Ma qualcuno si ricorda
di Albert Schweitzer?

Oggi ricorre l'anniversario della morte di un grandissimo uomo.
Di Claudio Bosio.

…col tempo dilegua il ricordo…
Solo rimane, squallido, l'oblio.

Albert Schweitzer.


4 settembre 2010. - Non sembri un’esagerazione: oggi il mondo intero dovrebbe celebrare l’anniversario della morte di un grandissimo uomo.

Ma, siatene certi, quasi nessuno dei cosiddetti “mass-media” ne farà più di tanto cenno.

Si tratta di Albert Schweitzer (1875 –1965) un intellettuale europeo sceso nell’Africa coloniale per dichiararsi (fra le polemiche) «Fratello, ma fratello maggiore», teologo, predicatore, personalissimo interprete di Bach all’organo, cattedratico, scrittore, medico e fondatore (una stupenda follia evangelica!) di un ospedale nella foresta del Gabon, Premio Nobel per la Pace nel 1952, denominato dalla sua gente di Lambaréné "Oganga Schweitzer", lo "Stregone Bianco Schweitzer".

Il Medico, per tutti noi, è essenzialmente un individuo che esercita una professione che ha come finalità la salvaguardia della nostra salute. A tal fine, prescrive determinati farmaci, avendo diagnosticato particolari malattie e conoscendo le terapie più adeguate per curarle, in base agli studi effettuati e alla propria specializzazione.

Quando,  invece, pensiamo ad un Ospedale, immaginiamo lunghi corridoi, infermiere e dottori in camice bianco, gli orari che regolano i pasti, le pulizie degli ambienti, i cambi della biancheria, gli esami e le visite degli specialisti. Più in particolare, quando pensiamo alle sale operatorie ci raffiguriamo ambienti estremamente puliti, dove si effettuano interventi cruenti ed invasivi sul corpo umano, secondo particolari tecnologie e con adatte strumentazioni

Volendo fare riferimento all’attività di Albert Schweitzer, tutto questo nostro quadro d’insieme non è assolutamente valido. Anzi, dovremmo riconsiderare in toto il nostro modo d’intendere la scienza medica,  riflettendo su quanto lo stesso Schweister lasciò detto: «La Vera Medicina è ciò che allevia e lenisce i mali dell’Anima, ed attraverso essa, il corpo ne trae autentico e sicuro beneficio».

La vita di questo eccezionale Uomo, è stata straordinaria, esemplare ed irripetibile.  

Schweitzer nasce, il 14 gennaio 1875, a Kaysersberg, nell’Alta Alsazia (allora territorio tedesco), figlio di un pastore protestante. Fin da bambino, si dimostra un ragazzo timido, sensibile e portato all’introspezione; scriverà in proposito, nelle sue memorie:

«Ricordo di aver sempre sofferto a causa della grande miseria che vedevo nel mondo. Non ho mai conosciuto la gioia di vivere spontanea, propria della fanciullezza, […] Ciò che mi faceva più soffrire era vedere dei poveri animali costretti a sopportare così tanto dolore e tante privazioni. La vista di un cavallo vecchio e zoppicante, trascinato da un uomo mentre un altro lo colpiva con un bastone mentre veniva portato al mattatoio di Colmar, mi perseguitò per settimane». Il padre, Ludwig Schweitzer, esercita il proprio ministero nel villaggio di Gunsbach. Il destino ha voluto che ancora oggi, come allora, in questa chiesa si celebrino due culti, cattolico e protestante, in lingua francese e tedesca. Questo alternarsi ad orari regolari, di differenti confessioni religiose nella più totale armonia, spingerà Albert nelle sue future riflessioni e rimembranze a dire: «Da questa chiesa aperta ai due culti ho ricavato un alto insegnamento per la vita: la conciliazione. […] Le differenze tra le Chiese sono destinate a scomparire. Già da bambino mi sembrava bello che nel nostro paese cattolici e protestanti celebrassero le loro feste nello stesso tempio». È importante rilevare che, fin dai nove anni, accompagna i servizi liturgici del padre alla tastiera dell’organo. L’amore autentico per la musica sacra e barocca, rimarrà per tutta la sua vita; adulto si distinguerà come organista di talento ed interprete d’eccezione delle opere di Johann Sebastian Bach; terrà concerti in tutta Europa. La sua propensione allo studio di Bach lo porta a formulare una tesi, al tempo innovativa, ed oggi proprio grazie a lui scontata, che afferma la grande analogia fra i testi poetici in relazione alla composizione musicale.

