ho detto qualcosa che non va?».

«No, ma... Angiolino non sa parlare».

«Ah, no?».

«Il Signore non ha voluto concedergli il dono dell’intelligenza».

«Il Signore ha voluto così» ribadì l’altra monaca, fuori campo.

«Posso vederlo lo stesso?» chiesi, con un tono da confessionale.

«Sta dormendo».

«Sta dormendo» fece eco la monaca vecchia.

«Non importa, mi basta vederlo solo un secondo. Poi me ne vado».

«Come mai vuole vederlo?».

«Se mi fa entrare le spiego tutto». Qualche secondo di occhi negli occhi, poi lo spioncino si richiuse. Silenzio. Passavano i secondi. Non sapevo cosa fare. Dopo un po’ sentii il rumore metallico di serrature e paletti, e finalmente il portone si aprì. Mi trovai in una specie di paradiso. Un chiostro leggero, un praticello con un vecchio olivo al centro, il pozzo di pietra in un angolo, dappertutto vasi di gerani e rose rampicanti...

La vecchia richiuse i chiavistelli senza fretta, e quel rumore di ferro non fece che amplificare il senso di pace. «Per di qua» disse la giovane. Era magra e dritta, e camminava come un militare. La vecchia avanzava ondeggiando. Erano vestite di bianco, ma con il velo nero. Le seguii sotto il portico, poi lungo un corridoio che sbucava in un chiostro più piccolo, con un orto elegante nel mezzo. Da qualche parte oltre gli spessi muri di pietra arrivava il canto ovattato di un coro tristissimo, che a momenti sembrava uscire da sottoterra. Mi sentivo come sospeso nel tempo.

Oltrepassammo anche quel chiostro, entrammo in una porta, c’infilammo in un corridoio stretto e buio e sbucammo in un cortiletto. C’erano degli attrezzi da lavoro appoggiati in un angolo, e lungo il muro un altro orto ben curato. La monaca giovane aprì una porticina.

«È qua...» disse, senza entrare. L’altra monaca mi guardava, muta. Mi affacciai dentro, e il puzzo di circo mi mozzò il fiato. In un angolo della vecchia stalla, sdraiato sopra un cumulo di paglia dormiva il gigante, con la bocca mezza aperta. Disteso sembrava ancora più ciclopico. La testa era grande come un cocomero, e le braccia sembravano rami nodosi. Con un osso del dito poteva fare la stecca per la zampa di un cane lupo, altro che passerotto. Sfilai la testa dalla porta e la monaca la richiuse. Mi tossii nel pugno.

«Scusate, secondo voi Angiolino potrebbe... fare del male a qualcuno?»

chiesi, gentilissimo. Le monache si scambiarono un’occhiata. «Angiolino è assolutamente incapace di fare del male» disse la giovane.

«Esce mai dal convento?».

«Mai...».

«Mai!» aggiunse la vecchia.

«Siete sicure?».

«Sicurissime». In coro.

«Eppure... ho visto per tre volte Angiolino passeggiare di notte nella campagna, qua intorno» dissi, rispettoso. Le monache si scambiarono un’altra occhiata.

«Qualche volta riesce a scappare» ammise la giovane.

«Nel senso che... lo tenete rinchiuso?».

«Oh no, ma ringraziando il Signore di solito non si allontana» si affrettò a spiegare la vecchia.

«Succede molto raramente, ringraziando il Signore» raddoppiò la giovane, vagamente imbarazzata.

«Mi sembra di capire che se Angiolino va in giro da solo può diventare pericoloso...».

«Assolutamente no, ma potrebbe farsi del male».

«Capisco...».

«Ha l’animo di un bambino» affermò la vecchia.

«Cosa fa tutto il giorno?» chiesi.

«Lavora...». La giovane.

«Nell’orto, in cucina...». La vecchia.

«...lava i piatti, le pentole...».

«...pulisce le celle...».

«Avete saputo di quella donna di Siena che è stata uccisa?» dissi, fissandole negli occhi. Si fecero il segno della croce nello stesso momento, ma la vecchia fu più veloce a finire.

«Non abbiamo il televisore» disse la giovane.

«A qualche chilometro da qui hanno trovato il cadavere di una donna. Sembra che sia stata sbranata da un grosso animale».

«Pace all’anima sua».

«Poverina» aggiunse la vecchia, accennando un altro segno della croce. «Non voglio allarmarvi... Ma se il grosso animale che ha sbranato la donna fosse proprio Angiolino?». Vidi quattro occhi che si dilatavano, e due bocche aprirsi da sole.

«Gesummaria! Ma cosa state dicendo?» protestò la vecchia.

«Angiolino è buono come il pane». La giovane strinse i pugni, ma solo per un secondo. Sembravano tutte e due molto convinte, e anche un po’ offese... ma forse si sbagliavano.

«Non si può mai dire, i disturbi mentali sono imprevedibili. Magari una volta ogni tanto gli prendono i cinque minuti e...».

«Angiolino no» disse la giovane, ferrea.

«Ovviamente non ne avrebbe nessuna colpa...» dissi.

«Angiolino non sarebbe capace di fare del male a una formica» insisté la vecchia.

«Abbiamo molto da fare» disse la giovane, lanciando un’occhiata all’altra monaca. S’incamminarono insieme verso l’uscita e le seguii. Attraversammo di nuovo il chiostro piccolo. Il coro si sentiva ancora, lontano e vago come un sogno. Era come essere nel medioevo. Se avessi potuto vivere molte vite, una l’avrei vissuta là dentro. Arrivammo all’uscita senza dire una parola. La vecchia aprì le serrature e tirò i chiavistelli, con movimenti bruschi. Il portone si aprì. Il mondo era là fuori, con i suoi misteri e le sue infinite perversioni.

Le monache erano silenziose. Non sapevo come salutarle. Non avevano l’aria di volermi stringere la mano.

«Sia lodato il Signore» mormorò la giovane. «Sempre sia lodato» dissi, insieme alla vecchia.


(Continua)
 
 

(La Stampa.it)