18 febbraio 2012 - Un proverbio popolare dice “Chi aspetta si dispera”. E proprio adesso, mentre aspetto, mi sorgono alcuni dubbi…

Se l’attesa rappresenta la speranza di ottenere ciò che si desidera, volere (e credere) che succeda qualcosa, desiderare che si avveri una situazione, ecc., cosa sarà —allora— la disperazione?

Di-sperare vuol dire eliminare la speranza? Significa non guardare più l’orologio? Rappresenta la perdita delle illusioni? È l’impotenza davanti a ciò che non succede?

L'unica cosa che so è che le attese sono “insopportabili” perché —anche se si riferiscono a fatti semplici, quotidiani, quasi abitudinari— ci provocano la sensazione concreta che il nostro mondo interno batte ad un ritmo diverso da quello del mondo che ci circonda.

Fin da piccoli siamo sottomessi ad attese e disperazione. La mamma non sarà sempre a nostra totale disposizione e neanche il petto che ci nutre. Riferiamoci, però, ad altri tipi di attese per cui tutti in qualche momento siamo passati e a causa delle quali ci siamo disperati, attese che ci uniscono come mortali ... attese di tutti i giorni:

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La sala d’attesa: inquietante, perché sono arrivata puntuale e il dottore è in ritardo! Pare che nessuno pensi a me, al mio dolore…

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La dolce attesa: una collezione completa d’intense emozioni, dalle più tenere alle più fastidiose. Sembra dolce fino a quando non si fa aspettare troppo.

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Ti sto aspettando! Si trasmette cosi l’irritazione provocata dal ritardo. I tempi e le intenzioni non sono sincronizzati. Mi sbrigo, ma —dopo aver sentito quella frase— non è più lo stesso.

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Speriamo che il tempo ci aiuti: anche se lo dico solo io, uso il plurale per rinforzare l’intenzione, tutto dipende dal imponderabile, sono alla deriva…

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Spero che tu ti comporti bene: non so che cosa significhi “bene” per l’altra persona, però ho addosso una minaccia. Con una simile avvertenza i miei movimenti sono già limitati e per precauzione non sorrido nemmeno per evitare di “scatenarmi”.

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Speriamo in bene: frase difficile, perché sebbene sembri positiva, tutti sappiamo che i miracoli non sono frequenti come i fatti quotidiani e così finisce per diventare una frase confusa e scoraggiante.

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Mmm ti aspetto…: che stimolate! Mi piace… ma mi innervosisce un po’ perché si aspetta qualcosa da me. Sarò all’altezza?

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Adesso aspetto che mi chiami: e metto l’orologio sul comodino perché lo guarderò tante volte quante realizzerò il rito di controllo, per assicurarmi che il telefono funzioni… e le pile del cellulare, saranno cariche?

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Aspettando l’autobus, il risultato dell’esame, una telefonata dal lavoro, il giorno della sentenza, la vendemmia, l’invito a cena, il taxi, che importa... se sto aspettando e disperando.

 

 

Aspettare è una prova di vita, e sembra che anche la disperazione lo sia. Entrambi sono parti di un ciclo di tirocinio, dove la mia ansietà raggiunge livelli estremi: è intensa, massiccia, arriva alla soglia del dolore, poi si calma perché c’è qualcosa da imparare.

Forse è il ritmo dei miei tempi, forse è il contatore della mia ansia, forse della virtuosa pazienza…

Penelope tesseva e disfaceva instancabilmente mentre aspettava l’arrivo d’Ulisse, Gardel cantò “fumando aspetto colei che tanto amo” e io sono qui, ansiosa di finire questo articolo perché devo andarmene… mi aspettano altre attese e non sapete quanto mi disperano.

 

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Di Alejandra Daguerre.

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*Alejandra Daguerre è nata a Buenos Aires, dove vive e lavora. Laureatasi in Psicologia nel 1990 all’Università del Salvador nella capitale argentina, ha dapprima lavorato nella Fondazione Argentina per la Lotta contro il Mal di Chagas, nel dipartimento di Psicologia, poi per tre anni presso il Ministero del Lavoro e della Sicurezza sociale (interviste di preselezione, programmi di reinserimento lavorativo e tecniche di selezione del personale), poi dal 1994 al 1999 nella selezione del personale per l’Università di Buenos Aires.

Dal 2003 al 2009 ha lavorato presso l’Istituto di Estetica e Riabilitazione Fisica “Fisiocorp”, dipartimento di Psicologia, nel trattamento psicologico di pazienti con malattie croniche e pazienti in riabilitazione fisica a lungo termine. Dal 1991 opera in attività libero-professionale nel campo della psicologia clínica, per adolescenti e adulti, con metodiche di psicoanalisi e con ricorso all’arte-terapia e terapia occupazionale, utilizzando l'arte come elemento di catarsi terapeutica.

