Discepoli di Pacino di Buonaguida. L'uccisione di Buondelmonte a Ponte Vecchio
1340-1345.

 

13 luglio 2012 - Forse non ce accorgiamo, ma tutti noi, nel nostro linguaggio quotidiano, usiamo una caterva di "modi di dire", coloriti ed incisivi. Sono espressioni frequenti, "frasi fatte" cui ricorriamo per abitudine mentale al fine di essere più facilmente intesi. Le adoperiamo senza dar loro alcuna importanza idiomatica: sono frasi "usa-e-getta" e basta.

Per esempio, quando un qualcosa è stato fatto "alla buona", "senza pretese", "senza cura", troviamo sia più pratico dire "alla carlona". E tutti ci capiscono. Non tutti sanno però che questo modo di dire si rifà addirittura a Carlo Magno, il quale anche dopo l'incoronazione a Imperatore del Sacro Romano (25 dicembre 800) non rinunciò mai alle sue abitudini e al suo consueto costume franco che prevedeva braghe di lino, mantello di pelliccia e stivali annodati a stringhe.

Dietro a tutte queste frasi di uso abituale, ci sono tante "storie" misconosciute, alcune delle quali vale la pena di ricordare.

Chi avrebbe mai pensato che fare un cancan (gran baccano, baraonda) provenga da una dotta e accesa disputa fra Accademici, che sfociò addirittura in un omicidio? In genere cancan è considerato il ballo sfrenato da caffè concerto della belle-époque. Ma il termine non ha niente a che fare con la danza: deriva dal latino quamquam, che significa "sebbene", congiunzione molto in uso presso gli oratori universitari del XVI secolo. Molti professori della Sorbona pronunciavano questa parola alla gotica, kankam, contro il parere di altri loro colleghi, seguaci dell’umanista Pierre de La Ramée (1515-1572) noto come Petrus Ramus, che erano in favore della dizione alla latina, quamquam. Non fu una cosa da poco. Un giovane insegnante … quamquamista, essendo stato, per questo, esonerato dalla cattedra, fece ricorso al Parlamento. Venne difeso dallo stesso Ramus. Alla fine, dopo una rissosa battaglia verbale, la Corte sentenziò che la parola poteva essere pronunciata in entrambi i modi. Ne seguì un ennesimo violento litigio non proprio verbale dato che, nel corso di questo, Petrus Ramus ci rimise la pelle. Da quel momento la parola cancan fu usata per indicare una violenta  discussione su argomenti di poca importanza e, successivamente, passò ad indicare gran putiferio, grande alterco.

Anche dietro il modo di dire, semi-proverbiale, di cosa fatta capo ha (= ciò che è fatto, è fatto) si nasconde un turpe assassinio. A Firenze, all’inizio della guerra civile fra guelfi e ghibellini [1], nel XIII secolo, Buondelmonte de’ Buondelmonti (guelfo) aveva rotto il fidanzamento con una donzella della famiglia degli Amidei (ghibellini). Per vendicarsi, questi si riunirono in un Consiglio nel corso del quale Mosca de’ Lamberti istigò gli accoliti ad uccidere il fedifrago, dicendo, appunto, capo ha cosa fatta, nel senso che una risoluzione per quanto drastica era sempre meglio di uno stallo nell'indecisione. Ne parla anche Dante, nell’Inferno. Il Mosca è dannato nella bolgia dei seminatori di discordie (Inf. XXVIII, vv. 103-111), dove il poeta lo trova orribilmente mutilato delle mani, come punizione per aver messo in guerra fra loro le fazioni dei guelfi e ghibellini, con la sua istigazione ad uccidere Buondelmonte: «…Ricordera’ti anche del Mosca / che dissi, lasso!, capo ha cosa fatta /…»  

Rientra nel frasario comune anche l’espressione portare il cappello sulle 23, con riferimento al cappello inclinato da una parte. Un tempo si usava contare le ore dall’una alle ventiquattro, cominciando dal tramonto del sole. Dato che il sole "andava giù" verso le 23, si diceva che un cappello era sulle 23 quando veniva portato in una posizione di equilibrio metastabile, tanto inclinato da sembrare stesse per "andar giù" dalla testa.

