10 ottobre 2012 - Basta guardarsi intorno. Ormai è più che palese. Sta dilagando una nuova e imprevedibile moda gastronomica: mangiar polenta. (cfr. Punto d’incontro 22 agosto, 2012).

Gialla, morbida e fumante, questa atavica, rustica pietanza dei nostri nonni, è tornata in auge come una ricercata specialità culinaria. Già da qualche tempo molti ristoranti, anche di grido, hanno incluso la polenta nel loro menu, sennonché, ultimamente, si è verificata una sorprendente proliferazione di negozi ad hoc, cioè “specializzati-in-polenta” (= PolentOne): se vuoi consumarla sul posto, te la spillano da un apposito distributore (on tap polenta) se, invece, vuoi portartela via, te la consegnano ben incartocciata (take away polenta) o, infine, se lo richiedi, te la spediscono a casa (at home polenta).
 


Questa polenta-mania è, in ogni caso, un vero e proprio ricorso storico.

Praticamente scomparsa dalle nostre mense, la polenta è stata un alimento che per secoli ha sfamato (letteralmente!) intere generazioni di italiani. È stata, senza alcun dubbio, "il" piatto sempre presente sulle tavole di tanta povera gente: polenta a mezzogiorno, alla sera, ma spesso anche alla mattina, per colazione. Niente altro che polenta.

Gli italiani mangiatori di polenta (i cosiddetti polentoni) sono stati e tuttora sono .. i nordisti (piemontesi, lombardi, veneti e friulani, in particolare).

Polentone, è un termine originato dal sempiterno, verboso campanilismo nord-sud del nostro Paese. È usato, si sa, in contrapposizione all'appellativo terrone. Entrambe queste parole, nel linguaggio comune, sono connotazioni quasi razziste, o, comunque, fortemente discriminatorie. Sono espressioni di dispregio verso la controparte (nordista o sudista che sia) nei confronti della quale viene millantata una superiorità etnico-culturale.

Cibo quotidiano per antonomasia di tanti(ssimi) poveracci, palestra di fantasia delle donne di casa, sempre indigenti ma ingegnose, la polenta è amaramente legata ad un triste periodo della storia delle nostre genti. Grosso modo dal XVIII al XX secolo, intere fasce della popolazione italiana si trovarono ad affrontare condizioni di vita per noi inimmaginabili. Mancanza d’igiene, indigenza, ignoranza, malattie, infermità, endemie, analfabetismo, miseria morale. E fame, fame. Tanta fame … Non pochi furono i bambini morti d’inedia.

Le cause principali di questa situazione paradossale vanno ricercate, essenzialmente, nella diffusa, endemica povertà di vaste aree del nostro Paese, nella scarsa redditività del terreno agricolo e nel pesante fardello di gruppi famigliari comprendenti, in media, 10-12 figli. Queste condizioni, nate dalla disperazione e dalla miseria, sfociarono, come sappiamo, in enormi flussi migratori di tanti nostri compatrioti (contadini, braccianti..) specie verso le Americhe.

Per primi se ne andarono via, in massa, i polentoni, cioè la gente del nord. L’espatrio, per questi derelitti, rappresentò l’ultimo angosciato tentativo di liberarsi della nefasta «maledizione delle 3-P: Pannocchia, Polenta e Pellagra». Tre parole fra loro interconnesse e che hanno significato, per troppi e per troppo tempo, sgomento, afflizione, sconforto e sofferenze, demenza. E, nei casi estremi, morte.