 

(alejandra daguerre / puntodincontro)

 

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18 de febrero de 2012 - Dice el saber popular que “el que espera, desespera”.

Y aquí, esperando, me surgen interrogantes… 

Si esperar es tener la esperanza de conseguir aquello que se desea, es querer (y creer) que suceda alguna cosa, es desear que alguna situación ocurra, etc.  ¿que será desesperar?

Des-esperar será deshacer la espera? Será no mirar el reloj? Será la perdida de esa esperanza? Será la impotencia frente a lo que no sucede?

Solo sé que las esperas son “insoportables” porque aunque sean de hechos simples casi rutinarios; nos dan la concreta sensación que nuestro mundo interno late a un ritmo diferente que el mundo real. 

Desde pequeños estamos sometidos a las esperas y des-esperas. Mamá no siempre estará a nuestra total disposición, y la teta nutricia tampoco. Pero vayamos a otras esperas, a las que todos en algún momento transitamos y des-esperamos, a las que nos unifican como “mortales”, a las de todos los días:

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La sala de espera: inquietante, porque yo llegué a tiempo y el doctor está demorado! Parece que nadie piensa en mí, y en mi dolor…

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La dulce espera: plenario completo de emociones intensas, desde las más cálidas hasta las más molestas. Parece ser dulce hasta que justamente “no se haga esperar”!

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Te estoy esperando! Acá viene implícita la molestia, porque hay tardanza. Los tiempos y las intensiones no están en sincronía. Acudo, pero ya no es lo mismo después de esa frase.

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Esperemos que el tiempo acompañe: aunque espere yo sola lo digo en plural (como para que se refuerce la intención), todo depende del imponderable, estoy a la deriva…

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Espero que te portes bien: no se que será bien para el otro, pero tengo encima la amenaza. Con semejante advertencia mis movimientos ya están coartados y por las dudas ni sonrío, no sea cosa que termine “desatada!”

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Esperamos el milagro: frase difícil, porque si bien parece positiva, todos sabemos que los milagros no son tan frecuentes como los hechos cotidianos, así que termina siendo una frase confusa y desalentadora.

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Mmm te espero…: que sugestiva! Me gusta…pero me da un poquito de cosquillas, porque también se espera algo de mí. Estaré a la altura?

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Ahora espero que me llame: y coloco el marcador de ansiedad en la mesita de luz, porque lo voy a mirar tantas veces como realice el ritual de constatación que el teléfono está funcionando…y el celular tiene batería?

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Esperando el colectivo, la nota del examen, la llamada de trabajo, el día de la sentencia, el tiempo de cosecha, la invitación a cenar, la Carroza, que mas da … si estoy ESPERANDO Y DES-ESPERANDO.

Esperar es una prueba de vida, parece que des-esperar también. Ambas son partes de un ciclo de aprendizaje donde mi ansiedad llega a niveles extremos, es intensa, masiva, toca el marcador de dolor, y luego modera porque hay algo que debo aprender.

Tal vez sea el compás de mis tiempos, tal vez sea el velocímetro de mi ansiedad, tal vez de la virtuosa paciencia… 

Penélope tejió y destejió incansablemente mientras esperaba la llegada de Ulises; Gardel canto a viva voz “fumando espero a la que tanto quiero”; y yo acá ansiosa por terminar este artículo, porque debo irme…me esperan otras esperas, y no saben cuánto me desesperan!

 

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De Alejandra Daguerre.

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*Alejandra Daguerre Nació en Buenos Aires, donde vive y trabaja. Se graduó en Psicología en 1990 en la Universidad del Salvador de Ciudad de Buenos Aires (Argentina).

Trabajó en la Fundación Argentina de Lucha contra el Mal de Chagas, en el Departamento de Psicología y durante tres años en el Ministerio del Trabajo y Seguridad Social (entrevistas de preselección, programas de reinserción laboral y selección del personal), Desde 1994 hasta 1999 se desempeño en el Departamento de Graduados de la Universidad de Buenos Aires, en areas de RRHH y Capacitación.

De 2003 a 2009 trabajó en el Instituto de Estética y Rehabilitación Física "Fisiocorp", en el tratamiento psicológico de pacientes con enfermedades crónicas y en pacientes de rehabilitación física a largo plazo. Desde 1991 trabaja por cuenta propia en el campo de la psicología clínica para adolescentes y adultos, con métodos psicoanalíticos, y de arte-terapia.

 

(alejandra daguerre / puntodincontro)