«Che cos’è Bach per me? E’ un consolatore. Egli mi dà fiducia che quanto è realmente vero, nell’arte come nella vita, non può essere ignorato e soffocato». (dal suo testo: “J. S. Bach, le musicien poète”, 1905).  Nel 1899 si laurea in filosofia, la sua tesi verterà sull’opera di Immanuel Kant ed il suo modo d’intendere la religione; un pensiero per molti, ancora oggi, scomodamente illuminista, ma Albert Schweitzer saprà uscire dalla consuetudine e andrà, per il resto della sua intensa vita, diritto all’essenza delle cose a discapito del pensiero comune.

Nel 1900 ottiene anche il Dottorato in Teologia; nel 1903 è preside del Collegio di Strasburgo dove insegnerà e predicherà. La spinta interiore lo porta ad un filantropico trasporto verso il Prossimo, ad un Amore rivolto ai sofferenti nel senso di condivisione con chi, in qualunque parte del mondo, sia in condizione di indigenza e povertà. Grazie a questi nobili sentimenti decide, nel 1905, d’iscriversi alla facoltà di medicina a Strasburgo, col preciso intento di servire i bisognosi; nel frattempo conosce la sua futura moglie, Héléne Bressau, che lo seguirà ovunque con amore, dedizione e premura. Nel 1911 ottiene la laurea, con specializzazione in malattie tropicali; nel 1912 si sposa e subito cominciano i preparativi per la sua missione africana. Luogo di destinazione sarà Lambaréné, nel Gabon, all’epoca Africa equatoriale francese. Da principio chiede aiuto ai missionari mettendosi gratuitamente a loro completa disposizione. L’aiuto gli viene però negato, a causa delle sue "strane" idee su  Gesù: quella sua convinzione, illuminata ed illuminante, che la vera Religione è da trovarsi nella Sostanza, non nel rito.

«Gli osservanti più stretti fecero resistenza. Si decise di sottopormi ad un esame sulla Fede. Non accettai, motivando il mio rifiuto col fatto che Gesù, chiamando i suoi discepoli, non pretendeva altro se non che volessero seguirlo». Riesce comunque ad ottenere un appoggio logistico, «Quando assicurai che volevo fare solo il medico, e per tutto il resto sarei stato muto come una carpa, allora si tranquillizzarono».

Albert ricava fondi presso amici e parenti, attraverso donazioni spontanee, organizzazioni di beneficenza e, specialmente, facendo concerti d’organo. Quest’ultimo sarà il modo più proficuo utilizzato dal dottor Schweitzer per la raccolta di sovvenzioni per l’autofinanziamento dell’ospedale. Tra gli alberi della foresta ha così inizio la faticosa edificazione della clinica, che costruisce letteralmente con le sue mani, alternando il lavoro di medico a quello di operaio e carpentiere. L’aiuto della gente del luogo non si fa attendere, ma con essa arriva anche il grande flusso dei bisognosi di cure e di attenzioni. Le patologie sono le più disparate; il primo consulto medico avviene in un pollaio che a breve diverrà sala operatoria; per il resto, povere baracche di paglia, legno e fango, sorgono come stanze di degenza, fino a formare un piccolo villaggio ai margini del fiume. Il grande rispetto per la vita e la cultura locale, spinge il dottor Schweitzer a stravolgere le regole della medicina occidentale. Egli infatti ritiene che in Africa, un ospedale impostato secondo i criteri europei, non avrebbe alcun senso: occorre curare gli ammalati secondo le loro usanze, per farli sentire a proprio agio e disporli in una condizione favorevole alla pronta guarigione. «Nessuno verrebbe da me se io li costringessi a vivere in corsie sterilizzate, su lettini di ferro, tra lenzuola bianche. Non sanno che farsene, loro, delle lenzuola. Io li curo lasciandoli vivere come sono abituati a vivere nei loro villaggi, tra i loro familiari e le loro bestie, con le loro piccole e grandi infrazioni all’igiene. Io ho tutto nel mio ospedale: antibiotici e cortisonici, sulfamidici e vitamine, raggi X, elettrocardiografi ed altro ancora. Manca solo l’igiene. Ma c’è qualcosa che vale di più dell’igiene: la serenità, la distensione dell’animo, l’azione favorevole dell’ambiente».

