Adolf, falsario nei lager di Hitler
Un nuovo film sulla storia di Burger

Ebreo deportato ad Auschwitz e poi costretto dal Reich a fabbricare sterline contraffatte
A 90 anni, il protagonista di questa incredibile vicenda è vivo e combattivo.

Adolf Burger.PRAGA, 20 agosto 2007. - Il numero 64401 parla. Si chiamava così il primo libro di Adolf Burger, che mostra il numero, ancora lì sul braccio sinistro, segno indelebile dell´orrore dell´Olocausto. Nel libro c´erano dieci fotografie scattate da lui il 5 maggio del '45, quando uscì dal campo di Ebensee. «Quando gli americani mi liberarono mi diedero una pistola, perché ero un sottufficiale dell´esercito cecoslovacco e, con addosso l´uniforme del lager, andai a piedi nel villaggio più vicino. Trovai una signora con le figlie che, vedendomi armato, si spaventò. "Stia calma, non le faccio niente. Mi dia solo la macchina fotografica e la pellicola, se ce l´ha", le dissi. Tornai al campo e feci le foto, perché si può scrivere un volume alto così, ma se non è corredato da documenti nessuno ci crede. Come può una persona normale credere che a Birkenau ogni settimana seicento uomini sostavano sul piazzale, tutti nudi, e passava un medico che puntava il dito su alcuni di loro e quelli erano destinati alla camera a gas?».

Adolf Burger ha novant´anni, li ha compiuti il 12 agosto, la festa è stata «un pranzo con amici e parenti, le tre figlie, i nipoti. Ho già un pronipote di sei anni», dice con fierezza, consapevole dello stupore che suscita il suo aspetto solido e sano, la capigliatura folta e solo macchiata di bianco, lo sguardo chiaro e acceso, l´energia dei gesti, la lucida vivacità con cui racconta la sua storia "incredibile". Non c´è segno di stanchezza mentre sale e scende con agilità le scale della casa a due piani in cui vive da solo, immersa in un giardino pieno di luce, in un quartiere residenziale a nord di Praga. «Non ho mai fumato, mai bevuto alcol, mai un dito di birra, per questo sto così bene. Anche se la cosa mi ha creato problemi, soprattutto alla scuola sottufficiali, dopo le esercitazioni si andava a bere, gli altri ordinavano birra, io chiedevo latte e cioccolato e tutti ridevano come pazzi».

L´occasione dell´incontro con il signor Burger è il suo terzo libro, La fabbrica del diavolo, scritto in tedesco, sull´operazione segreta con cui il Reich decise di produrre banconote false dei paesi nemici, Gran Bretagna e Usa, con l´obiettivo di far crollare la loro economia. Dal libro è tratto il film Il Falsario-Operazione Bernhard, che, presentato al Festival di Berlino, sarà distribuito in Italia dalla LadyFilm ai primi di novembre. Burger era uno dei falsari e l´incontro diventa un viaggio emozionante nella memoria di un uomo che ha vissuto eventi drammatici, fuori dal comune.

Nato a Velka Lominca, un villaggio slovacco, da ragazzo lavorava come tipografo. «All´epoca erano rari i tipografi professionisti e io ero un privilegiato, non dovevo portare la stella, potevo fare documenti falsi per aiutare molti ebrei ad espatriare, militavo in un movimento sionista, avevamo il sogno di andare a edificare la nostra Palestina, ma la strada è stata un´altra». Fu arrestato nel %u201842, a venticinque anni, con sua moglie Gisela. Tre giorni di interrogatorio, poi sul treno per Auschwitz. Dove «sono stato soltanto sei settimane, prima di passare a Birkenau, un inferno. In confronto Auschwitz era una casa di cura, avevo persino un letto. Himmler aveva deciso che a Birkenau era inutile costruire edifici per gente destinata a morire, bastavano le stalle. In una stalla dormivamo in ottocento, cinque per letto, quattro piani di letti».

Con toni vivaci, senza tradire emozioni, Burger racconta dell´iniezione che gli fecero, parte degli esperimenti sul tifo di Mengele per conto del gruppo chimico IG Farben, delle sei settimane con la febbre a quarantadue, della cioccolata che un amico trovò nei bagagli dei prigionieri e che consegnò a una guardia. «Mi fece spostare in un altro settore, mi salvò la vita. Tutti gli altri sono morti nelle camere». Poi il lavoro nel Comando Canada, come le Ss chiamavano i detenuti addetti a catalogare i bagagli dei nuovi arrivati, fino all´appello speciale. «Ogni sera c´era l´appello e dall´altoparlante le richieste: dieci falegnami, cuochi, carpentieri, mestieri vari. Una sera invece dei mestieri, lessero numeri. Anche il 64401. Presentarsi dal comandante Hess. Non sono un eroe, ho avuto paura tutta la notte».

