Marianna de Leyva,
la monaca
di Monza

Donne d'Italia
Di Claudio Bosio.

La Monaca di Monza con Lucia, Agnese e il Padre Guardiano.


 

“Era lì  il centro della tua vita;
ne assaporavi il gusto‚ con la forza dei vent’anni.
Una rivincita dei sensi‚ nel godimento che ti stordiva‚
col battito del cuore che ti saliva in gola.
[…] offrendo il corpo‚libero da freni‚
a chi prendeva l’anima‚ suggendoti la vita.
E non fu fede a fermarti‚ma follia…”

Franco Pastore: “Gertrude storia a confronto”.

 

10 novembre 2010. - La sera di sabato 18 ottobre 1608 (die Sabbati decimo octavo mensis octobris in vesperis) il tribunale ecclesiastico di Monza emanava la seguente sentenza:

«Christi nomine reperito ……sentenziamus. Dominam sororem Virginiam Mariam de Leyva, monialem professam in monasterio dyocesis …. Vele et realiter non solum per multos testes, sed etiam per ipsius met propriam confessionem convictam …..et enormia, et atrocissima delicata….condemnamus….sorore Virginia Maria….in poenam, et respective poenitentiam perpetui carceris ….in parvo carcere, et intus illum ponatur.. ed etiam muro lapidibus, et calce structo, ostium, sive porta dicti carceris obturetur….et ex inde numquam donec vixerit exire possit, nec valeat, neque minus ipsi facultas exuendi per aliquem concedi possit, …..Ita sentenziavi ego Mamurius Lancilottus vicarius criminalis archiepiscopalis. »

Il testo latino (post-umanistico) è comprensibilissimo: si comminava un’atroce condanna alla Suora Virginia Maria di Leyva che, per i crimini di cui era accusata e da lei stessa ammessi, doveva essere murata viva (nella Pia casa delle Convertite di Milano) essendo costretta a passare i giorni, che le rimanevano da vivere, in una cella angusta (in parvo carcere) e priva di porte (porta dicti carceris obturetur).

Tuttavia, il Collegio giudicante, mosso da … eccelsa pietà cristiana, benignamente consentiva:

«Sia lasciato solo un piccolo foro nella parete del predetto carcere, attraverso il quale possano essere passati….gli alimenti e le cose necessarie al suo sostentamento perché non muoia di fame … sia lasciato anche un piccolo foro …attraverso cui possa ricevere luce ed aria…»

(meglio tradurre questo passo in italiano: così si può meglio apprezzare lo spirito di magnanimità e d’indulgenza del Tribunale!)

La misera reclusa, abbandonata dalla sua stessa famiglia, fu, in effetti, segregata in una cella di due metri per tre, disponendo di un sacco di paglia per giaciglio e di un bugliolo (svuotato una volta la settimana) per i bisogni corporali, senza riscaldamento alcuno durante l’inverno. Una piccolissima apertura consentiva di far passare un po’ d’aria e di luce, mentre una specie di fessura praticata sul muro consentiva l’introduzione del cibo.

Quattordici anni dopo, il 25 settembre 1622, (l’anno in cui nasce Jean-Baptiste Poquelin, detto Molière) il portone del Ricovero delle Convertite di Santa Valeria, a Milano, si aprì per far passare una figura che, più che camminare, si trascinava in stato pietoso, coperta dai brandelli, sudici e laceri, di quello che un tempo era stato il suo abito monacale.

Palazzo Marino, Milano.Si trattava, appunto di Suora Virginia Maria, una donna denunciata all’anagrafe come Alma Francesca Margherita Marianna, nata a Milano (a Palazzo Marino —nella foto a sinistra—, oggi sede del Comune) il 7 gennaio 1575, da don Martino De Leyva, principe di Ascoli e conte di Monza e da donna Virginia Marino, figlia del banchiere Tommaso Marino, l’uomo più ricco di Milano (la quale, all’epoca del matrimonio con don Martino, era vedova con cinque figli).

In verità, in quel tempo, il teatro alla Scala [1] e la Galleria non c’erano. E non c’era neppure l’attuale facciata principale di Palazzo Marino [2].

