Le leggende del Panettone

Di Claudio Bosio.

 

18 dicembre 2009. - Indubbiamente il dolce più rappresentativo del Natale "meneghino", ma, ormai da tempo, diventato simbolo del Natale "italiano", è il "Panettone". Da sempre è in atto una dotta diatriba fra gli esperti di … dolci lievitati, qual’é, appunto, el Panetùn, circa la sua vera ricetta, cioè quali siano i suoi ingredienti fondamentali e quale sia il modo più indicato di prepararlo.

Ci sono i  tradizionalisti, fautori della ricetta "pura", che prevede l’impasto con sola uvetta e cedro candito, e quelli che privilegiano le novità, per esempio, il panettone a base di amarena, frutti di bosco, limoncelli, mandarini  oppure quello farcito, con creme di ogni tipo, alto o basso, ricoperto di cioccolato o aromatizzato con liquori e altri, veramente molti altri tipi, ancora.. «Il panettone è una grassa focaccia di fior di farina, impastata con tuorli d’uova, zucchero, burro e zibibbo. L’impasto della massa farinacea richiede un forte e faticoso lavoro di braccia che assicuri la perfetta mescolanza delle dosi, dipendendo da questa la buona riuscita del panettone».

È questa l’antica ricetta del panettone (databile attorno ai primi anni del ‘900) seguita, quando le farciture stravaganti non erano ancora di moda, dalle pregiate pasticcerie milanesi: Biffi, Cova, Taveggia, Marchesi, Tre Marie e ovviamente, la ditta Motta, la cui grande «M» divenne presto sinonimo della produzione del dolce di Natale per antonomasia.

Qualunque sia la sua controversa origine, sappiamo che il panettone cominciò a diffondersi in Lombardia, a partire dal XV secolo. In effetti, la citazione più lontana del panettone, è quella riportata nella celebre Opera, trattato di cucina scritto nel 1570 da Bartolomeo Scappi (1500-1577), cuoco segreto (cioè personale) di 6 Papi, considerato il "Michelangelo della cucina rinascimentale italiana" (che di lì a poco diverrà "francese").

Il panettone, con la sua tipica forma a cupola, troneggia pressoché invariato sulle tavole imbandite dei milanesi, almeno dal XV secolo. Lo storico Ludovico Antonio Muratori, vissuto tra il 1672 e il 1750, riconduce la nascita del dolce a tempi ancor più remoti, collegandola a un'usanza di derivazione pagana attestata in Lombardia già nei primi anni dopo il Mille.

Di fronte al pasto natalizio il capofamiglia versava un po' di vino dal proprio bicchiere sul ceppo acceso, insieme a un piccolo fascio di rami e bacche di ginepro, quindi spezzava il 'pane grande', dopo averne inciso la superficie con una croce, distribuendone un po' a tutti i componenti della famiglia. Una piccola parte di questo pane veniva poi conservata fino al Natale successivo. Il pane, preparato per l'occasione con cura particolare, diventava dunque simbolo dei legami familiari.

Con l'andar del tempo si diffuse la consuetudine di preparare il pane natalizio solo con farina bianca, di frumento, ingrediente che ne sottolineava l'eccezionalità: il pane di Natale venne dunque chiamato "pan del ton" ("pane di lusso"), da cui "panettone". La consuetudine del panettone natalizio, andava diffondendosi sempre più: nel ‘700, ad esempio, il conte Pietro Verri (1728-1797) illuminista, filosofo, economista, storico e scrittore, (il cui fratello minore, Giovanni, amante di Giulia Beccaria, fu il padre naturale di Alessandro Manzoni) ne tesse le lodi più sperticate.

Il «Vocabolario Milanese-Italiano» di Cherubini. lo descrive, nel 1839, come "Panatton o Panatton de Natal": «Specie di pane di frumento addobbato con burro, uova, zucchero e uva passerina (ughett) o sultana, che intersecato a mandorla quando è pasta, cotto che sia risulta a molti cornetti. Grande e di una o più libbre sogliamo farlo soltanto per Natale; di pari o simil pasta ma in panellini si fa tutto l'anno dagli offellai e lo chiamiamo Panattonin..» Nel 1847, Paolo Biffi ne prepara uno di dimensioni da record per il papa Pio IX, cui venne recapitato per mezzo di una carrozza. Altra definizione ne dà, per altro, il «Dizionario della lingua italiana» di Pietro Fanfani, volume vetusto di anni e di gloria, edito a Firenze nel 1855, cioè: «Sorta di pane fatto con farina, burro, zafferano e lievitato con birra».

