Il porco si voltò
con gli occhi tondi

M’infilai nella villa. Staccai l’auricolare e mi appesi al collo la macchina fotografica.

Quando guardai l’ora mancavano venti minuti alle otto. Avevo scritto quasi dieci pagine di getto, e mi ero anche divertito. Di sicuro avrei avuto molto da correggere. Si trattava soprattutto di tagliare via le frasi troppo belle. A metà della storia, accanto al diavolo nano era apparso un ermafrodito più sensuale di Marilyn. Avevo proprio voglia di vedere come andava a finire. Ma avevo anche fame.

Andai in cucina e accesi la TV. Mentre buttavo la pasta partì la sigla del TG1. Prima notizia: L’ex fidanzato di Maria Conti confessa: è stato il mio cane. Mi cascò la mascella. Aspettai la fine dei titoli e alzai il volume: Salvatore Z., trentaquattro anni, aveva confessato. Maria Conti lo aveva lasciato per un altro, ma lui non voleva rassegnarsi. Era riuscito a strapparle un appuntamento, e per fare due chiacchiere con calma l’aveva portata in quella stradina di campagna. Avevano litigato quasi subito. La Conti era scesa dalla macchina sbattendo la portiera, e lui le era andato dietro. Anche Bullo - così si chiamava il cane dell’uomo - li aveva seguiti. Era sempre stato un cane tranquillo. Salvatore Z. aveva raggiunto Maria sulla strada sterrata. Aveva provato a fare pace ma lei non voleva saperne, anzi aveva cominciato a strillare e a tiragli pugni sul petto. A un tratto il cane aveva fatto un balzo e l’aveva azzannata alla gola, poi aveva continuato a straziarla. Bullo era un rottweiler maschio grosso come una pecora, e lui non era riuscito a trattenerlo. Una morte orribile, povera Maria Conti...

Angiolino non c’entrava nulla. Era un gigante beneducato, dovevo rassegnarmi. Le mie supposizioni non valevano un cazzo, come al solito. Mi ero lasciato guidare dalla speranza di svelare un mistero e ci ero cascato come un pollo. Che coglione. Chissà come se la rideva il maresciallo. Mi sembrava di sentirlo: La faccia finita di giocare a guardie e ladri, Bettazzi, e si goda la pace della campagna...

Ride bene chi ride ultimo, pensai. Con un po’ di fortuna prima o poi avrei avuto qualcosa di indiscutibile da sottoporre alla sua indifferenza. Allora avrebbe smesso di ridere, e sarebbe stato obbligato a darmi retta.

Dopo cena accesi una canna e mi sedetti davanti al computer, per continuare quel racconto. Trovai il titolo, Buio d’amore. Non sapevo cosa volesse dire, ma non suonava male. Dopo un’ora che inseguivo quella storia mi chiamò Camilla.

«Dove sei?» mi chiese.

«A Fontenera». Le raccontai brevemente il funerale della zia Cecilia e il pranzo in famiglia. Lei mi disse che aveva cambiato programma. Sarebbe tornata il giorno dopo verso le nove. Affamata. Molto affamata.

«Nel senso che spero io?» dissi.

«Ommamma! Come mai voi maschi siete sempre così noiosi?».

«Per far sentire originali voi donne».

«Potresti risollevarti un po’ raccontandomi cos’è che hai scoperto».

«Mi sembrava di aver capito che non volevi farti coinvolgere da queste stupidaggini».

«Ho cambiato idea».

«Non citerò il Rigoletto, perché so che ti sembrerei un maschilista».

«Vedo che ti sforzi di non essere banale, sono commossa».

«Le donne non si commuovono, hanno solo le ghiandole lacrimali difettose...».

«Che bello conoscere di persona uno psicologo del comportamento femminile». Era un po’ come scopare, ma a distanza.

«Sai che pensare a te mi spinge alle pratiche dell’adolescenza?» dissi.

«Che schifo, non ti azzardare...».

«Troppo tardi».

Qualche secondo di silenzio.

«Dai... ma è vero?» disse lei.

«Cosa?».

«Che pensando a me...».

«Certo».

«Molte volte?».