L’infanzia di Marianna non ebbe nulla dell’innocenza e della gaiezza infantili. La piccola crebbe sballottata da una governante all’altra (la madre morì di peste, epidemia che nel 1576 infuriò su Milano, quando la figlia aveva soltanto un anno), mentre il padre, era costretto dalle sue cariche militari ad allontanarsi di frequente. (Finché, nel 1588 non si risposò in Spagna con donna Anna Viquez del Moncada e così, non avendo più interessi in Milano, se si eccettuano alcune beghe pendenti con il Fisco, non vi mise più piede).

Il futuro della piccola avrebbe anche potuto essere altrettanto sfarzoso, ma così non fu. Per Don Martino, la piccola era né più né meno che "un’ingombrante creatura", e la affidò quindi alla sorella, che si chiamava anch’essa Marianna. Va rilevato che il matrimonio con Virginia Marino, era stato per lui solo una faccenda d’interesse: la sposa, pare fosse tutto fuorché bella, ma, in compenso, gli portò in dote circa un miliardo delle nostre vecchie lire. E non era neanche scema, in verità, poiché aveva fatto testamento lasciando i suoi beni divisi in parti uguali fra i figli, concedendo al marito solo l’usufrutto ed un grande anello.

Tutto ciò conferma il fatto che Marianna fosse, per il padre, solo un impiccio: era una femmina, era la secondogenita e, per soprammercato, era la legittima proprietaria di una grossa fetta dei beni della defunta madre.

Quanto alla zia Marianna, sorella di Martino de Leyva, sposata Stampa, risulta fosse un vero impiastro di donna: bigotta e fanatica, vedeva tentazioni ed opere del diavolo ovunque, si circondava di preti ed imponeva all’andamento della casa regole simili a quelle monastiche. Tanto per dare un’idea, nel proprio testamento aveva fatto inserire una clausola per cui, nel caso fosse morta prima del marito e del figlio, s’imponeva al primo di farsi missionario in Algeria ed al secondo carmelitano scalzo. (Non si hanno notizie circa quale sorte sia stata loro riservata!).

Dunque per Marianna le cose stavano così: era una ricca ereditiera-ragazzina, orfana di madre, con un padre in pratica assente, in balìa di una zia rincitrullita da una religiosità esasperata e distorta. In questa situazione, era gioco forza che le fosse imposto il velo.

E così, il 25 marzo 1589, a soli 14 anni, Marianna entrò nel noviziato di San Margherita di Monza, che all'epoca ospitava una ventina di monache, per diventare, nel 1591, a 16 anni, Suor Virginia Maria. La scelta di Monza fu dettata da ragioni, per così dire, dinastiche: in quando figlia del feudatario della città, Marianna aveva il rango di "signora" di Monza, grazie al quale poteva esercitare, sulla cittadina, delle forme feudali d’autorità, come, ad esempio, amministrare la giustizia. Dal 1595‚ a vent’anni‚ suor Virginia‚ per mandato del padre‚ si trovò ad esercitare il cosiddetto "biennio di sovranità" a Monza, che consisteva nell’emettere gride (ossia leggi che venivano appunto "gridate" visto che molta gente era analfabeta) nell’ordinare arresti, rimettere pene, ed altro. Nell’espletare queste funzioni, riscosse il rispetto e l’ammirazione di tutti: riservata‚ esemplare‚ garbata ed equilibrata. Una vera "Signora".

Nel 1597, Marianna è maestra delle Educande del Convento (circa 20 ragazze). Di queste Educande, faceva parte anche una giovane ragazza, Isabella dei Postesi (o Degli Ortensi) la quale fu scoperta dalla "Maestra" mentre scambiava cenni d’intesa con un giovane la cui casa era contigua al Convento: Gian Paolo. Invece di far cessare quella sorta di incontri clandestini Suor Virginia si dedicò ad ascoltare, non vista, le loro appassionati conversazioni fatte di frasi amorose e di slanci passionali. Ecco come Suor Virginia denuncerà il fatto:

«Havendo io trovato che stavano guardandosi l'uno e l'altro alla cortina delle galline, gli feci un gran rebuffo che portasse così poco rispetto al Monastero, massime che detta giovane era data in mia custodia … et esso andò via bassando la testa».

