14 luglio 2012 -  Ogni tanto vengo sorpresa da alcuni dei bellissimi ricordi che ho della mia infanzia, di quei pomeriggi interminabili passati a giocare con i miei vicini di casa —amici da sempre— e delle passeggiate in bicicletta. Da bambina mi piaceva molto andare in bici. Inforcare il mezzo a due ruote (senza rotelle) mi aveva dato un certo status: non solo mi sentivo grande e indipendente, ma il "cordone ombelicale" si era esteso, allargandosi fino a qualche isolato più in là.

Possedere un mezzo di trasporto proprio a 8 o 9 anni non era una cosa da nulla. Mi aveva dato i primi strumenti per imparare a ritracciare la rotta su due piedi: i forti venti contrari, il caldo opprimente del sole pomeridiano, le condizioni del terreno (dopo un acquazzone era meraviglioso portare la bici nel fango) e, comunque, mi aiutava a partecipare attivamente alle mie prime "iniziative di gruppo": la responsabilità di dare un passaggio a qualche amica o di portare la più esile della banda seduta sul manubrio... avventure epiche!

La mia bicicletta non era nuova, era stata il veicolo delle mie sorelle e —ad essere onesti— era un po' un catorcio. Sognavo in silenzio di averne una nuova, una come quelle delle pubblicità in TV, e così scelsi con grande cura ed entusiasmo il numero della lotteria del club che aveva un primo premio molto speciale: una bici con l'immagine di Wonder Woman.

Ovviamente non vinsi la lotteria e non si materializzò la bici dei miei sogni. Venni presa dalla frustrazione e un giorno, tornando a casa, un piccolo difetto meccanico del mio veicolo fece esplodere ciò che oggi definirei senza esagerazione come un "episodio furioso". Urla, grida, calci, rabbia... tutto quello che avevo a portata di mano per far sapere ai miei genitori (che identificavo chiaramente con la direzione generale del mondo) che volevo una bicicletta nuova fiammante, moderna, con tutti gli accessori... insomma, un gioiello su due ruote.

I miei genitori mi stettero a sentire e mi domandarono perché non avevo mai parlato della bicicletta dei miei sogni. Capì all'improvviso che loro erano al di fuori del potere del mio desiderio e che non avevo ottenuto ciò che desideravo semplicemente perché non l'avevo chiesto; non avevo concentrato la mia volontà nel posto giusto ... e avevo subito un NO che io stessa avevo provocato.

Lasciando da parte i capricci, quante volte ci diciamo di NO boicottando i nostri legittimi desideri? Quante volte soffriamo in solitudine un'impossibilità "autoimposta"? Quante volte ci colmiamo di rabbia e risentimento invano, solo perché non abbiamo il coraggio di mettere chiaramente in evidenza ciò che vogliamo?

Quante volte rimaniamo in attesa che gli altri decodifichino e compiacciano i nostri desideri? Quante volte rimaniamo bloccati nella richiesta?

Quante domande...

Adesso che non sono più una bambina mi rendo conto che posso avere desideri (è perfettamente lecito!) e raggiungere un accordo con le mie ambizioni come adulta.

Cerco di non "pedalare i miei desideri", e mi rendo conto che quando lo faccio qualcosa in me sprigiona tanta felicità e vibra a frequenza così elevata e amplificata che non ho più bisogno di ricevere una bici nuova per sentirmi Wonder Woman.

 

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Di Alejandra Daguerre.

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*Alejandra Daguerre è nata a Buenos Aires, dove vive e lavora. Laureatasi in Psicologia nel 1990 all’Università del Salvador nella capitale argentina, ha dapprima lavorato nella Fondazione Argentina per la Lotta contro il Mal di Chagas, nel dipartimento di Psicologia, poi per tre anni presso il Ministero del Lavoro e della Sicurezza sociale (interviste di preselezione, programmi di reinserimento lavorativo e tecniche di selezione del personale), poi dal 1994 al 1999 nella selezione del personale per l’Università di Buenos Aires.

Dal 2003 al 2009 ha lavorato presso l’Istituto di Estetica e Riabilitazione Fisica “Fisiocorp”, dipartimento di Psicologia, nel trattamento psicologico di pazienti con malattie croniche e pazienti in riabilitazione fisica a lungo termine. Dal 1991 opera in attività libero-professionale nel campo della psicologia clínica, per adolescenti e adulti, con metodiche di psicoanalisi e con ricorso all’arte-terapia e terapia occupazionale, utilizzando l'arte come elemento di catarsi terapeutica.