I pazienti arrivano da ogni parte, risalendo il fiume con le canoe, ed insieme ad essi le loro famiglie che, svolgendo il lavoro e la vita quotidiana per tutta la durata del ricovero, vivono nelle baracche insieme agli infermi, che vengono divisi per etnie e affezioni.

Il dottor Schweitzer svolge qui un’opera di autentico apostolato, mettendo in pratica le Leggi del Vangelo, ponendosi al completo servizio dei poveri.

A causa dello scoppio della prima guerra mondiale, Albert ed Héléne sono costretti ad abbandonare la struttura e l’Africa: sono deportati in Francia, in quanto, essendo tedeschi per nascita, sono dei nemici! L’esperienza della prigionia minerà per sempre la salute della moglie. Nel 1924 Schweitzer, dopo aver fatto numerosi concerti in Europa per raccogliere nuovi fondi, tornerà senza di lei in Gabon. Nel frattempo la sua opera di scrittore e saggista corre parallela a quella di medico; scrive libri come: Ai bordi della foresta, Le religioni mondiali e il cristianesimo, Filosofia della civiltà, Cultura ed etica e Ricordi della mia infanzia.

Tornato a Lambaréné, con rinnovato vigore ricostruisce la struttura e la amplia rispetto alla precedente, mantenendo però lo stesso principio di accoglienza. Le foto dell’epoca lo ritraggono con i lunghi baffi all’insù, in maniche di camicia e casco coloniale, mentre lavora con i contadini, con gli operai, oppure nell’intento di visitare un paziente in veste di medico. L’aria è austera e lo stile di vita sobrio; si nutre quasi esclusivamente di frutta e verdura; il suo fisico è temprato dal lavoro e tenacemente resistente alle malattie. Schweitzer non spreca niente: le lettere che invia nella fitta corrispondenza o le bozze dei suoi libri vengono scritte sul retro delle buste, ai bordi di libri o delle bolle di consegna merci, in una calligrafia minuta ed essenziale.

La sua determinazione di non voler dipendere da finanziamenti di enti pubblici che, vista la fama acquisita, cominciano a farsi avanti, lo spinge a rientrare di tanto in tanto in Europa e proseguire i suoi concerti per la raccolta dei fondi. La società Bach di Parigi gli regala un pianoforte verticale con pedaliera, col quale egli può suonare, nelle calde ed umide notti illuminate dalla luna africana, la poetica musica che egli sempre ha amato e che dalle silenziose capanne si spande e si perdeva nel folto della foresta, sino ai piedi del fiume che ne lambisce i margini. Proprio dalle sue profonde riflessioni egli estrapola la sua teoria filosofica, che concretizza nell’espressione "Rispetto per la Vita" e che si basa sulla convinzione che il progresso umano, tecnologico e sociale, debba essere accompagnato di pari passo al progresso etico e morale.