L'educanda Isabella, fu immediatamente tolta dal Monastero dalla madre che, con tutta probabilità, "ben consapevole" di quale "influenza sociale" avesse la casata dei De Leyva, ed in Monza particolarmente, temeva un possibile "scandalo" che avrebbe potuto "diffamare" il buon nome della figlia e della famiglia. Detto e fatto: Isabella venne fatta maritare. E subito: 15 giorni!

Ma chi era Gian Paolo Osio?

Era un rampollo di una nobile famiglia del Bergamasco, figlio di un altro Gian Paolo e di Sofia Bernareggi; passava per " un bel giovine", "ricco e ozioso. … Frequenta amicizie altolocate… era, per altro, "molto ben conosciuto" dalla Superiora del Monastero di S. Margherita, suor Francesca Imbersaga, che lo considerava "amico del Convento", avendo egli messo a disposizione della Superiora i propri servitori per svolgere commissioni e servizi vari".

La notizia del "gran rebuffo" fatto da sr. Virginia a Gio Paolo si diffuse e, inutile dirlo, il fatto suscitò "clamore" (non tanto, forse, per la cosa in sé, quanto per il "nome" dei protagonisti implicati). I pettegolezzi sull'accaduto, però, risultarono certo "sgraditi" anche a "qualcun altro" ed è così che, pochi giorni dopo questi fatti, in Monza, venne trovato morto (ucciso da un archibugiata) un certo Molteno, agente fiscale dei De Leyva.

Monza via della Signora - suor Maria Virginia de Leyva.
A destra il muro di cinta del giardino dell'ex convento di Santa Margherita.
 

Pur "in assenza di testimoni oculari", il fatto venne immediatamente collegato da tutti a quanto accaduto al Monastero di S. Margherita e, sebbene un semplice "rebuffo", fosse una motivazione un po' troppo "leggera" per un omicidio, anche per un tipo "orgoglioso" qual Gian Paolo Osio, quest'ultimo venne subito sospettato di esserne stato il mandante ed egli fu quindi costretto a rimanere "rintanato in casa". Agli arresti domiciliari, diremmo noi.

Il giovane cercò quindi di contattare Suor Virginia che, in quanto Signora di Monza, amministrava anche la giustizia, ma ottenne l’effetto contrario: Suor Virginia lo fece arrestare.

Allora lui fuggì dalla città e restò "bandito" per un anno. Poi, per intercessione di molti e su pressioni della superiora, ottenne la grazia e fece ritorno nella sua casa dal famoso giardino, contiguo alla muraglia del Monastero. Il giardino che, rifacendoci a Dante, si rivelerà come ″galeotto″. Come infatti Suor Virginia, al processo, testimonierà: "ritrovandomi a caso nella camera di sor Candida Brancolina vicino alla mia, la quale aveva una finestra che rispondeva in detto giardino vedendomi lui a quella finestra mi salutò, et dopo essendo io andata un'altra volta a quella finestra, tornò a salutarmi et mi accennò di volermi mandare una lettera".

Iniziò uno scambio di lettere, recapitate in giardino tramite un filo calato dal finestrino, seguito poi da alcuni regali. Finalmente, nell’ agosto del 1599, forse liberata dagli scrupoli in seguito alla morte del padre, Suor Virginia accettò di avere un primo incontro, sulla porta del Convento.

L’uomo arrivando salutò, «… e la sventurata rispose …»

(Vale proprio la pena di rileggere la storia della Gertrude manzoniana!)

Iniziò da qui una relazione non priva di angosce, ripensamenti, ritorsioni, drammi e pentimenti.

S’incontrarono dapprima pubblicamente, separati da una doppia grata, alla presenza compiacente di due altre suore, Suor Benedetta e Suor Ottavia.

Ma Suor Virginia, nonostante l’immenso potere conferitole dall’autorità della sua famiglia, non osava contravvenire apertamente alle regole monastiche, e tentennava continuamente tra il desiderio di rivederlo e il timore delle conseguenze di un eventuale scandalo.