Senza per questo essere tacciati di malignità, può darsi benissimo che, vista la vaga ed imperfetta definizione che ne dà, l’Autore, Pietro Fanfani (1815-1879), pistoiese vissuto a Firenze, per quanto dotto studioso dell’italiano (fu strenuo difensore della purezza della lingua e, quindi, acerrimo antimanzoniano), del panettone non ne avesse mangiato neppure una fetta! A sua parziale scusante è da notare che, all’epoca, 1855, l’Italia, come nazione, non era ancora nata (Unità d’Italia = 1861) e che una tradizione gastronomica "nazionale" era totalmente di là da venire. (Il celebre manuale di Pellegrino Artusi, " La Scienza in cucina e l'Arte di mangiar bene", un compendio raffazzonato di ciò che, di meglio, si mangiava nel nostro Paese, avrà la sua prima pubblicazione nel 1881).

Nel ‘900 il panettone comincerà a essere esportato, e da lì inizierà un successo mondiale, che continua ancor oggi. Ed è sempre nel ‘900, infine, che il panettone assume la forma "alta" che noi tutti oggi conosciamo, grazie all'inventiva di Angelo Motta, che fasciò per primo lo stampo con carta sottile, imponendo all'impasto una crescita in verticale.

E si arriva ai giorni nostri: per tutelare la preparazione artigianale del panettone tradizionale, si sta lavorando alla stesura di un disciplinare che permetta di ottenere la concessione del marchio europeo DOP (Denominazione d'Origine Protetta) per il panettone, un riconoscimento ulteriore per una specialità che da sempre lega il suo nome alle festività natalizie.

Ma qual è l'origine del dolce più famoso del Natale, ormai diventato simbolo italiano del Natale? Pronti a metterlo nel carrello per aprirlo a Natale (ricordandosi di lasciarne un pezzetto per San Biagio), forse non tutti i golosi sanno che di eccezionale il panettone non ha solo il sapore ma anche la sua storia. Le leggende, a tal proposito, abbondano.

Tra queste, la più accreditata narra, come alla corte di Lodovico il Moro, nel Castello Sforzesco di Milano, la notte del 24 dicembre si tenesse un banchetto che doveva terminare con una torta a sette piani. I potenti signori meneghini, soddisfatti per questo pranzo, nel quale ogni portata aveva superato la precedente per bontà, attendevano con ansia il momento dei dolci. Senonchè il cuoco, fin li perfetto, si accorse, improvvisamente, che il forno gli aveva giocato un brutto scherzo! Tutto quanto da lui cucinato si era bruciato! Mentre, disperato, si stava accingendo ad andare nella sala a scusarsi con i commensali, il suo aiutante, chiamato Toni, gli propose di presentare un dolce che lui poteva preparare in quattro e quattr’otto, impastando un panetto di pasta lievitata (che aveva tenuto da parte) e aggiungendovi gli avanzi che aveva in cucina: tuorli d'uovo, zucchero, burro, uva sultantina, canditi.

Il cuoco, non avendo altra scelta, accettò e presentò in tavola quel "dessert" improvvisato, fatto dal suo sguattero. Al Duca il dolce del rimedio piacque e volle conoscere chi l'aveva fatto: era il garzone Toni, appunto. "Adunque", concluse il Moro, "lo baptiziamo Pan de Toni".

La storiellina ha subito, nel tempo, non poche varianti. Secondo una di queste, nonostante il giovane Toni, uno dei falconieri del Duca, ogni notte, si spaccasse la schiena nel retro-bottega per preparare il pane, gli affari del negozio dell’Adalgisa continuavano a peggiorare. Toni non perse tempo, e con l'incoscienza tipica dei giovani, rubò una splendida coppia di falchi al Moro e li vendette per comprare del burro, che aggiunse all’impasto solitamente preparato. Il giorno successivo la bottega fu letteralmente presa d'assalto, si cominciava già a favoleggiare del pane più buono di Milano. Nei giorni successivi altri due falchi vennero sacrificati per l'acquisto di altro burro e di un po' di zucchero da aggiungere all'impasto del pane. Milano impazziva per il "pane speciale" del Toni.

