Valeria Solarino,
attrice con il cuore torinese
La bella protagonista del film “La signora Effe”,
che si sta girando a Torino in questi giorni, si racconta per i nostri lettori.

TORINO, 29 giugno 2007. - Il suo è un ritorno a casa a tempo: terminate le riprese del film “La signorina Effe” di Wilma Labate, ambientato ai tempi della marcia torinese dei quarantamila quadri Fiat, Valeria rientrerà a Roma, la città dove si è stabilita tre anni fa.

Valeria l’apolide, Valeria giramondo, Valeria con il cuore torinese. «Sono nata in Venezuela da una famiglia di origine siciliana, ma sono cresciuta ed ho vissuto qui per vent’anni», dice con un sorriso bello e luminoso come lei. «Quando torno a Torino, dove ho amici e parenti, sento che è la mia città, però non ho fatto fatica a lasciarla, anche se è più rilassante e vivibile rispetto alla Capitale. Vedere Torino dal set è imbarazzante, è come recitare davanti a migliaia di persone: durante le riprese ho comunque il tempo di ammirarla e di rendermi conto che è sempre più bella, e ciò mi inorgoglisce».

Di Valeria colpisce lo sguardo dolce e gli occhi che parlano e che ridono, ma anche il viso solare dai tratti e dai colori mediterranei, il fisico asciutto, le mani affusolate e nervose. Un velo di trucco, un semplice abito nero che le lascia scoperte le spalle, nessun di quei gingilli d’argento che ti aspetteresti su una come lei, soltanto una collana semplice ma d’effetto. E un filo di voce per spiegare e raccontarsi.

«Fino a non troppo tempo fa non avrei mai immaginato che sarei diventata un’attrice», dice. «Frequentavo filosofia, sono arrivata sino al quarto anno, e pensavo che, come molti compagni di studio, avrei fatto la carriera universitaria; intanto giocavo a basket in serie C con grande passione. Poi, di colpo, addio concretezza: dopo aver iniziato a frequentare il corso di teatro allo Stabile ho mollato la pallacanestro, perché intanto l’amore per la recitazione aveva preso il sopravvento, e lo stesso è successo per gli studi. Ho dato un esame in un anno, e allora mi sono resa conto che non aveva più senso continuare».

Il teatro ha, per la Solarino, radici antiche, anzi di famiglia. «Mia madre ha frequentato la mia stessa scuola nel ’68, poi ha fatto qualche spettacolo. Ma non mi ha mai influenzato, anzi: quando una compagnia le ha chiesto i suoi due figli per una commedia, ha preferito non coinvolgere né me, né mio fratello. In realtà ancora adesso non so perché ho iniziato a recitare. Ricordo di essere stata spronata da un paio di amici a partecipare ad un provino che mi avrebbe aperto le porte della scuola dello Stabile, e allora ho deciso che mi avrebbero dovuto prendere a tutti i costi: per carattere quando mi metto in testa una cosa devo ottenerla».

Prima ancora Valeria ha fatto mille cose per concedersi qualcosa in più di quanto le passava la famiglia. «Non sono figlia di papà, ho ricevuto un’educazione secondo la quale nulla mi era dovuto. Così, durante il periodo dell’università, prima ho lavorato in una libreria specializzata in testi scolastici, poi come guardarobiera in una discoteca, quindi come barista in un paio di locali del centro».

Dicono che tu sia molto timida: eppure fai l’attrice…«Sono inibita di fronte ad una platea, meno nel tu per tu: ma non mi sono data al teatro per vincere la timidezza. Per la mia silenziosità in gioventù venivo giudicata come una che se la tirava, mentre adesso, che parlo di più, non me lo dicono più. In ogni caso mi piacerebbe essere un po’ diversa, dentro».

L’esordio davanti la macchina da presa è avvenuto nel 2002 con una piccola parte nel film di Mimmo Calopresti “La felicità non costa niente”. «E’ stato quasi un gioco, allora avevo in testa soltanto il teatro; sapevo che giravano un film a Torino, ho fatto il casting e sono stata presa per l’ultimo ruolo ancora scoperto. Il debutto, se devo essere sincera, è stato abbastanza stressante: ero abituata a recitare in modo teatrale, e soltanto ascoltando il regista e guardando gli altri attori mi sono resa conto che nel cinema si deve essere più essenziali e meno impostati».

Quale è il genere di film nei quali ti senti più a tuo agio? «Non faccio distinzione tra cinema d’autore e commerciale, ma tra film belli e brutti. Anche perché credo che chi scrive e gira una pellicola non abbia mai l’esclusiva ambizione di fare denaro, bensì quella di dar vita ad un’opera significativa. Personalmente ho rispetto per tutti i film, e li classifico coscienziosamente nel mio Morandini personale».

Visto dal di dentro il cinema è davvero un mondo dorato? «Non me lo aspettavo così, ho sempre pensato che fosse il teatro ad avere questa caratteristica. Il cinema però è più affascinante, frequentandolo ho scoperto quanto è bello anche se ha poco da vedere con l’immagine che ha dall’esterno. E’ molto stimolante lavorare tutto un giorno per una sola scena, pensando che si sta dando vita ad una cosa esclusiva e non ripetibile e che tutte le persone sul set hanno un ruolo ben preciso».

Assistendo ad un film come spettatrice, Valeria, che per puro vezzo non ama rivelare l’anno di nascita («Non ho ancora trent’anni, e non importa quanti sono esattamente»), ha deciso il nome che darà ai suoi figli. «Il cinema mi fa sentire una privilegiata, al mattino mi sveglio e so che farò qualcosa di appagante, quindi ho sempre voglia di lavorare: una fortuna che pochi hanno, credo».

Ti dà fastidio essere ancora definita un’attrice emergente, nonostante i tre film da protagonista? «Per ora ho preso parte a progetti che mi piacevano veramente: se avessi fatto scelte diverse, probabilmente sarei più famosa. Il mio obiettivo principale non è la notorietà, anche se è innegabile che il successo sia importante: la popolarità fine a se stessa secondo me è poco significativa, mentre quello che conta è che la gente vada a vederti al cinema perché ti ama e ti giudica all’altezza».

Valeria e i soldi. «Al momento non è un argomento che mi tocca troppo da vicino. Comunque il mio è un rapporto abbastanza sereno e credo che debbano essere spesi, altrimenti a che cosa servono? Ho sempre fatto il passo lungo quasi quanto la gamba, e spero in futuro di non cambiare».

 

(La Stampa.it)