Ben presto però, abbandonati gli incontri al riparo della doppia grata, cominciarono a incontrarsi usando la porticina che collegava il Convento al giardino dell’abitazione di fianco, che era rigorosamente sprangata. Dopo ogni incontro, o quasi, Suor Virginia si pentiva amaramente, e per non cadere più in tentazione gettava via la chiave. Si narra che nel pozzo ne furono ritrovate ben 50 copie. Gian Paolo Osio, evidentemente era un uomo previdente: ne aveva fatte preparare numerose altre. La loro relazione durò molti anni. Ebbero un figlio, un "putto morto", e quindi una bambina, nata nel 1604, battezzata col nome di Alma Francesca Margherita, che venne affidata al padre e successivamente alla nonna paterna. (Fu legittimamente riconosciuta dall’Osio). Suor Virginia ormai per stare accanto alla bimba si arrischiava a passare l’intera notte fuori dal Convento, per rientrare poi alle prime luci dell’alba.

Tutti questi loro gesti avventati o imprudenti, li condussero a prendere decisioni molto gravi: il loro segreto non era più tale e, per salvarsi, pensarono di sopprimere quei testimoni che avrebbero potuto essere potenzialmente pericolosi.

La prima vittima fu la conversa laica Caterina Cassini da Meda, che in occasione della visita di un Monsignore, voleva rivelare la relazione di Suor Virginia. Le fu riservata la più barbara delle esecuzioni: Osio la uccise con un colpo alla nuca, poi nascose il cadavere sotto la legnaia, quindi, durante la notte, lo trasportò alla casa accanto, dove i miseri resti furono seppelliti, una volta troncato la testa dal corpo. Si provvide inoltre ad aprire un buco nel muro per far credere ad una sua fuga. Sebbene anche i genitori della stessa Caterina avessero accettato la versione della fuga, molte voci cominciarono a mormorare al riguardo nel borgo di Monza. In particolare, due persone iniziarono a fare illazioni sia sulla relazione tra la “Signora” e Gian Paolo, sia sulla vera maternità di Alma Francesca, sia sulla reale fine di Caterina: Cesare Ferrari e Raineiro Roncino. Il primo era il fabbro che aveva fabbricato le copie delle chiavi che servivano all’Osio per andare e venire dal Convento. Il secondo era lo speziale che riforniva di erbe e medicamenti le monache di Santa Margherita. Costoro non si resero conto che, sparlando in giro degli eventi del Convento, stavano mettendo a rischio la loro stessa vita. Infatti, se fino a quel momento, per i due amanti si era trattato di proteggere solo la divulgazione della loro relazione carnale, ora si trattava invece di tenere nascosto l’omicidio di una religiosa avvenuto entro le mura consacrate del Convento. Osio si trovò dunque di nuovo di fronte alla necessità di agire per coprire se stesso, ma soprattutto la donna che amava. Ed agì, uccidendo, tramite emissari e a breve distanza di tempo, entrambi gli uomini.

Gli incontri tra i due, organizzati con la complicità di altre quattro suore amiche e succubi della Signora, (Suor Ottavia, Suor Benedetta, Suor Candida Colomba e Suor Silvia) si susseguirono frequentemente. Ma l’inquietante voce che riguardava la relazione illecita della Monaca di Monza, (ormai quasi di dominio pubblico) arrivò sino a Milano, per cui il Cardinale Borromeo in persona, prese la decisione di recarsi in visita al Convento per appurare i fatti. Se il sant’Uomo si aspettava di trovare una reverenda suora pentita delle sue sventatezze, si sbagliò. E di grosso. Quello che trovò fu invece un’agguerrita Suor Virginia che confessò le sue colpe, ma senza rinnegarle, dicendo «Sono stata forzata a pronunciare voti che non hanno valore, sono donna da marito e posso darmi a chi mi ha prescelta!».

Monza, il monastero di Santa Margherita.Era il principio della fine, rinchiusa a Milano nel Monastero di S. Ulderico al Bocchetto, Suor Virginia, il giovane Osio eluse la cattura rifugiandosi nel Convento delle monache, prima nella stanza di Suor Ottavia e poi in quella di Suor Benedetta, per rifugiarsi, infine, nei dintorni di Monza. Le due suore gli chiesero di portarle con sé. Arrivati sul ponte del fiume Lambro, Osio tentò di liberarsi di Suor Ottavia buttandola nel fiume e colpendola ripetutamente con l'archibugio sulla testa. La suora, però, riuscì a salvarsi; fu soccorsa e trasportata nel Monastero di Sant’Orsola in Monza dove però morirà qualche giorno dopo per le ferite, riuscendo comunque a confessare i delitti commessi.

