Beatrice Cenci:
nobile parricida o eroina popolare?

Il secondo articolo della serie "Donne d'Italia". Di Claudio Bosio.

Guido Reni. Beatrice Cenci in prigione.

 

"Nelle 6 ore che durò er supprizzio
per la fiera Beatrice, ce fu buriana forta...
Tutto er popolo voleva pe' forza sarvà la bella Cenci,
e si nun fossino stati li sordati je sarebbe ariuscito
"

Giggi Zanazzo (1860-1911), Poesie romanesche

 

Correva l’anno 1599.

In Francia, regnava Enrico IV di Borbone, detto il Grande, già re di Navarra, protestante ("ugonotto") ma che, prima della sua incoronazione, aveva abiurato la fede calvinista per abbracciare quella cattolica. («Parigi vale bene una messa! »)

In Spagna, era sovrano Filippo III, che, inetto e indolente, aveva pensato bene di affidare la conduzione del Paese al suo favorito, il duca di Lerma. Con il risultato che, durante il valimiento di questo "re per procura", la Spagna ci rimise due flotte contro l’Inghilterra e, quel che è peggio, avendo cacciato via i moriscos, cioè gli arabi convertiti al cristianesimo (l’unica gente, circa 500.000 tra artigiani e mercanti, che aveva conservato la sana abitudine di lavorare!) si venne a trovare in pietose condizioni economiche.

Nel contempo, nell’Inghilterra elisabettiana veniva approvata la prima legge sui poveri (Poor Law) con l’istituzione di "case di lavoro" per gli indigenti, la repressione del vagabondaggio e la proibizione della mendicità. A Londra, intanto, Shakespeare faceva rappresentare il suo ultimo dramma, Giulio Cesare, nel famoso Globe Theatre, proprio di recente ultimato sulla riva destra del Tamigi.

Sempre all’epoca, alcuni navigatori olandesi, spintisi verso ovest dall’estremità dell’Africa, scoprivano casualmente il V° continente, l’Australia.

E in Italia? A prima vista lo spettacolo d’assieme era piuttosto incoraggiante: i vari Stati e Staterelli (una pletora!) in cui "lo Stivale" era frazionato, avevano smesso di dilaniarsi fra loro. Non che avessero compreso l’inanità del loro secolare, assurdo fratricidio. Ma perché il Padrone non lo glielo consentiva. Detto "Padrone" era la Spagna. Si era appropriata di quattro dei nostri maggiori Stati: Milano, Sicilia, Sardegna e Napoli, mentre le vecchie dinastie rinascimentali (la Mantova dei Gonzaga, la Ferrara degli Estensi, la Parma dei Farnesi, la Toscana dei Medici) languivano ormai in un melanconico tramonto. Soltanto due Repubbliche avevano conservato l’indipendenza e le proprie istituzioni: Venezia e Genova, forti di due privilegi che le rendevano uniche e indispensabili nella scacchiera politica internazionale e cioè il denaro (le loro Banche finanziavano Governi e Re, compreso quello di Spagna!) e la flotta (fondamentale nella lotta in mare contro i Turchi: Lepanto, lo si sa bene, era stata soprattutto una vittoria veneziana).

Restava lo Stato Pontificio che, chiarite le questioni dottrinali contrapposte alla riforma protestante (Concilio di Trento, 1563), poteva dedicarsi ad estendere sempre più i propri domini, fagocitando sistematicamente le turbolente piccole Signorie che vi si erano installate.

Sul "Sacro Soglio" sedeva Clemente VIII, della principesca famiglia toscana degli Aldobrandini, 231º Papa della Chiesa cattolica. Era considerato un Pontefice "rispettoso della carità e della comprensione" prescritte dal Vangelo([1]). Quando si pensa che fu lui a mandare sul rogo Giordano Bruno e a permettere di "giustiziare" (come vedremo in seguito) i componenti della nobile famiglia Cenci, autorizzando che fossero processati per tortura, si può avere un’idea, larvale ma fondata, di cosa dovevano essere, quanto a comprensione e carità, i vari Papi della Controriforma. La giustizia Papalina dell’epoca comportava pene efferate e disumane: ad esempio, prima di essere bruciati vivi (!) sul rogo (la condanna recitava vivi in igne mittantur, siano dati vivi alle fiamme), i rei colpevoli erano imbavagliati con la cosiddetta mordacchia, una specie di dolorosissima museruola che, stretta sulla lingua, impediva loro di parlare (e di urlare!). Ad onor del vero, c’è da notare, che, della ventina di eretici bruciati durante il pontificato di Clemente VIII, Giordano Bruno fu l'unico arso vivo, mentre tutti gli altri furono preventivamente uccisi per impiccagione o decapitazione.