Cominciò così la sua esperienza di falsario. Si presentò al comandante - «dissi il numero, non avevamo diritto al nome» - e invece lui disse: «Signor Burger, lei è tipografo? Abbiamo bisogno di lei a Berlino». Gli promise lavoro e una vita normale di uomo libero. «Non riuscivo a crederci, Birkenau era il capolinea, era gestita nel segno di "notte e nebbia" che significava liquidazione, sapevo che i centomila uomini e le ventimila donne erano destinati alle camere a gas», ma quando, dopo tre settimane di quarantena per paura di infezioni a Berlino, salì su un vero rapido e non sui carri bestiame e arrivato in città vide uomini e donne e bambini vestiti normalmente - «una scena che non vedevo da anni» - pensò davvero che i miracoli esistessero.

La destinazione era Sachsenhausen, un altro lager. C´era il filo spinato, una porta alta tre metri «ma in confronto a quello che avevo passato mi sentivo in ferie. Potevo mangiare quello che volevo, avevo un letto con le lenzuola, c´era la radio con la musica e le notizie, c´era perfino un tavolo di ping pong. Ho giocato una con Ss. Io, ebreo, ho giocato a ping pong con una Ss! Vivevo in una baracca con altri centoquaranta tipografi. Tutti ebrei. Perché era un´operazione segreta del Reich e al momento giusto saremmo stati liquidati tutti, non dovevano restare testimoni. Perciò la sera, finito il lavoro, pensavo che, certo, in confronto al passato ero in vacanza. Però morto».

A Sachsenhausen furono stampati centotrentadue milioni di lire sterline, alcune finirono nelle banche, altre usate per comprare armi e Burger ricorda divertito che Cicero, nome in codice della più famosa spia tedesca, «ricevette come premio da Himmler trecentomila sterline tutte fatte da noi». Il sabotaggio non era facile «perché le Ss avevano radunato venti esperti bancari che controllavano le banconote una per una e, se si scoprivano errori volontari, c´era la morte immediata. Ma noi volevamo lanciare un segnale all´esterno e allora agli incaricati di "invecchiare" le banconote - le stampavamo nel %u201843-44 ma l´anno riportato era il 1937 - stropicciandole e forandole con l´ago, chiedemmo di bucare il disegno della regina.

Nessun inglese si sarebbe permesso di bucare la regina! Era il modo per riconoscere che erano false, altrimenti erano perfette, neanch´io avrei saputo distinguerle. Dopo la guerra, a Praga andai alla banca di stato e mi divertii a sbalordire gli impiegati individuando nelle loro riserve una quantità di sterline false osservandole alla luce della finestra».

Il miglior amico di Burger a Sachsenhausen era un ebreo russo, Smolianoff, nel film chiamato Sorowitsch. «Lui era l´unico criminale, un vero falsario ricercato già prima della guerra, è lui che fece il mio ritratto a matita. Era straordinario, ma con tutta la sua abilità fu difficile riprodurre i dollari. Inoltre dalla radio sapevamo l´andamento della guerra, non volevamo che i nostri dollari aiutassero il Reich a prolungarla. Decidemmo di mischiare la gelatina per la stampa con altre sostanze. L´immagine del presidente sul dollaro era perfetta, ma la gelatina non era buona». E gli alleati erano alle porte. Burger fu liberato ad Ebensee dove lo avevano portato le Ss in fuga da Sachsenhausen insieme a casse di banconote false, gettate nel lago di Toplitz. Nel 2000 una troupe americana andò a girare a Toplitz un documentario con attrezzature tecniche d´avanguardia e sommozzatori che estrassero le casse dal fondo del lago e chiamarono Burger per intervistarlo. «Ci andai ma li feci incazzare perché pretesi due delle banconote recuperate, non volevano darmele, erano destinate a una mostra a Los Angeles, ma hanno dovuto cedere altrimenti me ne andavo».

Burger interrompe a tratti il suo racconto per cercare un´immagine, un documento, un ritaglio. «A novant´anni», dice, «mi sento una ditta in liquidazione, ma non sono così vecchio da considerarli un regalo della vita. Ho ancora tanto da fare, ho casse di documenti e foto dell´epoca ancora tutti da elaborare». Eppure per anni aveva scelto il silenzio. Dopo la guerra si stabilì a Praga - «non potevo tornare a Bratislava, non potevo incontrare ogni giorno gli aguzzini colpevoli dello sterminio della mia famiglia» - e, dopo il primo libro, per vent´anni non parlò più dell´Olocausto.