La coda fuori dalla bottega era interminabile e ogni notte bisognava impastare sempre di più. Mentre l'inverno si avvicinava, gli affari miglioravano e Ugo e Adalgisa potevano nuovamente pensare ad un futuro da passare assieme. Sotto le feste di Natale, Ugo diede un ultimo tocco di classe alla ricetta del "pane speciale" e aggiunse uova, pezzetti di cedro candito e uva sultanina.

Tutta Milano, in quei giorni prima di Natale, transitò dalla bottega per comprare quello che già tutti chiamavano "pangrande" o "pan del Toni" (da qui il termine panettone), da servire in tavola il giorno di Natale. Toni divenne ricco e i genitori di Ugo non ebbero più da lamentarsi di Adalgisa e così, come ogni storia che si rispetti, i due giovani si sposarono e vissero felici e contenti. Questa è sicuramente la più nota leggenda che ci racconta della nascita di uno dei più gloriosi prodotti che Milano abbia mai avuto: il panettone.

Secondo un'altra versione, invece, il Toni della leggenda (sempre vissuto alla corte di Ludovico il Moro) sarebbe un fornaio ("offellaio", in milanese "ofelè", da "offella", focaccia), padre della bella Adalgisa, amata dal cavaliere Ughetto degli Antellari. Per conquistare l'amata, Ughetto si finse apprendista fornaio e, una volta entrato nel laboratorio di Toni, preparò un dolce da offrire ad Adalgisa: l'impresa fu coronata dal successo, e Ughetto riuscì a sposare la sua bella, nientemeno che sotto la protezione di Ludovico il Moro e della moglie Beatrice, i quali, non si sa come, avrebbero avuto modo di assaporare la focaccia preparata dallo pseudo garzone del Toni, il fornaio.

Un altro racconto popolare, collega il panettone alla storia del contrastato amore tra Ughetto, anche stavolta un falconiere del Duca, e Adalgisa, umile figlia di un fornaio (che aveva il forno in vicinanza della Chiesa delle Grazie, dove è dipinto il Cenacolo leonardesco) costretta a svolgere vari lavori per aiutare la famiglia in difficoltà in seguito alla perdita di clienti del padre. Infatti sembra che gli affari non andassero tanto bene a causa dell'apertura di un altro fornaio poco lontano. Il Natale si avvicinava, ma i clienti continuavano ad allontanarsi ed a preferire l'altro negozio; allora, Ughetto, messo mani ai suoi ultimi denari, comprò burro, zucchero, uova e uva sultanina, impastò tutto con fior di farina e ... il successo fu enorme. La lunga coda di fronte alla bottega stava ad indicare come le sorti di Algisa si fossero rovesciate.Inutile dirlo, i due innamorati convolarono a giuste nozze e ...vissero felici e contenti.

Un’ennesima variante della leggenda incentrata su l’Adalgisa e l’Ughetto, vuole che il padre della ragazza sfornasse un pane di qualità scadente, tale da fargli perdere, ogni giorno di più, la preferenza dei clienti. È qui che entra in scena l’Ughetto. Costui, messosi a lavorare come garzone del forno, si accorse di cosa non andava e pertanto modificò in parte la ricetta del pane, aggiungendovi il burro, lo zucchero, pezzetti di cedro candito e delle uova. In seguito il ragazzo decise di preparare un “panettone” speciale per la festa di Natale, integrando la ricetta con dell’uva passita. E fu un successo strepitoso, che lo portò sino alla Corte del Duca di Milano, che lo colmò di benemerenze. Anche questa storiella finisce in gloria, cioè con le nozze dei due giovani innamorati.  

Tra le leggende fiorite intorno all'origine del panettone vi è anche quella, dai tratti decisamente fiabeschi, che attribuisce l'invenzione del dolce alla giovane Ughetta, monaca in un convento molto povero. Siamo attorno al 1200.  Le suorine, che abitavano nella nebbiosa campagna alle porte di Milano, vivevano di sola elemosina. Ma, quell'anno, i milanesi non erano stati molto prodighi nei confronti delle religiose e, alla vigilia di Natale, in dispensa non era rimasta che poca farina con la quale venne preparato del pane. La storia vuole che suor Ughetta, abbia riunito i pochi ingredienti rimasti nella cucina del monastero, per regalare alle suo consorelle un Natale un po' più felice.