Questo comporta la  necessità di riflettere sulla propria esistenza e di capirne pienamente il significato. Ognuno di noi deve lavorare per un preciso scopo, per il nobile ideale del Bene universale, capendo che tutti possiamo fare qualcosa per gli altri, anche nella quotidianità, certi che questi benefici effetti si ripercuoteranno come aria pura, sul mondo intero. «Ciò che più di tutto fa di un essere umano un vero uomo è la sua empatia per tutte le creature viventi».

Sentirsi responsabili del dolore del nostro prossimo e voler agire per alleviarne le sofferenze. Questo è l’impulso che tutti noi dovremmo avere, consapevoli del fatto che ognuno di noi ha una missione, ed è personalmente coinvolto nella riuscita della stessa. «Nostro dovere è prendere parte alla vita e averne cura. Il rispetto reverenziale per tutte le forme di vita rappresenta il comandamento più importante nella sua forma più elementare. Ovvero, espresso in termini negativi: "Non uccidere". Prendiamo così alla leggera questo divieto che ci troviamo a cogliere un fiore senza pensarci, a pestare un povero insetto senza riflettere, orribilmente ciechi, non sapendo che ogni cosa si prende le proprie rivincite, non preoccupandoci della sofferenza del nostro prossimo, che sacrifichiamo ai nostri meschini obiettivi terreni».

L’applicazione di queste norme, è per Schweitzer, costante ed abituale nelle sue giornate. A Lambaréné regna la fratellanza e l’uguaglianza; persone di colore, di diverse religioni ed etnie, convivono nella più totale armonia, e questa forma di rispetto viene estesa anche ad animali, fiori e piante. Ogni momento egli, con l’esempio e le parole, fornisce occasioni di riflessione. Va anche detto che il dottore, nel suo ospedale, mantiene uno spiccato senso dell’umorismo e, con questa intenzione, dà un insegnamento ad un bambino di dieci anni: «Questa è la mia formica personale. Ti riterrò responsabile se le romperai le zampe».

Nel 1953 gli viene conferito il premio Nobel per la Pace. La sua fama è così universalmente consacrata. Il rispetto per la vita che sempre a predicato, lo spinge a dire in quell’occasione:

«Lo Spirito dell’uomo non è morto. Continua a vivere in segreto... È giunto a credere che la compassione, sulla quale si devono basare tutte le filosofie morali, può raggiungere la massima estensione e profondità solo se riguarda tutti gli esseri viventi, e non solo gli esseri umani».

Parole che danno nuova speranza e fiducia alle future generazioni: l’uomo ha la possibilità reale di agire in favore della vita, rapportandosi con il prossimo e la madre terra.

Molti medici decidono di seguire il suo esempio e di dedicarsi agli altri.