I processi, per altro, ammettevano l’impiego dei più abominevoli mezzi di tortura, dichiaratamente «per conoscere la verità in tempo breve e per la salvaguardia delle anime degli imputati». Tuttavia, il ricorso alla tortura, nel caso fossero processualmente implicate personalità di alto lignaggio o titolari di … cospicui patrimoni, doveva ottenere il preventivo "beneplacito" Papale, cioè un documento redatto Motu proprio dal Papa stesso. Con quest’atto il Pontefice poneva in essere una finzione giuridica, mostrando di muoversi di propria iniziativa (Placet motu proprio…) e per precisa conoscenza (ex certa scientia) di quanto desiderava stabilire.

Questo avvenne anche in occasione del procedimento penale intentato contro la nobile Beatrice Cenci, accusata, assieme ad alcuni altri componenti della famiglia, di concorso in omicidio nei confronti del padre, Francesco.

Il processo, come si dice, fece veramente epoca.

Da allora, la storia e la vita di Beatrice (1577-1599), sono il simbolo di una giovinezza rubata e di una giustizia ingiusta, che costrinse una ragazza a difendersi, ma al contempo a condannarsi, sopraffatta dai supplizi delle torture.

Di antica origine medievale, i membri della famiglia Cenci avevano spesso ricoperto importanti incarichi presso la corte pontificia. Monsignor Cristoforo, nonno di Beatrice, aveva accumulato una vera ricchezza in denaro, terre e palazzi.

Il figlio Francesco (1549-1598), padre di Beatrice, nel 1563, a quattordici anni, sposò la coetanea Ersilia Santacroce, che, in 21 anni di matrimonio, lo rese padre di 12 figli (!) di cui cinque già morti alla nascita. Ersilia morì (manco a dirlo) di parto. Era il 1584. Beatrice aveva soltanto 7 anni. Quattro figli erano vivi, al tempo della morte della madre: tre femmine, Antonia, Lavinia e Beatrice, e due maschi, Giacomo e Bernardo, tutti i quali, si trovarono, presto, a convivere nel palazzo romano paterno, nel quartiere Regola, con la seconda moglie di Francesco, Lucrezia Petroni vedova Velli, sposata nel 1593 (dopo 9 anni di vedovanza, quando Beatrice era sedicenne).

Francesco Cenci non era mai stato, come si dice, uno stinco di santo. Andò a finire in prigione tre volte, per "amori infami" e "colpe nefandissime". Se la cavò sempre, corrompendo le persone che via via erano in auge presso i dodici papi sotto i quali visse. Uomo torbido, vizioso e dispotico, aveva un carattere violento, del quale furono vittime prima i compagni, poi i familiari e, in special modo, le mogli e le figlie. Coinvolto, come accennato, in situazioni ambigue, venne formalmente accusato di omicidio e di abusi sessuali: nel 1594, gli giunse l’ingiunzione di sequestro per circa un quinto del patrimonio Cenci, pari alla somma iperbolica di 100.000 scudi, a seguito di una pesantissima accusa di sodomia nei confronti dei figli di un rigattiere. È evidente che, costretto al penoso esborso di tali ingenti somme prelevate dal suo capitale personale, Francesco doveva … cambiar vita. Fu così che, nel 1597, oberato da altri debiti, malato di rogna e di gotta, anche per fuggire alle richieste pressanti dei creditori, scappò via da Roma. Si ritirò quindi a Petrella Salto, in un piccolo castello del Cicolano, chiamato la Rocca, (oggi in provincia di Rieti), di proprietà della famiglia Colonna. In quest’eremo forzato Francesco Cenci segregò la seconda moglie Lucrezia, e i figli Beatrice, Bernardo e Paolo. Nella sempre più evidente impossibilità di far fronte in modo onorevole alla disastrosa situazione socio-economica, instaurò un drastico rigore alla gestione delle sue finanze, imponendo restrizioni e serratissime economie, riducendo appannaggi e liquidando proprietà. Fatalmente, ormai preda da un esacerbato risentimento verso tutto e tutti, Francesco riversò nell’ambito familiare il suo disagio, con atteggiamenti aggressivi fisici e verbali, spesso oltre i limiti della brutalità. Beatrice, segregata in due angusti locali della Rocca assieme alla matrigna, fu costretta a subire no solo le percosse, ma anche le attenzioni sessuali del padre.