Prese l'impasto del pane e aggiunse uova e zucchero. In una scansia trovò anche un po' di canditi e dell'uvetta (in milanese "ughetta"). Per benedire quel pane natalizio vi tracciò sopra, con il coltello, una croce. Le suore furono entusiaste della sorpresa e presto la notizia del pane del convento si sparse in tutta Milano e il convento fu preso d’assalto da una miriade di entusiasti avventori.

Vale la pena, fra le tante, di ricordare un po’ meglio la storia del panettone e della cerimonia del ceppo, cui abbiamo già fatto cenno e che forse e la più realistica. Il panettone tradizionale milanese era originariamente nient'altro che un grosso pane, alla preparazione del quale doveva sovrintendere il padrone di casa, il quale, prima della cottura, vi incideva col coltello una croce in segno di benedizione.

Il grosso pane veniva poi consumato dalla famiglia solennemente riunita per la tradizionale cerimonia natalizia "del ciocco". Il padre, o il capo di casa, fattosi il segno della croce, prendeva un grosso ceppo, solitamente di quercia , lo adagiava nel camino, vi poneva sotto un fascetto di ginepro ed attizzava il fuoco. Versava il vino in un calice, lo spruzzava sulle fiamme, ne sorseggiava egli per primo poi lo passava agli altri membri della famiglia che, a turno, l'assaggiavano.

Il padre gettava poi una moneta sul ceppo che divampava e successivamente distribuiva altre monete agli astanti. Infine gli venivano presentati tre grandi pani di frumento ed egli, con gesto solenne, ne tagliava solo una piccola parte, che veniva riposta e conservata sino al Natale successivo. Il ceppo simboleggiava l'albero del bene e del male, il fuoco l'opera di redenzione di Gesu' Cristo; i pani, progenitori del panettone, simboleggiavano il mistero della Divina Trinita'. Di quest'antica e suggestiva tradizione a noi sono giunti due elementi: la credenza del "potere taumaturgico" dei resti del "pangrande" consumato a Natale, e lo stesso "pangrande" in veste di panettone.

In realtà, non vi è alcuna prova a favore di una leggenda piuttosto che un’altra. Invece l'etimologia è legata a un "pan grande medievale" o forse ancora si basava  sul termine panett de butter, che voleva dire in dialetto piccola confezione di burro, detta anche panatel. Dunque il contrario di panatel - piccolo pane - non poteva che essere panetun, grande pane. Un pane speciale che dopo la lunga lievitazione, insomma, deve risultare gonfio e soffice.

Considerate tutte le leggende e da quanto ci suggerisce il nome stesso, si può dedurre che il panettone non e altro che un pane, cioè una pasta lievitata naturalmente. Certo, la preparazione e più complessa di quella del pane di tutti i giorni e la ricetta è, inoltre, arricchita da burro, uova, zucchero, canditi e da altri pregiati ingredienti. Lunga e laboriosa, la preparazione del panettone avviene ancora, in alcuni laboratori artigianali, come un vero e proprio rito: il primo passo è quello della preparazione della "madre", il lievito naturale fatto con un impasto di acqua e farina, che riposa all'aria per un tempo molto lungo (fino a 36 ore). Alla perfetta riuscita della madre, la cui 'maturazione' è controllata accuratamente dal pasticcere, si devono la consistenza dell'impasto e la sua morbidezza.

La madre viene quindi sottoposta a diversi "rinfreschi", aggiunte di acqua e farina che accrescono la forza del lievito, effettuati ogni 4 ore. Successivamente vengono incorporati gli ingredienti del "primo impasto", farina, uova, zucchero, burro di panna e acqua: la pasta così ottenuta è lasciata lievitare ancora, quindi vi si uniscono canditi e uvetta. A questo punto il "pan del ton" viene posto negli stampi, quindi inciso a croce sulla calotta. La cottura avviene in grandi forni, appositamente costruiti; dopo essersi raffreddato per 12 ore il panettone è lasciato riposare per altre 10, quindi è pronto per essere consumato. La ricetta tradizionale del panettone prevede che esso sia confezionato con farina di frumento, zucchero, burro di panna, uova, uvetta sultanina e cedro candito.

La Confesercenti milanesi ha recentemente emanato le "regole d’oro" per riconoscere un buon panettone:

La cupola deve essere

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­         incisa a croce

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­         priva di tagli

La crosta deve essere

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­         dorata

La pasta deve

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­         avere un deciso colore giallo

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­         presentare dei buchi

Semplice, no?