Anche per questo misconosciuto Medico dei corpi e delle anime, venne il momento della celebrità. A quanti credono che Albert Schweitzer abbia voluto attirare in qualche modo l’attenzione da parte dei mass media o di chicchessia, va ricordato che la sua notorietà si diffuse a livello mondiale solo quando, nel 1945, alla Radio americana Albert Einstein (suo amico) disse che nella foresta equatoriale africana viveva "uno dei più grandi uomini dei tempi moderni, se non il più grande". Tale notorietà si intensificò dopo il riconoscimento del Premio Nobel ed ancor più nei primi anni ’60 quando, grazie all’Air France, a Lambarènè giunsero giornalisti attirati dalla tentazione di fare un “servizio” su Albert Schweitrzer e il suo ospedale. Di solito li riceveva l’alsaziana Emma Haussknech, con Schweitzer da trent’anni. Nel 1953 giunse Jhon Gunter, famoso giornalista americano, che scrisse: Coloro che credono che Albert Schweitzer volesse attirare in qualche modo l’attenzione da parte dei mass media o di chicchessia, va ricordato che la sua notorietà si diffuse a livello mondiale solo quando, nel 1945, alla Radio americana Albert Einstein (suo amico) disse che nella foresta equatoriale africana viveva “uno dei più grandi uomini dei tempi moderni, se non il più grande”. Tale notorietà si intensificò dopo il riconoscimento del Premio Nobel ed ancor più nei primi anni ’60 quando, grazie all’Air France, a Lambarènè giunsero giornalisti attirati dalla tentazione di fare un “servizio” su Albert Schweitrzer e il suo ospedale. Di solito li riceveva l’alsaziana Emma Haussknech, con Schweitzer da trent’anni. Nel 1953 giunse Jhon Gunter, famoso giornalista americano, che scrisse: "È un grand’uomo, uno dei più grandi d’ogni tempo, è una natura così alta e versatile che sfugge a una facile comprensione. Ha un poderoso naso aquilino, baffi spioventi, occhi che veramente fissano. È di una corporatura robusta e la sua tenuta consiste in un elmetto coloniale, una camicia bianca, aperta, calzoni sbrindellati, grosse scarpe nere. Forza, calma, autorità, sensibilità…; tutte queste caratteristiche si rispecchiano nella sua faccia fiera, dallo sguardo penetrante e dal pelo brizzolato. È un viso straordinario e Schweitzer è un magnifico uomo… Talvolta è dittatore, pedante, irascibile, ma esercita un fascino che ha del miracoloso ed è letteralmente adorato. E la sua risata, le volte che ride, è un segno evidente della sua dolcezza interiore… È un despota dal cuore d’oro". Schweitzer utilizzava l’umorismo come una forma di terapia equatoriale, un modo di ridurre la temperatura, l’umidità, le tensioni. In realtà, si serviva dell’umorismo in modo così artistico che si aveva la sensazione che lo considerasse quasi come uno strumento musicale. Durante i pasti, quando l’équipe si trovava tutta riunita, Schweitzer aveva sempre una storiella da raccontare. La risata era probabilmente la portata più importante: era stupefacente vedere come i membri dell’équipe sembravano ringiovaniti dall’argutezza del suo umorismo. Ai giornalisti, stupiti della sua opera, Schweitzer diceva: «Questo che vedete, vi piaccia o meno, è il mio ospedale. Questa che vedete è la mia religione. Il mio ospedale è povero, ma ricco di qualcosa che voi non vedete perché ne siete già ricchi: la libertà, anche per un lebbroso, di vivere… Qui c’è il rispetto per la vita, per le consuetudini… Il telefono a che servirebbe? Se un malato muore o guarisce, io non saprei quasi mai dove e a chi telefonare... »

Nel 1954, con i fondi del premio, Schweitzer riesce ad erigere quello che è sempre stato un suo desiderio: un ospedale per lebbrosi che egli chiamerà emblematicamente “Villaggio della Luce”.

«Questa che vedete è la mia Religione. Il mio ospedale è povero, ma è ricco di qualcosa che voi non vedete, perché ne siete già ricchi: la libertà…».

Sempre di più, il medico musicologo e missionario, riflette sui problemi della società attuale, con le sue numerose contraddizioni e gli equilibri precari ed asimmetrici che la contraddistinguono.

Secondo Schweizter, ciò che rende la nostra civiltà un disastro è il fatto che sia molto più sviluppata materialmente che spiritualmente. C’è uno squilibrio troppo  rimarcato. I fatti invitano a riflettere: affermano, con parole terribilmente crude, che una civiltà che si sviluppa solo dal lato materiale e non nella propria sfera spirituale... si avvia alla catastrofe. Solo la condivisione dell’etica del rispetto reverenziale per la vita, può mantenerci uniti nella ricerca di ogni opportunità per aiutare gli altri. Anche gli animali, per risarcirli dell’immense vessazioni inflitte loro dagli uomini:  dobbiamo interpretare la vita che ci circonda nello stesso modo in cui interpreto la nostra. La nostra vita è, senza dubbio, molto significativa per noi. La vita che ci circonda deve essere significativa per se stessa. Se ci aspettiamo che gli altri rispettino la nostra vita, noi dobbiamo rispettare quella degli altri, per quanto strana ci possa sembrare. E non solo la vita umana, ma la vita di tutti gli esseri: le forme di vita di livello superiore al nostro, se esistono; quelle di livello inferiore, che sappiamo che esistono. L’etica, come viene intesa nel mondo occidentale, è stata finora limitata ai rapporti tra uomini. Ma questa etica è limitata. Secondo Schweizter, abbiamo bisogno di un’etica più vasta, che includa anche gli animali.

