Una Terra non ci basta più

Rapporto choc del Wwf: l'umanità divora il Pianeta
e si arriverà al collasso ecologico già nel 2030.

 

14 ottobre 2010. - Stiamo segando l’albero su cui siamo seduti, questo è il problema dell’umanità. Non è un ragionamento da anime candide, ma un freddo calcolo basato su fattori quantitativi, su numeri, su risorse, su consumi. È la conclusione del rapporto «Living Planet 2010», diffuso ieri dal Wwf in tutto il mondo alla vigilia della Conferenza Internazionale sulla Biodiversità che si aprirà il 18 a Nagoya, in Giappone.

Secondo le elaborazioni del Global Footprint Network e della Zoological Society di Londra, attualmente noi umani stiamo supersfruttando le capacità di recupero e di assorbimento della nostra Terra: nel 2007 (l’ultimo dato disponibile) l’«impronta ecologica globale», la domanda di risorse bionaturali, eccede del 50 per cento le possibilità del pianeta. Per conseguire e accrescere il nostro tenore di vita e di consumo, con l’attuale livello di popolazione e di impatto sull’ambiente, utilizziamo le risorse di una Terra e mezza. Se continueremo con lo stesso passo (ma è più che probabile che si arrivi al collasso ecologico, in questo caso) nel 2030 avremo bisogno di due Terre. Una strada certamente non sostenibile, visto che - sia pure con grande sperequazioni tra spreconi ricchi e morigerati poverissimi - consumiamo le risorse naturali più rapidamente di quanto gli ecosistemi possano rigenerare, ed emettiamo più megatonnellate di gas serra di quanti ne possano assorbire.

La classifica di questa «impronta ecologica», calcolata Paese per Paese tenendo conto della superficie e delle acque, mostra in modo eloquente la grande distanza tra nazioni «sprecone» e nazioni «risparmiose». Gli Emirati Arabi Uniti marciano al ritmo di quasi 6 pianeti equivalenti; 4,4 gli Stati Uniti, più o meno come Belgio e Danimarca; l’Italia è al 29° posto (2,8 pianeti); intorno a 1 troviamo Guatemala e Madagascar, ultimo è Timor Est (0,2). Sempre nel 2007, i 31 Paesi industrializzati dell’Ocse rappresentavano da soli il 37% dell’impronta ecologica dell’umanità; i 10 Paesi del Sud-Est asiatico e i 53 Stati dell’Africa, insieme, sommavano solo il 12% del totale.

Ma ingiustizia e squilibrio emerge anche dall’esame dell’altro grande indicatore considerato nel rapporto: l’«indice pianeta vivente», un indice che riflette lo stato di salute degli ecosistemi seguendo l’evoluzione delle popolazioni di alcune specie di mammiferi, uccelli, pesci, rettili e anfibi (per la precisione, 7.953 popolazioni di 2.544 specie). Ebbene, rispetto al 1970, lo stato di salute della vita animale su scala globale è peggiorato del 30 per cento. Ma se esaminiamo più da vicino questo dato, ci accorgiamo che la vita del pianeta ha subito colpi più duri - un calo di oltre il 60%, e addirittura del 70% se si considerano le sole specie che vivono in acqua dolce - nelle fasce tropicali del pianeta. Ovvero quelle dove si concentra la parte più povera e debole dell’umanità, e allo stesso dove si concentra il grosso della riserva di biodiversità del pianeta. E dove in questo momento si sta intaccando di più la vita. Al contrario, nella zona temperata - dove sono situati i Paesi industrializzati e più ricchi - questo indicatore registra un miglioramento del 29% rispetto al 1970. Che si spiega da un lato con le misure di difesa dell’ambiente intraprese dal ‘70 in poi, ma anche con il fatto che i danni più gravi e drammatici erano già stati compiuti nell’esplosione industriale del secondo dopoguerra.

Il succo: l’economia dei Paesi ricchi «scarica» il suo impatto globale sugli ecosistemi dei Paesi poveri e più vulnerabili. Ancora, la «perdita di biodiversità - si legge nel rapporto - è sintomo e sinonimo del cattivo stato di salute degli ecosistemi e implica un peggioramento dei servizi ecosistemici che sono proprio alla base della nostra vita e del nostro benessere». Che significa cibo, materie prime, farmaci, regolazione del clima, depurazione di acqua e aria, rigenerazione del suolo, impollinazione delle piante, protezione da inondazioni e le malattie. Tutte cose fondamentali per la nostra vita. Tutte cose che - almeno finché l’economia e la statistica non evolveranno - non hanno prezzo, non hanno costo, e dunque non hanno valore. Ma lo hanno, eccome. Per noi e per i nostri figli.

 

(la stampa)

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