Così la stessa Beatrice, risponderà all’interrogatorio del giudice: " [...] quando io mi rifiutavo, lui mi riempiva di colpi. mi diceva che quando un padre conosce... carnalmente la propria figlia, i bambini che nascono sono dei santi, e che tutti i santi più grandi sono nati in questo modo, cioè che il loro nonno è stato loro padre". Francesco abusava della figlia anche in presenza della moglie Lucrezia: " [...] A volte mi conduceva nel letto di mia madre, perché lei vedesse alla luce della lampada quello che mi faceva".

Esasperata dalle violenze e dagli abusi paterni, esacerbata dalle durissime condizioni di vita, insopportabili soprattutto se confrontate con il lusso, l’agiatezza e il prestigio cui era invece abituata la gente del suo rango sociale, Beatrice giunse alla decisione di organizzare l'omicidio di Francesco con la complicità della matrigna Lucrezia, dei fratelli Giacomo e Bernardo, e di due vassalli, il castellano Olimpio Calvetti ed il maniscalco Marzio da Fioran detto il Catalano. Si sarebbe dovuto simulare un sequestro con uccisione dell'ostaggio a causa del ritardato pagamento del riscatto, ma i banditi ingaggiati per lo scopo fallirono. Tuttavia, la sera del 9 settembre 1598 Beatrice e Lucrezia riuscirono a far mangiare un po' di oppio a Francesco, che cadde in un sonno profondo. Una volta sicuri che il conte stesse dormendo, vennero fatti entrare i due vassalli, che, usando il martello, conficcarono un chiodo in testa e uno in gola al conte. Una volta tolti i chiodi, il cadavere venne avvolto in un lenzuolo e gettato da un balconcino prospiciente una scarpata per simulare un incidente. Il corpo venne poi fatto seppellire in tutta fretta nella chiesa del borgo. Inizialmente non furono svolte indagini ma voci e sospetti, alimentati dalla fama sinistra del conte e dagli odi che aveva suscitato nei suoi congiunti, indussero le autorità ad indagare sul reale svolgimento dei fatti. Dopo le prime due inchieste, la prima voluta dal feudatario di Petrella il duca Marzio Colonna, la seconda ordinata dal viceré del Regno di Napoli Don Enrico di Gusman, conte di Olivares.  Lo stesso Pontefice Clemente VIII volle intervenire nella vicenda: le casse vaticane, all’epoca, erano piuttosto vuote, ovvio, pertanto, che i beni dei Cenci, pochi o tanti che fossero … rimasti, facessero particolarmente gola. L’intervento personale del Papa nella vicenda fece sì che gli assassini, invece di cavarsela con una multa (come accadeva ai nobili in quei tempi) si trovarono dentro un’inchiesta vera e propria. La salma fu riesumata e le ferite furono attentamente esaminate da un medico e due chirurghi che esclusero la caduta come possibile causa delle lesioni. Fu anche interrogata una lavandaia: Beatrice le aveva chiesto di lavare lenzuola intrise di sangue dicendole che le macchie erano dovute alle sue mestruazioni ma la giustificazione, dichiarò la donna, non le sembrò verosimile. Insospettì gli inquirenti, inoltre, l'assenza di sangue nel luogo ove il cadavere era stato rinvenuto. I congiurati vennero scoperti ed imprigionati. Calvetti, minacciato di tormenti, rivelò il complotto. Riuscito a fuggire fu poi fatto uccidere da un conoscente dei Cenci, monsignor Mario Guerra, (che, si dice, fosse innamorato di Beatrice) per impedirne ulteriori testimonianze. Anche Marzio da Fioran, sottoposto a tortura, confessò ma, messo a confronto con Beatrice, ritrattò e morì poco dopo per le ferite subite. Giacomo e Bernardo confessarono anch'essi. Poiché la Chiesa non poteva condannare a morte qualcuno che non fosse reo confesso (altrimenti la sua anima sarebbe stata esclusa dal perdono eterno) i  Cenci, per ottenere la loro confessione, vennero sottoposti alla tortura. Come già riportato, i nobili non erano di regola sottoposti a tortura. Clemente VIII volle privare i Cenci di tale privilegio e dispose, con il motu proprio "Quemadmodum paterna clementia" del 5 agosto 1599, che anch'essi fossero torturati al pari degli altri accusati. La condanna dei Cenci gli serviva come monito alle altre famiglie potenti e gli permetteva di mettere le mani su un più che discreto patrimonio. Beatrice, fu dapprima sottoposta alla tortura della corda([2]). Nonostante le braccia slogate, resistette.

