Pellegrino Artusi,
il brigante e ... le pignatte
La storia di Pellegrino Artusi, autore del primo
libro di gastronomia dell'Italia Unita. Di Claudio Bosio.

Diffidate dei libri che trattano di gastronomia;

 sono la maggior parte fallaci o incomprensibili,

specialmente quelli italiani; meno peggio i francesi;

 tutt’ al più sia dagli uni che dagli altri potrete

 attingere qualche nozione utile quando l'arte la conoscete.

 P.Artusi


2 luglio 2009. - È stato detto, forse a buon diritto, che una "cucina italiana", come tale,  non esiste. Addirittura non esisterebbe nemmeno una cucina, per così dire, regionalistica: molti dei "piatti" dei nostri ristoranti, sono in realtà connotati da criteri … villico-gastronomici. La cotoletta, per antonomasia, è "milanese", il caciucco è "livornese", la bistecca è "fiorentina", il pesto è solo "genovese", il baccalà è "vicentino"….. Sembra di essere in pieno medioevo, quando l’Italia, come nazione, era di là da venire e c’era, invece, una pletora di città-staterello, diverse per costumi di vita ed per abitudini alimentari.

Chi, per primo, ha compiuto una cernita fra questo guazzabuglio di ricette indigeno-paesane, è stato, verso fine ′800, un agiato signore nativo di Forlimpopoli, Pellegrino Artusi, reputato, per questo suo lavoro, il "padre" della gastronomia italiana.

Egli, infatti, nel 1891, pubblicò a sue spese «La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene», un vero manuale di cucina frutto della conoscenza acquisita dall’Autore in numerosi di viaggi nel nord e centro Italia e delle sperimentazioni delle ricette stesse ad opera dei cuochi della sua casa, Francesco Ruffilli e Marietta Sabatini. Pellegrino nacque nel 1820, appunto a Forlimpopoli, dove la famiglia gestiva un’avviata drogheria.

Unico figlio maschio in una nidiata di 8 sorelle, come molti ragazzi di buona famiglia compì gli studi al seminario di Bertinoro, nel forlivese. Tra il 1835 ed il 1851, frequentò (più che l’Università!) gli ambienti universitari di Bologna.

Quel che è certo è che, senza aver conseguito alcun diploma di laurea, fece ritorno al suo paese dove intraprese la professione del padre, ricavandone un sostanzioso profitto. La sua vita scorreva tranquilla e serena, con un "tran-tran" regolare, fatto di lavoro, casa, chiesa e un entourage provincialissimo di persone benestanti.

Ma questa vita così placida fu turbata, il 25 gennaio 1851, da un evento a dir poco drammatico. I buoni borghesi di Forlimpopoli, fra i quali i signori Artusi, erano riuniti nel teatro locale (oggi teatro Verdi) in attesa dell’inizio dello spettacolo.

Il sipario infine si alzò, ma sul palcoscenico apparve un nutrito gruppo di briganti, ben schierati e con le armi spianate. Si trattava di Stefano Pelloni (18241851)[1], il famigerato “Passatore”, e dei suoi accoliti, che avevano occupato il teatro.

Il Passatore annunciò che i benestanti presenti in sala avrebbero dovuto pagare un immediato riscatto collettivo di 40.000 scudi, equivalenti a circa 150 euro (un notevole "capitale" all’epoca). Iniziarono pertanto un appello nominale seguito da una sistematica spoliazione di tutti i facoltosi spettatori convenuti per lo spettacolo.

Il "Passatore" spiegò chiaramente che intendeva far pagare un "dazio" cospicuo a tutte le famiglie facoltose, i cui componenti erano presenti in sala. La cosa era stata architettata assai bene: ogni famiglia avrebbe dovuto inviare un proprio rappresentante a casa (accompagnato da uno dei briganti) per raccogliere quanto poteva in denaro e preziosi.

Ovviamente, questa specie di rastrellamento non avvenne senza tentativi di fuga, spari, urla e minacce: Pellegrino e la sorella minore, Geltrude, si nascosero nel granaio di casa ma la ragazza riportò, da quelle ore di spavento, uno shock permanente per cui dovette essere ricoverata in manicomio. Diversi storici e biografi ritengono che, in realtà, la ragazza avesse subito violenza fisica da parte degli sgherri del brigante.