La sera del giorno dopo, Osio tentò di far fuori anche Suor Benedetta, buttandola in un pozzo presso Vimercate. La poveretta sopravvive, rompendosi soltanto due costole e il femore; anche lei fu soccorsa e trasportata al Monastero iniziò a confessare.

Nel frattempo fu trovata anche la testa di Caterina, la prima vittima, ed i suoi resti nella casa dell'Osio; in seguito quella casa, su istanza del Senato, verrà distrutta mentre il Conte si rifugiava a Venezia. Vennero arrestate anche le altre complici: Suor Candida Colombo e Suor Silvia Casati. Di tutta questa storia di sesso e sangue, arrivò, ovviamente, voce anche a Milano, soprattutto al governatore, per cui Osio fu preso e messo in carcere a Pavia, d dove riuscì, non si sa come, a fuggire per far ritorno segretamente a Monza.

La storia a due di Marianna e Gian Paolo, è ormai alla fine.

Giampaolo Osio, definitivamente perduto, con una taglia sul capo, finirà assassinato da un suo falso amico il conte Ludovico Taverna. Questi gli diede ricovero nella stessa Milano, nell’omonimo Palazzo di Corso Monforte, ma, dopo pochi giorni, venne ucciso e successivamente decapitato. Il tutto per compiacere il governatore spagnolo della Lombardia, conte de Fuentes, cui premeva sbarazzarsi dell’Osio alla svelta e porre fine ad uno scandalo che, nella religiosissima corte spagnola era vissuto con grande imbarazzo, essendo coinvolta una famiglia tanto importante come quella dei de Leyva.

Suor Virginia, processata e condannata, verrà invece incarcerata in regime di "maxima clausura": segregata, come già detto, in una cella angusta, con la porta e la finestra murate, rischiò di impazzire ed arrivò a un passo dalla follia e dal suicidio. Ne uscirà, distrutta fisicamente ma, si dice, ravveduta e pentita, solo dopo 14 lunghissimi anni.

Morirà il 7 gennaio 1650, a 75 anni, esattamente nel giorno del suo 75° compleanno.

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[1] Il nome del Teatro alla Scala di Milano, citato spesso semplicemente come La Scala, si rifà a quello della chiesa di Santa Maria alla Scala, eretta nel 1381 e così chiamata in onore della committente, Regina della Scala, moglie di Bernabò Visconti; detta chiesa venne demolita per far posto al teatro. Il teatro fu fondato per volere dell'imperatrice Maria Teresa d'Austria dopo l'incendio che il 26 febbraio del 1776 distrusse il Teatro Regio Ducale, tempio della Lirica. Le spese per l'edificazione furono sostenute dai proprietari dei palchi del Teatro Regio Ducale in cambio del rinnovo della proprietà dei palchi. L’edificio, progettato dal celebre architetto neoclassico folignate Giuseppe Piermarini, venne inaugurato il 3 agosto 1778 con l'opera Europa riconosciuta di Antonio Salieri. Nell'800 i nobili entravano nel teatro verso le 18 (anche se lo spettacolo iniziava a mezzanotte) e, dato che dietro ai palchi si trovavano delle piccole cucine, la servitù preparava lì la cena. Le carrozze sostavano sotto il porticato per non far sporcare o bagnare le scarpe delle dame. La platea veniva usata come sala da ballo e il pavimento di questa si sollevava per avere più spazio. Prima che iniziasse lo spettacolo i nobili salivano nei palchetti e la servitù con i militari prendevano le sedie e le panche dal guardaroba e le sistemavano nello spazio centrale della platea. Se lo spettacolo prevedeva una battaglia navale, la platea veniva interamente riempita d'acqua.

[2] Costruito negli anni dal 1557 al 1563, proprio dal banchiere e commerciante genovese, conte Tommaso Marino, nonno di Marianna, per ospitarvi la moglie, la bella Ara Cornaro, veneziana ed imparentata con Caterina Cornaro, regina di Cipro.Progettato dall'architetto perugino Galeazzo Alessi, fu pignorato dall'amministrazione pubblica nel 1577 per gli ingenti debiti della famiglia, passando poi alla famiglia del banchiere Emilio Omodei, finanziatore del governo spagnolo. Fu poi definitivamente riacquistato dallo stato nel 1781.

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