Dario Argento:
d'amore e altri demoni

L’uomo che ha terrorizzato una generazione parla d’amore e demoni. E di un film, “La terza madre”, che trent’anni dopo “Suspiria” e “Inferno” ne chiude finalmente la trilogia.

Dario Argento.29 settembre 2007. -Migliaia di litri di sangue, centinaia di topi, vagonate di larve e insetti appositamente allevati. Qualche mosca di velluto grigio, un po' di gatti a nove code. E il classico parterre di zombie, streghe e fantasmi. Poi, ovviamente, una caterva di morti (crudelmente) ammazzati: sgozzati, dissanguati, rosicchiati, sventrati, decapitati, divorati vivi. E una scia di incubi che hanno popolato - e reso insonni - le notti di almeno due generazioni. Dario Argento è un mito, inutile girarci attorno. Ognuno di noi è sceso con terrore nello scantinato di "Inferno", ha girato da sonnambulo nei corridoi di "Phenomena", è stato strangolato dalla collana di perle nell'ascensore di "Profondo rosso" o ha assistito con gli spilli sotto le pupille agli omicidi di "Opera". Tutti abbiamo lottato e gridato, da "Suspiria" al "Cartaio". Con un curriculum così raccapricciante è normale che sia lui il Maestro del brivido.

Eppure, quando ce lo vediamo davanti, il vero brivido è l'emozione di ritrovarsi al cospetto di un signor regista che è anche un signore gentile. L'uomo che ha terrorizzato la nostra adolescenza sorride, parla con una voce calma e familiare, mette a proprio agio. E racconta. Della sua vita, del suo mestiere, delle sue paure. «La morte mi spaventa. Quella di mio padre mi ha scioccato, è stata lunga, tremenda. Ma ho paura di tante altre cose, d'altronde se non avessi più allucinazioni smetterei di fare questo lavoro. Da sempre porto al cinema il mio immaginario e i mostri che lo popolano ». Insomma, da 40 anni mister Argento esorcizza i suoi incubi provocandoli a noi. Ma facciamo un passo indietro.


Roma, Cinecittà.
In una palazzina che confina con ciò che resta del set di "The Gangs of New York" («Lo affittano per feste e matrimoni a quelli della Roma glam», racconta un custode) il Maestro ci accoglie in sala di montaggio. Sta dando gli ultimi ritocchi a "La terza madre", il nuovo film atteso in anteprima al Festival di Toronto e, soprattutto, alla Festa del Cinema di Roma (dal 18 al 27 ottobre). È il terzo e conclusivo capitolo della saga delle tre madri, cominciata trent'anni fa con "Suspiria" (Mater Suspiriorum), continuata con "Inferno" (Mater Tenebrarum) e finalmente conclusa con la Mater Lacrimarum. È un horror in pieno stile Argento, per il quale la casa di produzione ha chiesto il taglio delle scene più violente (che vedremo in versione integrale in dvd).

 

Dario Argento e la figlia Asia.

È un film che parla di streghe e infatti l'uscita è prevista per la notte di Halloween (il 31 ottobre). «Se il lavoro non mi dà risultati immediati mi annoio e lo abbandono. Ed erano più di 20 anni che questa storia mi inseguiva, invano. Non pensavo di farcela, per questo sono contento della "Terza madre". È importante per me, anche a livello simbolico». Le novità, rispetto ai primi episodi, sono due: il film è ambientato in Italia e ha come protagonista la figlia Asia (che ai tempi di "Suspiria" aveva appena due anni). «Abbiamo girato a Roma, in provincia di Terni e a Torino, una città che conosco molto bene. La presenza di Asia è frutto del caso. Avevo scritto il film per un personaggio immaginario, poi sono andato a Parigi per fatti miei e ho rivisto Asia. Abbiamo parlato per ore. Ci siamo ritrovati dopo anni in cui ci eravamo persi. E abbiamo deciso di lavorare ancora insieme».

