14 agosto 2008. - Il ‘Made in Italy' alimentare fa gola, non solo, però, agli amanti del buon cibo, ma anche a quanti vedono in esso un business redditizio e non si fanno scrupoli a produrre copie che di italiano hanno ben poco. Questo è quanto emerge da una recente denuncia della Coldiretti, secondo cui un piatto italiano su tre, venduto oltre i confini italiani, è falso. Questo, tradotto in termini economici, significa che il fatturato dell'imitazione oltrepassa di tre volte quello dell'export del prodotto originale, superando i 50 miliardi di euro. I Paesi dove il fenomeno è più accentuato sono Australia, Nuova Zelanda e Stati Uniti dove, prendendo ad esempio un prodotto come il formaggio, di cui l'Italia offre una vasta scelta e una qualità ottima, secondo Coldiretti, solamente il 2% dei consumi è rivolto all'originale, mentre il resto si rivolge a formaggi che di italiano hanno solo il nome e magari qualche richiamo paesaggistico sulla confezione. ''Preoccupa anche la Cina - aggiunge Coldiretti - dove il falso ‘Made in Italy e' arrivato prima di quello originale".

Prima di conoscere le reazioni del mondo della ristorazione italiana a questa notizia sicuramente preoccupante occorre una precisazione, ovvero capire cosa si intenda per falsificazione. Paolo Falcioni, responsabile relazioni esterne di Coldiretti, ha spiegato che "si deve fare una distinzione. Da un lato vi è la distribuzione commerciale per cui un prodotto falso è quello che nella confezione utilizza simboli, primo fra tutti la bandiera, i colori, i paesaggi, i nomi e altri elementi che rimandano all'Italia, ma poi di italiano non ha nulla. Dall'altro lato c'è il versante della ristorazione, dove vengono venduti dei piatti improponibili, che nel Bel Paese nemmeno esistono". Falcioni, attualmente negli Stati Uniti, ha colto l'occasione per fare alcuni esempi che ha potuto toccare con mano, come l'aver visto nel menù di un ristorante italiano degli "spaghetti alla bolognese, piatto inesistente nella nostra cucina" o "una pizza peperoni, che in realtà non aveva questo ingrediente".

Anche Bartolo Ciccardini, presidente di Ciao Italia, associazione di ristoratori italiani all'estero, ha convenuto con questa differenziazione. I motivi che spingono a questo comportamento sono quelli classici che stimolano la falsificazione anche in altri settori e dipendono, secondo Ciccardini, "dalla struttura del mercato perché, quando la qualità è affidata ad un marchio, questo avrà un plusvalore". Da ciò consegue, in modo purtroppo naturale, che "la rinomanza di un prodotto, a cui corrisponde un determinato prezzo, stimola a fare dei surrogati che abbiano costi minori". Se questo è un fenomeno scontato, basti pensare, cambiando settore, alle numerose imitazioni che vengono fatte delle grandi griffe, secondo Ciccardini è altrettanto naturale e doveroso "cerca di combatterlo". A questo proposito, però, bisogna sottolineare l'impotenza nell'attuare delle contromisure. "Non ci sono strumenti - ha infatti sottolineato il presidente di Ciao Italia -. Negli anni '30 l'Italia godeva di un marchio riconosciuto internazionalmente, o perlomeno in un certo numero di stati, che proteggeva i suoi prodotti. Con la guerra, purtroppo, lo si è perso, ma ora andrebbe ripreso". Falcioni ha aggiunto che in realtà "per alcuni prodotti riconosciuti internazionalmente, come i vini, la tutela esiste, ma per altri purtroppo no. Il fallimento dell'ultimo vertice Wto, dove l'Italia sta chiedendo l'estensione di questa tutela, ha costituito un brutto colpo".

In molti casi rimane quindi un'unica soluzione, ovvero "guardare con attenzione le etichette", come spiegato da Falcioni. Non sempre, però, questo è facile, specie in Paesi dove dei veri prodotti italiani si sa poco. Questo comporta "un danno doppio, perché non solo i falsi rubano mercato ai prodotti originali, ma abituano il consumatore ad un gusto diverso". Caso emblematico è la Cina, dove, "se giunge prima il Parmesan australiano del vero Parmigiano, l'utente si abitua a questo tipo di prodotto che non è quello italiano". Per porvi rimedio serve pertanto un'azione congiunta da parte di tutte le parti interessate dal problema, "dalle istituzioni alle forze economiche e sociali che devono sensibilizzare i consumatori durante manifestazioni promozionali, fiere, etc.".

Il secondo versante, come detto, è quello della ristorazione. In questo caso, ha spiegato Ciccardini, "il problema non è tanto quello dell'originalità degli ingredienti, quanto piuttosto quello di saperli manipolare nel modo corretto". Anche in questo caso rimane comunque la necessità di "tutelare il modo di cucinare". I problemi sembrano essere gli stessi: la mancanza di tutela giuridica e la difficoltà di sensibilizzare il consumatore. Antonella Rebuzzi, proprietaria di alcuni ristoranti italiani a Mosca e presidente della Federazione Italiana dei Cuochi in Russia, ha infatti spiegato che "anche in una città dove la cucina italiana è ormai abbastanza diffusa, basta guardare il numero di ristoranti italiani, non è facile far capire ai clienti cosa è veramente italiano. Io ci tengo a che i miei chef cucinino prodotti autentici e infatti una o due volte all'anno li mando in Italia per aggiornare la loro preparazione. Un altro modo per tutelare la qualità è quello di far venire dei cuochi italiani qui per dei sopralluoghi. Molti ristoratori, però, utilizzano ingredienti pesanti, come la panna, che nella nostra tradizione culinaria sono poco diffusi, ma che incontrano il favore dei russi".
Parte della falsificazione sembra quindi avere come scopo quello di incontrare i gusti del paese ospite. Gennaro Rioli, proprietario di un ristorante italiano a Boston, ha ammesso questo fatto, aggiungendo che "negli Stati Uniti questo fenomeno è molto diffuso, per la differenza di sensibilità culinaria esistente fra questo paese e l'Italia. In particolare sono i ristoranti a prezzi medio bassi che operano questa strategia. Sicuramente - ha concluso - è dannosa, perché dà un'immagine irreale di quella che è la cucina italiana. Si preferisce un vantaggio immediato piuttosto che dover sopportare i costi di un processo di diffusione della cucina italiana inevitabilmente più lungo e laborioso, ma che, alla fine sarebbe più premiante". Unica nota positiva è il fatto che, secondo Ciccardini, "tutelare la gastronomia italiana è un processo più facile che la tutela dei prodotti perché non esistono ristoranti clandestini. Basterebbe scegliere i ristoranti meritevoli e certificarli. Si tratta, più o meno, di 60 mila locali nel mondo che generano un volume di affari dovuto all'acquisto di prodotti del Bel Paese di circa 2 miliardi di vecchie lire".

 

(News ITALIA PRESS)