La felicità? "Adattamenti"
Uno studio durato 70 anni
Nel 1937 un gruppo di ricercatori di Harvard decise di seguire numero limitato di soggetti
per un lungo periodo. Ecco le conclusioni.

Ecco i risultati di uno studio di Harvard sulla felicità durato 70 anni.19 giugno 2009. - I conti con la felicità non tornano mai. Hai una colonna piena di "più", la salute, la ricchezza, una bella moglie, dovresti essere al riparo. Eppure può bastare una voce "meno", un figlio con cui non fai che litigare, un'antica ambizione frustrata, e il bilancio va fuori controllo, sino alla bancarotta.

Non esiste formula, nessuna ragionevole ricetta. Lo sanno tutti, a livello di intuizione. Un patrimonio esperienziale che ha il volto dell'amico brillante finito malamente fuoristrada per quello che, visto da fuori, sembrava un ostacolo da nulla. Come deduzione scientifica invece gli studi scarseggiano.

Conosciamo il catalogo delle psicopatologie quotidiane, anamnesi e terapia delle nevrosi, posologia di Prozac e affini. Quasi tutto dei dettagli, pochissimo del quadro d'insieme. Ed è proprio a partire da questa constatazione che, nel 1937 ad Harvard, una squadra di psicologi, medici e antropologi ha iniziato il più ambizioso studio longitudinale (con un numero limitato di partecipanti ma per un lungo arco temporale) per cercare di capire se esistono delle costanti, dei tratti comuni che determinano il grado di soddisfazione delle persone. Per arrivare a una conclusione simile a quella dell'eremita tragico del film Into the wild.

Duecentosessantotto matricole, tutti maschi, del più prestigioso ateneo statunitense, monitorati nella loro evoluzione fisiologica e psichica da allora sino a oggi. Le vite degli altri. Ascoltate, raccolte, annotate per una quarantina degli oltre settant'anni totali da un'équipe guidata dallo psichiatra George Vaillant. Che solo oggi ha deciso di aprire a un giornalista del mensile The Atlantic le porte degli archivi dell'Harvard Study of Adult Development.

I prescelti delle classi del '42, '43 e '44 accettavano di sottoporsi a un'infinità di test. A intervalli regolari avrebbero riempito questionari sul loro umore, riassunto le vicende salienti della loro vita, fatto esami clinici e sostenuto conversazioni in profondità con psicanalisti e assistenti sociali. I dati sarebbero stati poi analizzati e incrociati, prima a mano poi con i computer, per cercare ricorrenze significative. Tra problemi sessuali, per dire, e depressione. Genitori ansiosi e alcolismo. Sport in gioventù e vecchiaia allegra.

La scelta metodologica del campione, esclusione delle donne a parte, sembrava sensata. Se il traguardo era la vita piena, felice, tanto valeva seguire le tracce della meglio gioventù americana. Epperò, quando i ventenni ne fecero cinquanta, un terzo di loro aveva sviluppato disturbi mentali di vario grado. Anche i migliori virgulti dell'Ivy League erano fatti col "legno storto" dell'umanità. E prima o poi i nodi venivano al pettine. Arlie Bock, l'ideatore del progetto che aveva convinto il magnate dei grandi magazzini W. T. Grant a finanziarlo per primo, non ci poteva credere: "Erano normali quando li ho presi io: devono essere stati gli psichiatri a rovinarli".

Nei faldoni ingialliti le cronache dattiloscritte delle loro vite sono numerate ma, con l'eccezione di John Fitzgerald Kennedy e di Ben Bradlee, il direttore del Washington Post all'epoca del Watergate, restano anonime. Il Caso 141 ai tempi dell'università è l'epitome di "felicità e armonia". Poi "si sposa, va a lavorare all'estero, inizia a bere e fumare", smette di rispondere ai questionari. Lo ritroviamo morto di malattia improvvisa verso i quaranta dopo essersi messo con una ragazza psicotica e aver tentato di sedare il male di vivere con quantitativi industriali di marijuana.

Oppure il Caso 158, sposato con una donna straordinaria ("suonavamo insieme il piano e ci divertivamo un sacco") da cui aveva avuto cinque figli, un "ragazzo solido" nella valutazione del dottor Vaillant. Che a 49 anni, dopo la promozione a un invidiabile ruolo di responsabilità, comincia a sgretolarsi: "Non importa cosa faccio, sbaglio sempre a sentir loro" confessa nel formulario. Prima di sprofondare in una spirale depressiva senza fondo.

Storie particolari, come ce ne sono tante. Vaillant le studia e individua alcuni motivi generali. Il tema vero, secondo lui, non è se le persone incontrano pochi o tanti problemi ma come reagiscono. La metafora psicoanalitica decisiva è quella degli "adattamenti", ovvero le risposte inconsce al dolore, ai conflitti o alle incertezze. Quelli che Anna Freud, perfezionando il lavoro del padre, aveva chiamato "meccanismi di difesa" che forgiano o distorcono la realtà soggettiva. Lo scienziato di Boston le divide in quattro categorie. Dal punto più basso delle difese "psicotiche", paranoia inclusa, alle "immature", tra cui l'ipocondria. Risalendo alle "nevrotiche", reazioni comunissime tipo reprimere i pensieri negativi, cacciarli sotto il tappeto della psiche, sino alle "mature", verso le quali dovremmo aspirare: altruismo, umorismo, sublimazione. "Un meccanismo" scrive, descrivendo il contraccolpo agli stimoli esterni "che ha la grazia involontaria con la quale un'ostrica, avendo a che fare con un irritante granello di sabbia, crea una perla". Tenetelo a mente la prossima volta che, di fronte a un'incongrua richiesta di moglie o marito, riuscirete a non dar di matto e a produrre un credibile sorriso.