Per questo increscioso avvenimento (ed anche per una questione di maggior sicurezza) gli Artusi lasciarono quindi Forlimpopoli e si trasferirono a Firenze dove ripresero l’attività di commercianti, lontano dalla scena dello sconvolgente episodio.

Fu così che Pellegrino Artusi visse il resto della sua lunga vita (1820-1911, 91 anni) nella città medicea. Qui Pellegrino si dedicò alla mercatura con un successo tale che, a 45 anni, poté tranquillamente ritirarsi e vivere di rendita, libero di dedicarsi ai suoi principali interessi, la letteratura e la cucina.

Tre furono le opere di Artusi: due saggi di critica letteraria ed un manuale di cucina. I saggi, una biografia di Ugo Foscolo ed una critica a trenta lettere di Giuseppe Giusti, passarono quasi completamente sotto silenzio, e presto non vennero più ristampate. Appassionato di gastronomia, ma senza avere capacità culinaria, all’età di 60 anni decise di applicarsi con criteri scientifici alla materia. Creò un’autentica cucina sperimentale dove, con l'assistenza della cuoca toscana Marietta Sabatini e del "servente" forlivese Francesco Ruffilli, provò e riprovò varie ricette, raccogliendo appunti, idee, aneddoti e riflessioni.

Stilato un ricettario con tutto questo materiale, dopo avere ricercato senza successo un editore, nel 1891 pubblicò a proprie spese: "La scienza in cucina e l'arte di mangiar bene", composto di 790 ricette, dai brodi ai liquori, passando attraverso minestre, antipasti (anzi "principii"), secondi e dolci.

All’inizio il libro, definito dall'Artusi "manuale pratico con il quale basta si sappia tenere un mestolo in mano", non incontrò l’interesse degli acquirenti, costringendo l'autore a regalarlo agli amici. Poi l’opera conquistò il pubblico, tanto da diventare dopo numerose ristampe il testo gastronomico dell’Italia unita. Alla sua morte, avvenuta nel 1911, egli, non avendo figli, lasciò in eredità ai suoi due cuochi, Marietta Sabatini e Francesco Ruffilli, i diritti d'autore dell'opera, con i quali essi poterono vivere di rendita anche dopo lo scadere degli stessi, nel 1961. Ad oggi, l'opera conta 111 edizioni, con oltre un milione di copie vendute.

Si può dire che la "Scienza in cucina..." assieme al "Pinocchio" di Collodi e al "Cuore" di De Amicis, è uno dei capisaldi della cultura italiana ottocentesca. Animato dagli ideali borghesi di decoro, moderazione e buon gusto, Pellegrino ebbe il grande merito di proporre un modello di cucina nazionale ed "economica", selezionando dal ricchissimo patrimonio gastronomico delle regioni sopratutto centro settentrionali, e dalla produzione libresca precedente.

Crostini di fegatini di pollo, spaghetti col pomodoro, gnocchi, risotto alla milanese, vitello tonnato, scaloppine al marsala, crostate di frutta e zuppa inglese, sono alcuni dei piatti che Artusi riuscì ad imporre dal Piemonte alla Sicilia come "piatti nazionali".

In particolare fu proprio Artusi a canonizzare il binomio "pasta-salsa di pomodoro": prima di lui in nessun altro manuale di cucina si trova quello che sarebbe diventato il piatto simbolo della cucina italiana.


 

[1] Il soprannome è dovuto al mestiere di traghettatore (o "passatore") sul fiume Lamone esercitato dal padre; era chiamato anche Malandri, dal cognome della donna che sposò un suo bisavolo. Era un un efferato criminale, sanguinario e sadico. Le sue imprese, tuttavia, ispirarono la musa popolare della rievocazione orale (che enfatizzò la sua generosità, divenuta leggendaria, quasi fosse il Robin Hood della Romagna) e quella colta, da Arnaldo Fusinato a Giovanni Pascoli (che nella poesia Romagna idealizzò la sua figura evocandolo, appunto, come il Passator Cortese). Fu tradito da uno dei suoi uomini che ne incassò la ricchissima taglia. La  Gendarmeria pontificia ne trasportò il cadavere su un carretto per tutte le strade della Romagna, a dimostrazione della effettiva fine del brigante. [torna al testo...]