Nel piccolo centro modello
"Aiutare il malato si può"

Viaggio nell'istituto in cui la parola d'ordine è "gentilezza".

 

22 settembre 2010. - La donna coi capelli bianchi sta curva sul tavolo, e si fa passare per le mani delle foto di famiglia. Le tocca, le stropiccia coi pollici, le accarezza. Le foto sono ormai consumate, ricurve. C'è stato un tempo (mesi o anni fa) in cui guardava le persone sorridenti, e ancora le dicevano qualcosa. Ora le foto sono una specie di talismano, da strofinare una per una come in un rito, guardando nel vuoto. La donna lo fa tutti i giorni, qui nello spazio comune. Le infermiere la lasciano sola. Starle accanto, e spingerla a ricordare, sarebbe un tormento per lei. A un altro tavolo, una volontaria e altre donne stanno intorno a un cesto pieno di cartoline: ne pescano una, raccontano qualcosa del loro passato, si scambiano e rimpallano ricordi. Verrà anche per loro il giorno in cui nessuna immagine avrà più significato.

Qui al Centro Alzheimer dell'istituto Golgi di Abbiategrasso, Milano, reparto lungodegenti, un punto di eccellenza nazionale per questa patologia, si fa un lavoro che sembra il contrario del normale lavoro ospedaliero. In un ospedale, di solito, la macchina della cura è più importante del paziente. Si affrontano casi clinici, nel modo più efficiente possibile. La vita che sta fuori non ha alcun peso. I familiari sono quasi sempre un impiccio. Qui si fa l'opposto. Si prova a far star bene il paziente, a recuperargli un po' di serenità, si coinvolgono i familiari, si adattano i ritmi del reparto a quelle delle persone che vivono qui, si cercano ostinatamente agganci con la vita di fuori, con i ricordi, con la memoria.

Antonio Guaita, che è stato il fondatore di questo centro e ora dirige la ricerca della Fondazione Golgi Cenci, spiega: "Nei primi anni Novanta cominciava ad essere numericamente rilevante la demenza da Alzheimer. Ci rendevamo conto che nelle fasi medio-avanzate, per evitare di essere un semplice contenitore di malattia, la riabilitazione tradizionale non bastava. Obiettivo della riabilitazione è il recupero. Per noi è il benessere della persone. Da recuperare c'è la serenità, non sentirsi persone sbagliate, non essere sgridati, venire liberati dall'angoscia". Perché l'Alzheimer è una malattia degenerativa, e finora non s'è trovata una cura per fermarla. È una malattia trascurata dalle burocrazie pubbliche, che classificano i reparti ad essa dedicati nella generica casella della geriatria.

Guaita e i suoi collaboratori sono dei pionieri, ma in quegli anni Novanta si sono dovuti cercare da soli dei modelli e inventare un metodo. Li hanno trovati nella metodologia "Gentle Care" messa a punto dalla canadese Moyra Jones, che aveva cominciato studiando il caso del suo stesso padre, ed è infine stata colpita dallo stesso morbo. Qui ad Abbiategrasso funzionano sull'Alzheimer un reparto da 20 letti per degenze brevi, due da 20 letti ciascuno per lungodegenti, degli ambulatori, e una rete di assistenza collegata al territorio. Guaita lavora a uno studio (InveCe. Ab: invecchiamento cerebrale ad Abbiategrasso) su tutta la popolazione nata fra il 1935 e il 1939, quasi 1800 persone.

"Qui al reparto degenze brevi - spiega Silvia Vitali, aiuto direttore medico - arrivano per lo più pazienti con disturbi comportamentali, che i familiari non riescono più a gestire". Si capisce cosa c'è dietro questa definizione: persone con deliri o allucinazioni, che escono di casa e si perdono, che urlano la notte, che si barricano in casa, e via elencando fra gli inferni domestici di chi ha a che fare con l'Alzheimer. "Noi non tentiamo subito di eliminare i disturbi, ma cerchiamo di capire che bisogno nascondono: per noi sono una sorta di linguaggio, e prima di tutto bisogna capire. E solo questo permette di limitare la contenzione fisica o farmacologica". Capire i disturbi dal punto di vista del paziente e da quello dei familiari: "Buona parte del lavoro è fatto sui familiari. Ci sono disturbi che sono per loro difficili da affrontare, ma che noi non consideriamo un problema. Per esempio il wandering, e cioè l'affaccendarsi senza senso, o i disturbi del sonno".

Ai familiari si insegna come comportarsi, come interpretare, come non spaventarsi. Possono entrare nel reparto liberamente, e restarci fino alle 22. Le stanze, a uno o due letti, sono piuttosto spoglie: "C'è una certa resistenza a personalizzarle, in vista di una degenza che non supera i due mesi". Nel reparto lungodegenti, invece, tutto è studiato per contrastare uno dei più grossi problemi dei malati di Alzheimer, l'orientamento nello spazio, il riconoscimento degli ambienti e degli oggetti che vi si trovano. Le stanze, a differenza dei locali di servizio, hanno porte rosse. Nei corridoi sono appesi e dislocati oggetti che richiamano le vite vissute fuori: borse, cappelli, fotografie, quadri, macchine per cucire, antiche toilette, piccoli mobili. Ogni porta ha un cartellino dove il paziente è "il signor" o "la signora". Il personale, ogni mattina, chiede permesso, prima di entrare. Qui ogni parola, ogni foto sul muro, ogni etichetta, ogni ricordo è un appiglio per non perdersi nella dimenticanza.

 

(La Repubblica-Di Fabrizio Ravelli)

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