Quando verso la fine degli anni '90 gli ex ragazzi del "Grant Study" cominciano ad andare in pensione, il ricercatore capo inizia a tirare qualche conclusione. Enuclea sette fattori che sembrano far scommettere su un buon invecchiamento. "Adattamenti maturi", per cominciare, poi istruzione, un matrimonio stabile, non fumare, non bere troppo, un po' di esercizio fisico, peso sotto controllo. Di 106 cavie in cui, a 50 anni, si riscontravano 5-6 di questi fattori la metà sono finiti a 80 "happy-well", sani e contenti, mentre solo il 7,5 per cento "sad-sick", triste e malato. Nessun lieto fine invece per quelli con 3 o meno fattori protettivi. Anche chi, tra loro, era fisicamente in forma aveva tre volte le probabilità di essere morto a 80 anni di quelli con 4 o più fattori.

Vaillant ha in mano una quantità spaventosa di dati, la mappa esistenziale più trasversale che si possa sognare. Scopre quindi che i valori di colesterolo, moderno spauracchio salutista, non profetizzano granché quanto a vecchiaia breve e infelice. Che lo sport al college avrebbe mantenuto poi più un cervello che un corpo tonico. Mentre il vero avvertimento mafioso del metabolismo è la depressione, se oltre il 70 per cento di chi veniva diagnosticato tale a 50 anni era morto o malato cronico a 63.

A queste ipotesi, in un momento in cui la terapia della parola non gode più di buona stampa e le si preferiscono le pillole, viene in rinforzo una nuova tendenza clinica. Per la "psicologia positiva" del professor Martin Seligman ci si deve occupare non solo dei malati ma anche dei sani, per farli stare meglio. Anche Vaillant crede nel potere delle emozioni buone, tipo amore, gratitudine, fiducia. Però, non rinunciando alla sua vocazione eretica, mette in guardia dal lato nascosto della Forza: "Mentre quelle negative ci isolano, proteggendoci, quelle positive ci espongono al rifiuto e al cuore infranto. Ci rendono vulnerabili". La felicità è anche nell'occhio di chi la guarda, questione di definizioni.

Quella dei danesi, per dire, che da anni svettano nella classifica dei popoli soddisfatti, si deduce da risposte come "Det kunne voere voerre", "potrebbe andar peggio" alla domanda "come va?". Un approccio realista ma un po' tiepidino rispetto ai più sanguigni latini che si lamentano spesso ma sanno raggiungere picchi di joie de vivre inimmaginabili per gli scandinavi. E' come se a Copenaghen, avendo scelto di procedere in seconda fissa, siano sereni sapendo di avere poche probabilità di andare a sbattere.

Passa un altro decennio. I superstiti sono circa la metà del club iniziale. Vaillant, settantaquattrenne alle soglie della pensione, vuole distillare una lezione più semplice dal brodo primordiale dei dati. Oltre alle difese, l'elemento più importante per incanutire bene sono le relazioni sociali. Tra fratelli sembrano un antiossidante potentissimo: il 93 per cento di quelli in gran forma a 65 anni erano andati d'amore e d'accordo con sorella o fratello da giovani. E' il calore dei rapporti ad assicurare la manutenzione di testa e pancia. Più facile a dirsi che a farsi, anche per chi ne ha riscontrato gli effetti salvifici in centinaia di casi. La biografia sentimentale del professore è sovrapponibile a quella di un attore hollywoodiano. Quattro figli dalla prima moglie da cui divorzia nel '70, dopo 15 anni. Si risposa subito con una giovane donna conosciuta durante una conferenza in Australia. Mettono al mondo un bimbo e lei si prende cura anche degli altri, incluso uno autistico. All'inizio degli anni '90 però George fugge con una collega. I figli non gli parlano per anni: "C'era la guerra civile in casa", racconterà Anne, una di loro. Dopo un lustro rompe con la terza moglie e torna dalla seconda. Più tardi, davanti a una foto, non la riconoscerà, non ricorderà neppure la lunga interruzione. Ancora la figlia: "Pensai che avesse l'Alzheimer". E invece era solo una radicale rimozione. Sapere come funzionano le difese, anche quelle sbagliate, è più facile che disinnescarle. Sopravvive, sulla condizione umana, solo la lezione cui il protagonista di Into the wild giunge al termine delle sua caduta libera nella solitudine: "Happiness real only if shared", la vera felicità è solo quella condivisa. Vaillant l'ha verificato in tutte le sue cavie. Nessuna esclusa. Nessuno si senta escluso.

 

(Repubblica.it)