«L’uomo è veramente etico quando rispetta l’obbligo di aiutare tutte le forme di vita che è in grado di aiutare, e quando, per evitare di danneggiare un essere vivente, cambia i suoi progetti.

Non chiede in che misura questo o quell’essere vivente meriti simpatia, né se questo sia capace di provare sentimenti. Per un uomo etico la vita è sacra per se stessa. Se, dopo un temporale, quest’uomo esce in strada e vede un verme smarrito, penserà sicuramente che quel verme morirà disidratato al sole se non penserà a dargli immediatamente del terreno umido dove poter strisciare, perciò lo porta via dal mortale selciato di pietra e lo deposita nell’erba verde. Se, passando, dovesse vedere un insetto caduto in una pozza, perderebbe un po’ del suo tempo a cercare una foglia o uno stelo su cui l’insetto potrà arrampicarsi e così salvarsi. L’uomo, divenuto un essere pensante, sente il dovere di dare ad ogni voglia di vivere lo stesso rispetto reverenziale per la vita che dà a se stesso. Percepisce tale vita altra nella propria. L’uomo pensante deve opporsi a tutte le pratiche crudeli, per quanto profondamente radicate nella tradizione e circondate da un’aureola di santità».

Difficile non essere concordi con queste sublimi massime di vita.

Vale, tuttavia, la  pena di fare un breve commento.

Destino di ogni verità è quello di essere oggetto di ridicolo la prima volta che viene pronunciata.

In passato venne considerato pazzesco supporre che gli uomini di colore fossero esseri umani come gli altri e che dovessero essere trattati come tali. Ciò che in passato era una follia ora è una verità riconosciuta. Oggi proclamare il rispetto costante per tutte le forme di vita, nell’ambito di una richiesta seria di un’etica razionale, viene considerata un’esagerazione. Si sta però avvicinando il giorno in cui la gente sarà stupita che la razza umana sia vissuta tanto tempo prima di capire che nuocere distrattamente alla vita è incompatibile con una vera filosofia morale. L’etica è, nel senso più vasto del termine, un senso di responsabilità esteso a tutto ciò che ha vita..

Il 4 settembre 1965, alle 23:30, Albert Schweitzer muore, all’età di 90 anni.

L’ospedale di Lambaréné è oggi uno dei più importanti ed avanzati di tutta l’Africa, ma il lascito che egli dona all’intera umanità va ben oltre: è il suo esempio, la sua costanza. La certezza con la quale ha agito, la conferma che l’Amore donato altruisticamente, germoglia e fiorisce estendendosi a tutte le forme viventi, non ha prezzo, ed una volta trasmessa, perdura nel tempo.

Con le sue tre lauree, gli studi di musica, la sua abilità di organista e di medico, la vita avventurosa, il suo impegno per i temi sociali, morali ed ecologici, il dottor Schweitzer ci fornisce la chiave per superare la nostra inquietudine, condensandola in un insegnamento:

«L’uomo non troverà la Pace interiore finché non imparerà ad estendere la propria compassione a tutti gli esseri viventi».

Albert Schweitzer è, ancor oggi, più che mai presente in mezzo a noi, a ricordarci il suo messaggio ultimo:

«Non si può vivere senza speranza. a speranza che abbiamo e che conserviamo è la forza della nostra epoca. Il grande pericolo per l'uomo è perdere il suo umanesimo: non essere più uomo, diventare lui stesso una macchina.

Bisogna reagire. Cercare cosa si può fare come uomini..

Noi dobbiamo, sia per mezzo della religione, sia per mezzo della nostra condotta, cercare quello che vi è di spirituale in noi e…farlo prosperare!»

Share