La prima delle tre parole maledette, «Pannocchia», sta per mais. Questo cereale è un dono del Nuovo Mondo, portatoci da Colombo sin dal suo primo viaggio del 1492. Quindi era totalmente sconosciuto, tanto per fare degli esempi, a Tutankhamon (1341-1323), Buddha (560-480), Alessandro (356-323), Gesù (0-33), Maometto (570-632), Francesco d’Assisi (1181-1226), Marco Polo (1254-1324), Dante (1265-1321), Gutenberg (1396-1468), Giovanna d’Arco (1412-1431)…
 

Il 15 novembre 1492 due messaggeri di Colombo, di ritorno da un'esplorazione a Cuba,
dichiararono di aver visto «una specie di grano, che chiamano mahiz,
di buon sapore una volta cucinato, secco e sotto forma di farina».

Nell'immagine, un'illustrazione di un codice precolombiano in cui il granoturco
viene rappresentato come fonte di vita.
 

Etimologicamente, pannocchia deriva dal latino panùcula, variante di panìcula, diminutivo di panus. È da rilevare, a proposito, che quella che comunemente chiamiamo pannocchia è invece una spiga, cioè l'infiorescenza sessuale femminile del mais. La pannocchia propriamente detta è l'infiorescenza maschile ed è posta sulla cima del fusto (pennacchio o stocco) della pianta.

Il termine mais proviene, invece, da maíz, una parola haitiana, a sua volta derivata dalla lingua degli indiani Arawaks, maysi o mahiz. Per la coltivazione del mais, è risaputo, non era necessario dissodare il terreno, fatto molto importante per gli Indios che non possedevano né l’aratro né grandi animali domestici.

A differenza di un altro regalo dell'America, le patate, circa la commestibilità delle quali si nutrì sino a fine ´700 una profonda diffidenza, il mais si è subito diffuso in Europa. (Al tempo, la pannocchie si mangiavano lessate e abbrustolite). Il Veneto è stato (1570) la prima regione maidicola Italiana. Prodotto “nuovo” al quale bisognava trovare un nome, il mais fu chiamato con una infinità di nomi “nuovi”: miglio rosso, sorgo, grano grosso, miglio di Spagna, formentone, formentazzo, frumentone, granone, grano siciliano, grano d'India, melica, meliga, pollanca, granoturco… Interessante è l’etimologia del termine “granoturco”. C’è chi vuole che “turco” sia sinonimo di “esotico, forestiero”, mentre secondo altri si tratta di una traduzione maccheronica della definizione inglese wheat of turkey, propriamente traducibile in “grano dei tacchini”.

Quando il mais arrivò in Europa, si cercò, subito ma invano, di usarlo per fare del pane, il cibo delle mense nobili. Purtroppo la panificazione della farina di mais è impossibile a causa del glutine. Questa sostanza, una lipoproteina, non è presente nella farina, ma si forma dalla farina dopo averla idratata e impastata. Così facendo, alcune particolari proteine si legano fra loro formando appunto il glutine. Purtroppo il mais, come anche il riso e le patate, non contiene le proteine necessarie per produrre il glutine, senza il quale l’impasto della farina non è plasmabile e non aumenta di volume. Con la farina di mais, pertanto, si potevano ottenere solo “pani piatti” ossia polente.

La «Polenta», la seconda delle tre parole maledette, ha una storia molto antica. Nell'epoca romana era chiamata "pultem". Era fatta, ovviamente, con un altro cereale, il farro, che macinato e cotto in acqua, dava un impasto che veniva servito con formaggi e carni varie. La polenta, dall’antichità, era un piatto mediterraneo. La mangiavano tutti, di qua o di là del mare. Secondo gli antichi Greci, i “mangiatori di polenta” erano i Romani. A loro volta, i Romani chiamavano “mangiapolenta” (pultiphagonides) i Cartaginesi, perché il loro piatto principale era in effetti una pastèlla di grano duro mescolata con miele e formaggio (puls punica).

La polenta, è noto, si ottiene dal mais macinato e quindi mescolato ad acqua bollente e salata. Importante che, quando l'acqua bolle, si aggiunga la farina di mais un po' per volta e sempre mescolando. La polenta è pronta in circa 40 minuti di cottura.

Ma perché anche la polenta fa parte della triade di parole “maledette”, che iniziano tutte con la P?