«Ho perso il conto».

«Ma...».

«Ma?».

«In quei momenti... ci sono soltanto io?».

«Sì».

Silenzio.

«Penserai a me anche stasera?» disse lei.

«Ci puoi contare».

«Che porco» e riattaccò.

Continuai a scrivere quel raccontaccio con il demonio, e lo finii alle tre passate. Mi bruciavano gli occhi. Andai a letto e spensi subito la luce. Il barbuto della foto cercava di farsi avanti per annodarmi lo stomaco, ma riuscii a mandarlo via. Pensai intensamente a Camilla, fino in fondo... e subito dopo mi addormentai.

Il giorno dopo nel primo pomeriggio rilessi Buio d’amore, e lo corressi a colpi di mannaia. Non era male. Una storia molto malinconica, ma anche divertente.

Cominciai subito un altro racconto. Anche quello mi usciva dalle dita senza che potessi metterci bocca, come se lo stessi ricopiando da un libro già scritto. Solo dopo le prime pagine mi accorsi che in qualche modo stavo parlando di Camilla. Andai avanti per un bel pezzo, con un mozzicone di canna che mi pendeva dalle labbra.

Quando guardai l’ora erano le cinque e venti. Ancora tre ore e quaranta e avrei visto Camilla, sempre che fosse puntuale. Comunque sarebbe arrivata affamata, e non avevo ancora deciso cosa fare per cena. Spaghetti alla puttanesca o penne al salmone? A un tratto sentii una voce e un rumore di passi... Venivano dagli altoparlanti del computer. Mi si drizzarono i peli sulle braccia. Dopo qualche secondo di paralisi mi alzai di scatto. Mi attaccai l’auricolare all’orecchio e buttai nello zaino la torcia elettrica e la macchina digitale. Corsi fuori e montai in macchina. Le ruote slittavano sulla strada sterrata alzando una grossa nuvola di polvere. Dall’auricolare arrivava solo silenzio. Avevo il cuore in gola, perché sapevo cosa stavo per fare. Benedicevo quelle batterie che erano ancora cariche. La Elektra- International non diceva bugie.

Salii su per la collina e parcheggiai nello stesso posto dell’altra volta. Corsi fino al cancello. Aprii il lucchetto, attraversai il giardino e m’infilai nella villa facendo meno rumore di una patata che cresce. Nell’auricolare sentii finalmente delle voci, ma erano lontane e non capivo le parole. Mi staccai quel coso dall’orecchio e me lo misi in tasca. Mi appesi al collo la macchina fotografica. Accesi la torcia, e tenendola un po’ tappata con la mano cominciai a salire le scale. Arrivai in cima e mi fermai ad ascoltare. Si sentivano appena dei lamenti provenire da sinistra. Avanzai a piccoli passi, e appena voltai l'angolo vidi in fondo al corridoio un chiarore filtrare da una porta socchiusa. Non era la stanza della tragedia. Spensi la torcia e mi avvicinai in punta di piedi. Adesso sentivo bene anche le voci. Mi fermai di fronte allo spiraglio della porta.

«Muoviti, troia... muoviti... puttana...».

«Aiha... nooo... ahiaa...».

«Ti scopo... ti scopo... bella cavalla...».

Misi un occhio nella fessura, e li vidi. Mi davano la schiena. La povera demente, tutta nuda e in effetti bellissima, stava piegata in avanti con le mani appoggiate al muro, e il porco, nudo anche lui, se la sbatteva tirandola per i capelli e continuando a dire le sue gentilezze, con il grasso che gli tremolava sui fianchi. Quella scena campestre era debolmente illuminata da una torcia elettrica appoggiata sopra una sedia, e il porco seguiva le sue imprese riflesse nello specchio dell’armadio. Non mancava nulla.

Accesi la digitale con un tocco amoroso. Selezionai il flash. Aprii piano la porta, puntai l’obiettivo e feci un colpo di tosse. Il porco si voltò con gli occhi tondi. Click. La povera ragazza si voltò. Click. Silenzio di tomba. Dopo il flash il buio sembrava assoluto.

(Continua)

 
 

(La Stampa.it)