 

E gli effetti speciali? «Ce ne sono oltre 180. Il più straordinario è quello del terremoto che distrugge Roma». Mentre Dario Argento racconta, noi siamo rapiti dall'imperfezione geometrica e dalla dolcezza della sua faccia. Al di là delle crudeltà che inventa, è bello capire chi è davvero questo 67enne. E lui non si tira indietro. «Sono un uomo normale, che ama il suo mestiere e fa una vita meno interessante di ciò che si pensa. Quando non lavoro, perdo tempo. Sono mattiniero, non mi piace stare a letto. Piuttosto gironzolo. Prendo la macchina e vado a vedere una mostra, un film o i luoghi dove ho immaginato una scena. Faccio nuoto tre volte a settimana, leggo molto. Le idee le tengo tutte in testa: non prendo appunti, mando a memoria. Filmo le scene mille volte nella mente e quando scrivo la stesura finale elimino il superfluo. Mi appassiona sempre il cinema, ma mi irritano le americanate. E i film giovanilistici italiani: ma quanto chiacchierano? ».

 

E il suo privato, Maestro, com'è? «Non ho molti amici, ma ho la fortuna di avere tante persone che mi stimano. Le donne mi piacciono ancora, mi affascinano. Come le metropoli. O il Sudest asiatico, dove vado per perdermi nella calma apparente. Viaggio spesso solo. E dopo tanti anni che mi frequento non ho ancora capito un cavolo di me». È a questo punto che si alza e ci accompagna nei meandri di Cinecittà. Sembra fatto apposta: porte che si aprono, corridoi bui da superare, scale strette e un po' allucinanti. I classici luoghi della paura. «I peggiori sono gli ambienti domestici, fonti inesauribili di incubi. In casa mia ho un salottino, ereditato da un vecchio zio: in questo periodo è il mio sacrario. Ma la paura, per me, non ha mai avuto confini». Racconti un po'. «Quando ho girato negli Uffizi ("La sindrome di Stendhal", ndr) lavoravamo solo di notte, perché di giorno c'era il pubblico. Io andavo avanti nelle sale buie, prima di arrivare con le telecamere. A un certo punto mi sono ritrovato davanti ai quadri di Michelangelo, Raffaello, Tiziano: uomini e donne che avevano sguardi veri. Ho avuto la sensazione che uscissero per prendermi. Ero terrorizzato». Come a Parigi, quando studiava l'Opera alle luci dell'alba. Una mattina ebbe la sensazione di essere inseguito e fuggì come un pazzo. O a New York, dove per alcuni mesi visse chiuso in albergo e usciva armato di una bomboletta spray per accecare i potenziali aggressori. O la volta che, seduto in casa a scrivere la scena di un film, si autosuggestionò talmente tanto da scendere in strada in pigiama e pantofole.
 

E l'incubo più recente? «Una visione mistica. Tutto ciò che è interiore, trascendente, mi spaventa. Dovessero apparirmi dei santi o la Madonna morirei davvero di crepacuore». E allora torniamo per un attimo con i piedi per terra. «Nuovi progetti? Non ne ho. Aspetto di vedere l'accoglienza di "La terza madre" e mi godo le grandi dimostrazioni d'affetto che mi arrivano da ogni parte del mondo». Lo dicevamo: Dario Argento è un mito, anche e soprattutto all'estero. In America il successo clamoroso dei lungometraggi per i Masters of Horror, in Francia due nuovi libri che parlano di lui, dalla Scozia al Brasile le retrospettive dei suoi film. E in Giappone una fama al limite del fanatismo.

A cominciare da Banana Yoshimoto. «Ormai è un'amica, ma è da sempre anche una fan». Lui non lo dice, ma l'autrice di "Kitchen" ha più volte dichiarato che nell'adolescenza i film di Dario Argento l'hanno addirittura salvata dal suicidio. Seduti su un divanetto, fra bobine e monitor, abbiamo il tempo per un'ultima domanda: lei è già un regista da enciclopedia, ma come le piacerebbe essere definito? «Il mondo che mi circonda oggi non mi piace: la razza cafona, la crisi della politica, dei valori. Ma quando mi dicono: "Beati voi che avete vissuto gli anni Settanta", io rispondo dicendo che fu anche una stagione terribile. Piena di violenza e di morti. Molti dei miei amici di allora sono finiti male, quasi un'intera generazione ne uscì distrutta. Anch'io ne ero coinvolto. Mi salvò il cinema. Senza questa passione sarei finito in prigione, forse peggio. Ho fatto questo mestiere perché lo sentivo dentro di me, come un dovere. Gli sono molto riconoscente e spero di averlo ripagato. Nei miei film non c'è solo l'horror. Ci sono anche l'amore, le passioni, l'ironia. Ecco: mi piacerebbe essere ricordato come uno che ha saputo raccontare delle storie».

 

(La Repubblica.it)