Perché, mangiando sempre e solo polenta, un tempo dieta invariabile e invariata di tanta povera gente, si contrae la «pellagra»».

Il termine "pellagra", ai giorni nostri, ci dice ben poco: nessuno sa più che cosa sia questa famigerata malattia che nei secoli scorsi mieteva vittime a migliaia, ne faceva impazzire ancora di più, al punto che ancora nei primi anni del '900 i manicomi erano pieni di pellagrosi. La "pellagra" è responsabile di un quadro clinico detto delle "3 D": "demenza, dermatite e diarrea". In assenza di adeguato trattamento, la prognosi è infausta, tanto che gli anglofoni parlano di malattia responsabile delle "4 D": "dementia, dermatitis, diarrhea, death", parafrasabili in una lunga serie di sintomi raccapriccianti: pelle squamosa (dermatite), diarrea, confusione mentale, insonnia, rallentamento psichico, apatia, depressione, demenza, delirio, infiammazione delle mucose, labbra secche e screpolate con evidenti fissurazioni agli angoli della bocca, grave e vistosa glossite (infiammazione della bocca), ragadi anali, fessure ragadiformi delle narici, stomatite, gengivite ….

Da cosa è provocata la “pellagra”?

La "pellagra" è una patologia causata dalla carenza o dal mancato assorbimento di vitamine del gruppo B, in particolare di vitamina PP (dall'inglese Preventing Pellagra, nota anche come niacina, vitamina B3, acido nicotinico) e di triptofano, un amminoacido indispensabile per la sua sintesi. Il guaio è che nel mais di triptofano c’è n’è ben poco. Quasi niente: all’incirca 1,5 mgr/100 gr. Il triptofano, va rilevato, è uno degli 8 amminoacidi essenziali, ossia una di quelle sostanze che noi, come tutti i vertebrati, non siamo in grado di sintetizzare. Pertanto lo si deve necessariamente assumere, bello e fatto, con l'alimentazione. In altre parole: siccome il corpo ricava la vitamina PP dal triptofano, niente triptofano vuol dire niente vitamina PP e con questo, a gioco lungo, “pellagra” sicura.

A cosa serve la vitamina PP?

Questa sostanza (presente nei cereali integrali, carne, pesce, uova, lievito di birra, arachidi e fegato) è fondamentale per la conversione del cibo in energia, per il buon funzionamento dell’apparato digerente e del sistema nervoso e, inoltre, per lo sviluppo dei globuli rossi. Basta ingerirne pochi milligrammi/giorno. I LARN (Livelli di Assunzione Raccomandati dei Nutrienti) ne consigliano una dose di 13 mg per un adulto che utilizza circa 2.000 kcal/die.

C’è da chiedersi, infine, come mai gli Amerindi, per esempio i Maya, nonostante avessero un'alimentazione basata prevalentemente sul granoturco, non abbiano mai sofferto di "pellagra". Se i "Conquistadores" avessero prestato migliore attenzione alla tradizione alimentare maya, avrebbero notato un particolare trattamento praticato dagli Indigeni locali sulla farina di mais (quello che viene oggi chiamato «nixtamalizzazione»). Nell’antico Messico, i chicchi di mais, prima della macinazione, venivano fatti bollire per circa un’ora in "latte di calce" (una soluzione di idrossido di calcio). Oltre all’asportazione della cuticola esterna, con questo sistema si liberava (senza saperlo!) la pur minima quantità di vitamina PP contenuta nel mais, migliorandone l’assorbimento intestinale.

I "Conquistadores" si preoccuparono sempre di appropriarsi dell’oro. Anche quello giallo dei grani di mais. Infatti ne portarono in Europa la materia prima, (la pannocchia) ma lasciarono oltre Oceano qualcosa che non pesava niente, ma preziosissimo: il kow how di come usare la farina di mais senza …. rimetterci la pelle!