«Volevo tagliare con il passato. Fino al 1972, quando alcuni amici falsari mi mandarono dalla Germania un volantino: il neonazista Erwin Schoenberg negava l´Olocausto e offriva diecimila marchi a chiunque testimoniasse di aver visto una persona finita nelle camere a gas. Non potevo più tacere. Ero un dirigente della Herz e dell´Avis, avevo una buona posizione, ma non potevo più lavorare. Cominciai a raccogliere documenti in Europa, a girare per la Germania, a tenere conferenze nelle università e nei licei, raccontavo e mostravo immagini di Auschwitz e di Birkenau. "Voi siete la nuova generazione, non dovete avere il senso ci colpa perché voi siete innocenti. Ma se vi arruolate con i neonazisti diventerete assassini", dicevo. Sul totale di milioni di tedeschi quelli con cui ho parlato sono una sciocchezza, ma sono sicuro che nessuno di loro è diventato neonazista».

Da allora non ha mai smesso di cercare documenti, di scrivere, di parlare, una scelta coraggiosa. «Macché coraggio. Quando penso che c´ero anch´io tra quei seicento uomini nudi in fila davanti al medico che puntava il dito e avrebbe potuto indicare me, cosa può succedermi?», dice, e non c´è risentimento nella sua voce, che si anima leggermente parlando del comandante di Sachsenhausen, Kruger. «Non ho incontrato nessuna delle Ss che conoscevo, non so come avrei reagito. Ma ho seguito sempre la vita di Kruger, che si è nascosto ed è stato individuato solo dieci anni dopo la fine della guerra. È stato processato ma non è stato condannato per il reato di falsario perché era caduto in prescrizione. E neanche per aver fatto uccidere sei detenuti: si è salvato dicendo di aver solo eseguito gli ordini delle Ss. Da uomo libero ha vissuto ad Amburgo, isolato e in disparte, ma con uno stratagemma sono riuscito a farlo fotografare nella sua casa. È morto da poco. Ho anche il suo certificato di morte», dice e il tono è appagato.

Solo in anni recenti, secondo lui, i tedeschi hanno cominciato a fare i conti con il passato e il film Il falsario è un segno positivo. «L´unica condizione che ho posto ai produttori è stato il nulla osta sulla sceneggiatura. L´ho fatta riscrivere un po´ di volte per eliminare sciocchezze, come quella che avevamo stampato milioni di dollari e invece ne abbiamo fatti solo duecento o che siamo stati liberati dai russi. So che la verità è impossibile da raggiungere, ma almeno eliminiamo le bugie. Dopo la presentazione del film a Berlino, il regista mi ha ringraziato».

Nella semplicità puntuale e quasi didattica del suo racconto, Adolf Burger tradisce l´emozione quando, solo verso la fine dell´incontro, ricorda Gisela, la moglie arrestata con lui. «Appena scesa dal treno è stata subito selezionata nel gruppo destinato a Birkenau, alle camere a gas. Era una settimana prima di Natale, aveva ventidue anni». Un attimo di silenzio poi: «Nel 1947 mi sono risposato e con la seconda moglie ho festeggiato cinquant´anni di matrimonio. È morta quattro anni fa».

Il falsario è uscito la settimana scorsa nella Repubblica cèca. «Alla conferenza stampa c´era tanto stupore, nessuno conosceva questa storia. Sono contento. Il cinema ha raccontato spesso gli orrori dell´Olocausto, ma finalmente si saprà che i tedeschi non erano solo nazi assassini, ma anche bravi criminali falsari». Ma non accusa il popolo tedesco. «La Storia non si ripete ma cammina. Io posso solo valutare le parti della storia che conosco e devo dire che non sento odio, non posso odiare sessanta milioni di tedeschi per quello che Hitler e alcuni di loro hanno fatto, così come non posso criticare tutti i cattolici per gli orrori dell´Inquisizione o tutti gli italiani per via di Nerone che buttava i cristiani alle bestie. Avrei solo voluto che fossero condannati gruppi industriali come la IG Farben, che ha costruito le grandi fabbriche nelle paludi della Polonia sulla pelle dei detenuti, trentamila lavoratori che dopo sei settimane finivano nelle camere a gas».

Determinato a tenere viva la memoria del passato, Adolf Burger riflette con distacco sulla realtà di oggi: «Seguo quello che succede nel mondo, tutto dipende dagli uomini che hanno il potere di fare. Mi rendo conto che nessuno da solo può cambiare la realtà, allora la prendo così com´è e penso che tra cinquant´anni saremo giudicati, come oggi noi possiamo giudicare quello che accadde cinquant´anni fa. Se dovessi mettermi a riflettere su quello che succede ogni giorno, in ogni parte del mondo, sarei morto da tempo».

 

(Repubblica.it)