Clemente VIII era convinto che il giudice al quale era stato affidato il caso fosse stato troppo … clemente, per cui decise di sostituirlo. Quest’ultimo sottopose quindi Beatrice ad torturam capillorum, cioè a essere appesa per i capelli: la giovane donna inizialmente negò ostinatamente ogni coinvolgimento indicando Olimpio come unico colpevole, ma, mentre era appesa, il giudice introdusse nella stanza Giacomo e Lucrezia che la convinsero finalmente a confessare.

C’è da dire che, durante il processo, venne portata come prova l’analisi del cadavere del conte Francesco fatta dai medici: le ferite erano incompatibili con una caduta accidentale e tutto riconduceva a un omicidio.

Il processo ebbe una grande eco a Roma, e Beatrice divenne un’icona popolare nell’immaginario collettivo. In carcere pregava in continuazione e per i romani  non era un’assassina, ma si era solo difesa dalla violenza continua e gratuita del padre-padrone. Molti principi e cardinali, impietositi dalla storia, decisero di cercare di difendere i giovani Cenci. Ottennero 25 giorni di proroga per presentare una difesa, che fu impostata sulla legittima difesa e sulla cattiva reputazione di Francesco Cenci. Sembrava che le cose potessero andare per il meglio, ma in quello stesso periodo si verificarono, a Roma, un matricidio ed un fratricidio, per cui il Papa decise di non fare eccezioni. Tuttavia, a nulla servì l'intervento a difesa di Beatrice del giureconsulto Prospero Farinacci che giunse a rivelare che la ragazza, oltre a fame e sevizie, aveva dovuto subire dal padre anche violenza carnale. Immediatamente si mobilitarono i migliori avvocati di Roma che convennero tutti insieme davanti al Pontefice allo scadere del 25° giorno. Il Papa tagliò corto, dicendo: "Dunque a Roma si trovano non solo uomini che uccidono il loro padre, ma anche avvocati per difenderli! ".

Gli imputati vennero condannati a morte: Lucrezia e Beatrice per "decapitazione mediante spada", Giacomo per "squartamento". Bernardo, dodicenne, pur non avendo partecipato attivamente all’omicidio, era stato anch’esso condannato per non aver denunciato il complotto. La pena inflittagli, ridotta grazie ad un intervento di … alta clemenza papale, prevedeva che fosse castrato e condannato ai "remi perpetui" (cioè remare per tutta la vita nelle galere pontificie([3])). Doveva inoltre assistere all’esecuzione dei congiunti, legato ad una sedia. I beni di famiglia vennero, come già accennato, confiscati. Dopo l'esecuzione, le proprietà della famiglia Cenci saranno confiscate dalla Camera Apostolica e vendute all'asta per 91.000 scudi, cifra assolutamente inferiore al loro valore reale. La maggior parte dei beni, tra i quali la grande tenuta di Torrenova, settemila ettari ed un castello nell'Agro Romano, fu acquistata da Gian Francesco Aldobrandini, nipote del Papa. La confisca, inoltre, rese vane le disposizioni testamentarie di Beatrice che aveva deciso consistenti lasciti in favore di varie istituzioni religiose.