 

(alejandra daguerre / puntodincontro)

 

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14 de julio de 2012 - Cada tanto me sorprende alguno de los lindísimos recuerdos que tengo de mi infancia en el pueblo, de esas interminables tardecitas jugando con mis vecinos  en la vereda, de los amigos de toda la vida y de los paseos en bicicleta.

Cuando era niña me encantaba andar en bicicleta. Salir en bici (sin rueditas auxiliares) me había dado cierto status: no solo me sentía grande e independiente, sino que además el “cordón umbilical” se había extendido por unas cuantas cuadras a la redonda.

Tener mi propio medio de transporte a los 8 ó 9 años no era un tema menor. Me dio mis primeras herramientas para aprender a rediseñar un circuito sobre la marcha:  las inclemencias del viento en contra, el calor de ese sol aplastante a la hora de la siesta, las condiciones del terreno (después de una lluviecita nada mejor que llevar la bici al barro); y por otro lado me ayudó a participar activamente de lo que eran mis primeras “tareas en equipo”, la responsabilidad de pedalear llevando alguna amiga parada atrás o a la más menudita del grupo sentada en el manubrio…qué epopeyas!

Mi bicicleta no era nueva, ya había sido el vehículo de mis hermanas y para ser sincera se veía bastante “traqueteada”. En silencio soñaba con una flamante, como las que publicitaban en la tele, y con gran ilusión elegí el número de la rifa del club que ponía como primer premio una tan especial, que venía con la imagen de la Mujer Maravilla.

Obviamente no gané la rifa ni se materializó la bicicleta de mis sueños.

La frustración se había apoderado de mí, y un día llegando a mi casa tuve un pequeño desperfecto en mi vehículo que detonó algo que hoy llamaría sin exagerar un “episodio furibundo”.

Gritos, llantos, patadas, enojo, todo lo que tenía a mano, para avisar a mis padres (o a lo que yo consideraba la gerencia de mi mundo) que  quería tener una bicicleta nueva, moderna, con todos los chiches, algo así como el “joya, nunca taxi” en dos ruedas.

Mis padres escucharon más allá de mi furia, y me preguntaron por qué nunca había hablado de la bicicleta de mis sueños. Entendí que ellos estaban ajenos a la potencia que tenía mi deseo, y que yo no accedía a mi bici nueva simplemente porque no lo había planteado, no había puesto mi deseo en un lugar valioso…y me había sometido a un NO que yo misma generé.

Descartando lo que es “capricho”, cuantas veces nos decimos NO boicoteando nuestro legítimo deseo? cuantas veces sufrimos en soledad una imposibilidad “autoimpuesta”? cuantas veces nos vamos llenando de furia y resentimientos vanos, solo porque no nos animamos a poner en evidencia lo que deseamos?

Cuantas veces esperamos que los demás decodifiquen y complazcan nuestros deseos? Cuantas veces nos quedamos atrapados en la demanda?

Cuantas preguntas…

Ahora no soy una niña. Descubro que puedo desear (porque es lícito!) y llegar a un acuerdo con mis deseos de manera adulta.

Intento no “bicicletear mis deseos”, y en cada pedaleo veo que cuando actúo en concordancia, algo en mí se nota tan feliz, vibra a tan alta frecuencia, y se amplifica tanto, que ya no necesito mi bicicleta nueva para sentirme “la Mujer Maravilla”.

 

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De Alejandra Daguerre.

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*Alejandra Daguerre Nació en Buenos Aires, donde vive y trabaja. Se graduó en Psicología en 1990 en la Universidad del Salvador de Ciudad de Buenos Aires (Argentina).

Trabajó en la Fundación Argentina de Lucha contra el Mal de Chagas, en el Departamento de Psicología y durante tres años en el Ministerio del Trabajo y Seguridad Social (entrevistas de preselección, programas de reinserción laboral y selección del personal), Desde 1994 hasta 1999 se desempeño en el Departamento de Graduados de la Universidad de Buenos Aires, en areas de RRHH y Capacitación.

De 2003 a 2009 trabajó en el Instituto de Estética y Rehabilitación Física "Fisiocorp", en el tratamiento psicológico de pacientes con enfermedades crónicas y en pacientes de rehabilitación física a largo plazo. Desde 1991 trabaja por cuenta propia en el campo de la psicología clínica para adolescentes y adultos, con métodos psicoanalíticos, y de arte-terapia.

 

(alejandra daguerre / puntodincontro)