 

(claudio bosio / puntodincontro/ traduzione allo spagnolo di carla acosta)

 

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10 de octubre de 2012 - Basta mirar alrededor. Ahora es más que evidente. Se está difundiendo una nueva e imprevisible moda gastronómica: comer polenta (véase Punto d’incontro 22 agosto, 2012).

Amarilla, suave y humeante. Este atávico y rústico platillo de nuestros abuelos ha hecho su reaparición como una especialidad culinaria sofisticada. Ya desde hace un tiempo, muchos restaurantes —incluso los de moda— han agregado la polenta a su menú, con una proliferación de tiendas “ad hoc”, es decir, especializados en polenta (PolentOne). Si la quieres consumir en el lugar, la sacan de una especie de “barril” (on tap polenta), si en cambio, quieres llevártela, te la entregan muy bien empacada (take away polenta) o finalmente, si lo pides, te la envían a casa (at home polenta).
 


Esta polenta-manía representa, en el mejor de los casos, un verdadero ejemplo de ciclicidad histórica.

Ya prácticamente desaparecida de nuestras mesas antes de este último regreso, la polenta es un alimento que durante siglos quitó el hambre (¡literalmente!) a generaciones enteras de italianos. Ha sido, sin lugar a dudas, “el” platillo siempre presente en las mesas de mucha gente pobre. Polenta a mediodía, en la noche, e incluso en la mañana, como desayuno. Polenta, más polenta y sólo polenta.

Los italianos comedores de polenta (los llamados “polentoni”) han sido y todavía son… los norteños (piamonteses, lombardos, vénetos y friulanos, en particular).

“Polentone” (forma despreciativa para indicar a un habitante del norte de Italia), es un término originado por la eterna rivalidad entre el norte y el sur de nuestro país, utilizado, como se sabe, en contraposición al apelativo “terrone” (forma despreciativa para indicar a los sureños). Ambas palabras, en el lenguaje común, son de connotación casi racista y fuertemente discriminatorias. Son palabras de desprecio hacia la contraparte (norteña o sureña) contra la cual se presume una superioridad étnica y/o cultural.

Comida cotidiana por excelencia de muchos (muchísimos) pobres, fuente de imaginación de las mujeres de casa, indigentes pero ingeniosas, la polenta está tristemente relacionada a un período difícil de la historia de nuestra gente. Desde el siglo XVIII hasta el siglo XX, grupos enteros de la población italiana, se enfrentaron a condiciones de vida inimaginables para nosotros. Falta de higiene, indigencia, ignorancia, enfermedades, analfabetismo, miseria moral. Y hambre, hambre... mucha hambre. No fueron pocos los niños que murieron de inanición.

Las principales causas de esta situación paradójica, se encuentran esencialmente, en la pobreza generalizada de vastas zonas de nuestro país, en la escasa productividad de las tierras agrícolas, y en la pesada carga de familias compuestas por 10-12 hijos en promedio. Estas condiciones, nacidas por la desesperación y la miseria, dieron como resultado, como sabemos, una enorme migración masiva de muchos de nuestros compatriotas (campesinos, obreros…) hacia las Américas. Los primeros en emigrar, en masa, fueron los polentones, es decir, los del norte. La expatriación para estos vagabundos, represento la última angustiosa tentativa de liberarse de las nefastas maldiciones del maíz, la polenta y la pelagra. Para ellos, tres palabras interconectadas y que tienen un significado para muchos y por demasiado tiempo, de consternación, aflicción, incomodidad y sufrimiento, demencia. En los casos extremos, la muerte.