Comunque, venerdì 10 settembre 1599 Clemente VIII ordinò  l'esecuzione. Il giorno dopo, alle sei del mattino, Beatrice fu informata della sentenza. Giusto il tempo di fare testamento e di lasciare tutti i suoi averi in beneficenza. Il corteo per il patibolo partì dal carcere di Tor di Nona (dove si trovavano Giacomo e Bernardo, il "graziato" dal Papa) e procedette verso il carcere di Corte Savella, dove si trovavano Lucrezia e Beatrice. Il patibolo era stato eretto nella piazza di Castel Sant'Angelo. All’esecuzione presenziò una moltitudine di gente: si dice che ci fosse anche il pittore Caravaggio insieme con il pittore Orazio Gentileschi e la figlioletta, anch'essa futura pittrice, Artemisia. La fine di Giacomo, ai nostri occhi, è qualcosa di incredibile per lo strazio e per la crudeltà. Durante il tragitto verso il patibolo, fu seviziato con tenaglie roventi e "mazzolato", tortura che consisteva nello strappargli con tenaglie roventi brani di carne dal torace e dalla schiena. Alla fine venne colpito alla testa con un maglio ed infine squartato.

La decapitazione delle due donne fu eseguita con la spada. La prima ad essere uccisa fu Lucrezia, seguì poi Beatrice ed infine Giacomo:

lucrezia salì al patibolo con le mani legate dietro alla schiena e impiegò alcuni minuti prima di mettersi seduta come le aveva indicato il boia. Le venne tolto il mantello e rimase a petto nudo. Pochi istanti e scese la mannaia. Beatrice, quando venne il suo turno, prese posizione con fierezza, si sistemò i capelli, in modo da non farsi toccare dal boia. Quest’ultimo sembrava "indeciso nel menare il colpo fatale", mentre la torma degli astanti lo imprecava. Dicono che gli fosse stato ordinato di attendere lo sparo di un colpo di cannone da Castel S.Angelo. Questo segnale doveva servire al Papa, in preghiera a Monte Cavallo e in pensiero per la salvezza dell’anima di Beatrice, per conoscere il momento esatto per impartire alla giovane l’assoluzione in articulo mortis.

Un ultima notazione. La giustizia papale, che comminava pene crudeli e barbare, funzionava in tempi comparativamente assai rapidi. Dalla data dell’omicidio di Francesco Cenci (9 settembre 1598) a quella dell’esecuzione dei colpevoli (11 febbraio 1599) era trascorso un anno appena.

C’è di che riflettere. Specie oggi giorno quando, in Italia, si discute di "processo breve", definito tale perché dovrebbe durare otto anni!


([1]) Per inciso, Clemente VIII è passato alla … storia anche come il Papa del caffè. Ai suoi consiglieri che volevano che dichiarasse il caffè una bevanda del diavolo, a causa della sua popolarità tra i musulmani del Medio Oriente, egli replicò "Questa bevanda del diavolo è così buona... che dovremmo cercare di ingannarlo e battezzarlo." Non è chiaro se la storiella sia vera o meno. È documentato, peraltro, che il suo medico personale Andrea Cesalpino, il quale era anche botanico, fu il primo occidentale a descrivere nelle sue opere la pianta del caffè.

([2]) Consisteva nel legare con una lunga corda i polsi del reo dietro la schiena e poi nell'issare il corpo per mezzo di una carrucola. Il peso del corpo veniva così a gravare tutto sulle giunture delle spalle, e per aggravarne gli effetti la corda veniva ripetutamente allentata di colpo per un certo tratto e bloccata; la gravità sul peso del corpo provocava la slogatura delle braccia all'altezza dell'articolazione delle spalle. Per aumentarne gli effetti, ai piedi della vittima potevano essere legati dei pesi; generalmente la conseguenza del trattamento comportava storpiatura a vita.

([3]) Il celebre avvocato Prospero Farinacci, che con la sua pertinacia salvò la vita al giovane Bernardo Cenci, pubblicò in lingua latina le difese che pronunciò davanti a Clemente VIII, testimoniandoci così il modo di pensare dell’anno 1599. "Omnes fuerunt ultimo supplicio effecti excepto Bernardo qui ad triremes cum bonorum confiscatione condemnatus fuit ac etiam ad interessendum aliorum morti prout non interfuit" (Tutti furono condannati a morte eccetto Bernardo che fu condannato alle galere con la confisca dei beni e anche affinché ci fosse differenza con la morte degli altri in quanto non partecipò).

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