La primera de las tres palabras malditas, mazorca, describe el maíz. Este cereal es una de las aportaciones del Nuevo Mundo y fue llevado a Europa por Colón desde su primer viaje, en 1492. Por lo tanto era completamente desconocido —para citar algunos ejemplos— por Tutankamón (1341-1323), Buda (560-480), Alejandro Magno (356-323), Jesús (0-33), Mahoma (570-632), Francisco de Asís (1181-1226), Marco Polo (1254-1324), Dante Alighieri (1265-1321), Gutenberg (1396-1468), Juana de Arco (1412-1431)…
 

El 15 de noviembre de 1492 dos mensajeros de Colón, al regresar de una exploración a Cuba,
declararon haber visto «una clase de grano, que llaman mahiz, de buen sabor cocinado, seco y en harina».

En la imagen, una ilustración de un códice prehispánico,
en el que el maíz se representa como fuente de vida.

 

Etimológicamente, “pannocchia” (pronunciado pannoquia, o sea “mazorca” en italiano), deriva del latín “panúcula”, variante de “panícula”, diminutivo de “panus”. Cabe destacar, en este contexto, que la que comúnmente llamamos mazorca es una espiga, es decir, la inflorescencia sexual femenina del maíz. La mazorca, como tal, es la florescencia masculina y está ubicada en la punta del tallo (penacho o estoca) de la planta.

El término mais, al contrario de maíz, una palabra haitiana, a su vez derivada de la lengua de los indios Arawaks (Maysi o Mahiz). Para la cultivación del maíz, es bien sabido, no es necesario arar el terreno, factor muy importante para los indios, que no contaban con el arado ni con grandes animales domésticos.

A diferencia de otro regalo proveniente de América, la papa —cuya comestibilidad fue objeto de gran desconfianza hasta finales del siglo XVII— el maíz se difundió rápidamente por toda Europa. (En aquél entonces las mazorcas se comían cocidas y asadas). El Véneto fue la primera Región en cultivar el maíz. Tratándose de un producto “nuevo” que necesitaba un nombre, el maíz fue llamado con una infinidad de nombres “nuevos”: milla roja, sorgo, grano rojo, mijo español, “formentone”, “formentazzo”, granote, grano siciliano, grano de la India, mélica, meliga, polanca, grano turco.

Es interesante la etimología de “grano turco”. Hay quienes dicen que “turco” se utiliza en este caso como sinónimo de “exótico” “foráneo”, mientras que para otros se trata de una traducción macarrónica de la definición inglesa “wheat of turkey”, literalmente traducible a “grano para pavos”.

Cuando el maíz llegó a Europa, se buscó —rápidamente pero en vano— de usarlo para hacer pan, el alimento de las mesas nobles. Desafortunadamente la panificación de la harina de maíz es imposible a causa del gluten. Esta sustancia, una lipoproteína, no está presente en la harina, pero se forma en ella al hidratarla y amasarla. De este modo, algunas proteínas se unen entre sí para formar precisamente el gluten. El maíz, al igual que el arroz y las papas, no contiene las proteínas necesarias para que esto suceda, por lo que la masa de su harina no es plasmable y no aumenta en volumen. Con la harina de maíz, por lo tanto, se podían obtener solo “panes planos”, o sea, polentas.

La “polenta”, la segunda de las palabras malditas, tiene una historia muy antigua. En la época romana era llamada “pultem”. Se preparaba, obviamente, con otro cereal, el farro (triticum dicoccum) que —molido y cocido en agua— producía una masa que se servía con quesos y varios tipos de carne. La polenta, desde la antigüedad, era un platillo mediterráneo y todo mundo la comía de un lado o del otro lado del mar. Según los antiguos griegos, los “comedores de polenta” eran los romanos. A su vez, los romanos llamaban “comepolenta” a los cartagineses, porque su platillo principal, en efecto, era una pasta de grano duro, mezclada con miel y queso (puls púnica).

La polenta, es sabido, se obtiene del maíz molido, mezclado en agua hirviente y salada. Es importante que, al hervir el agua, se agregue la harina de maíz poco a poco sin dejar de mezclar. La polenta estará lista después de alrededor de 40 minutos de cocción. Pero ¿por qué la polenta forma parte de la tríada de las palabras malditas, que inician con la letra “P”?.

Porque comiendo siempre y solamente polenta, se contrae la “pelagra”.

El término “pelagra” en nuestros días, nos dice muy poco. Nadie sabe qué cosa sea esta infame enfermedad que en siglos pasados cosechaba víctimas por miles. Hacía enloquecer, todavía más, al punto en que todavía los primeros años del ´900, los manicomios estaban llenos de pelagrosos. La pelagra es responsable de un cuadro clínico llamado de las “3D” “demencia, dermatitis y diarrea”. A falta de un tratamiento adecuado, el pronóstico es pobre, tanto que los angloparlantes, le llaman la enfermedad de las “4D” “dementia, dermatitis, diarrea, death”, parafraseable con una serie de síntomas terribles: piel escamosa (dermatitis) diarrea, confusión mental, insomnio, disminución psíquica, apatía, depresión, demencia, delirio, inflamación de las mucosas, labios secos y agrietados, con fisuras evidentes en las comisuras de la boca, grave y vistosa glositis (inflamación de la boca), fisuras anales, fessure ragadiformi delle narici, estomatitis, gingivitis.

¿Qué provoca la Pelagra? La Pelagra es una patología causada por la carencia o falta absorción de las vitaminas del grupo B, en particular de la vitamina PP (del inglés Preventing Pellagra, conocida también como niacina, vitamina B3, y acido nicotínico) y de triptófano, un aminoácido indispensable para su síntesis. El problema radica en que en el maíz, de triptófano hay muy poco. Casi nada. Casi 1.25mg-100gr. El triptófano, debe señalarse, es uno de los 8 aminoácidos esenciales, es decir, una de las sustancias que nosotros, como todos los vertebrados, no somos capaces de sintetizar. Por lo tanto, se debe tomar con la alimentación. En otras palabras, como el cuerpo toma la vitamina PP del triptófano, nada de triptófano significa nada de vitamina PP, y ‘con esto, seguramente pelagra segura.

¿Para qué sirve la vitamina PP?

Esta sustancia (presente en los cereales integrales, carne, pescado, huevo, levadura de cerveza, cacahuates e hígado) es fundamentalmente para la conversión de la comida en energía, para el buen funcionamiento del aparato digestivo y del sistema nervioso, y además, para el desarrollo de los glóbulos rojos. Basta con comer unos pocos miligramos al día. Los LARN (Niveles de toma recomendada de nutrientes, Por sus siglas en italiano) nos aconsejan una dosis de 13 mg por un adulto que consume 2000 kcal. Diarias.

Hay que preguntarse, finalmente, cómo hacían los indios americanos, por ejemplo, los mayas, no obstante tuvieran una alimentación basada en el grano turco, no hayan sufrido nunca de pelagra. Si los conquistadores hubieran puesto mayor atención a la tradición alimenticia de los mayas, hubieran visto un tratamiento especial de los indígenas locales, a la harina de maíz (la llamada “nixtamalización”) En el México antiguo, los granos de maíz, antes de molerse, se ponían a hervir por alrededor de una hora en “leche de cal” (una solución de hidróxido de calcio). Además de la eliminación de la cutícula externa, con este sistema se liberaba (sin saberlo) hasta la más mínima cantidad de vitamina PP contenida en el maíz, haciendo más efectiva la absorción intestinal.

Los conquistadores se preocuparon siempre de apropiarse del oro. También de aquel amarillo de los granos de maíz. De hecho, importaron a Europa la materia prima, la mazorca. Pero dejaron en el otro lado del océano algo que no era nada pesado, per valiosísimo, el kow how (non sarei cosí sicura che sia stato scritto bene, suggerisco know how) el know how, de cómo usar la harina de maíz sin… ¡perder la piel!

 

(claudio bosio / puntodincontro / traducción al español de carla acosta)

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