Anche essere in luna di miele è un modo di dire che ha la sua bella storia. È un detto antichissimo, che risale alla diffusione in India dello zoroastrismo, una religione (e filosofia) basata sugli insegnamenti del profeta Zoroastro (o Zarathustra) e che è stata in passato la religione più diffusa nel mondo. Nell'VIII secolo a.C. un gran numero di iranici devoti al culto zoroastriano emigrarono in India, dove trovarono rifugio presso Jadav Rana, un re indù dell'attuale provincia di Gujarat, ma a condizione che si astenessero da attività missionarie e si sposassero tra loro. Anche se queste restrizioni sono vecchie di secoli, ancora oggi in India i devoti dello zoroastrismo non fanno proselitismo e sono endogamici. Proprio dagli zoroastriani indiani deriva il detto secondo cui «il primo mese di matrimonio è la luna di miele e il secondo la luna di assenzio». Forse a scopo … propiziatorio, era comunque costume che durante il primo mese gli sposi bevessero, ogni giorno, una bevanda a base di miele diluito. Da qui l’espressione, ricorrente anche ai giorni nostri, essere in luna di miele.

Interessante è un altro modo di dire, assai comune.

Quando inizia a piovere, si sente assai spesso imprecare: «Piove, governo ladro!» è un’esclamazione con cui la gente sembra indotta a scaricare sul governo ogni contrarietà, anche se detto governo non ne ha colpa, come appunto in caso di pioggia. L’origine di questa frase si rifà ad una manifestazione che, nel 1861, i mazziniani avevano organizzato a Torino. Ma il giorno fissato pioveva e la manifestazione non ebbe luogo. Il giornale "Pasquino" pubblicò allora una vignetta rappresentante tre mazziniani al riparo della pioggia dirotta con il sottotitolo: Governo ladro, piove!

Al fine di proteggersi dalla iettatura e dalle disavventure, è diffusissimo dire, come gesto scaramantico, "tocco ferro". È l'abbreviazione di "toccare ferro di cavallo" e ha il significato, appunto, di fare scongiuri, accompagnato per lo più dall’atto concreto di toccare un pezzo di ferro. Per capire il significato recondito di questa espressione bisogna rifarsi ad un’antica leggenda inglese. Un giorno il diavolo, sotto mentite spoglie, si presentò ad un maniscalco, pregandolo di ferrargli il piede porcino. Il maniscalco era in realtà San Dunstano di Canterbury (909-988), il quale non si fece scappare l’occasione: incatenò il demonio ad un muro, gli forgiò un bel ferro e glielo inchiodò a suon di martellate in una zampa. Il dolore era veramente lancinante e il diavolo supplicò il Santo di liberarlo; San Dunstano accettò a patto che il demonio promettesse di non entrare mai nella casa in cui vi fosse appeso un ferro di cavallo. Ancora oggi il ferro di cavallo è ritenuto un portafortuna. L’ideale sarebbe trovarlo in un sentiero, con i chiodi ancora infissi. Un suggerimento a quelli che fissano il ferro di cavallo alla porta: deve assolutamente essere inchiodato con i due bracci verso l'alto e fissato con un numero dispari di chiodi, i quali devono solo reggerlo e non passare per i buchi che lo fissano allo zoccolo del cavallo. I chiodi, per di più, devono essere arrugginiti. Nella tradizione nordica invece di "toccare ferro" si dice "toccare legno". In inglese, in particolare, si dice "knocking on wood", bussare sul legno. L´espressione deriva dalla credenza che alcuni spiriti abitassero dentro gli alberi. Bussare sul legno serviva per risvegliare lo spirito dormiente e ottenerne la protezione.

Un'altra espressione figurata, "avere uno scheletro nell’armadio", l’abbiamo presa dall’inglese (= A skeleton in the cupboard) e significa avere nascosto qualcosa di cui si ha paura che venga a conoscenza di altri. Ma, a volte, nell’armadio, oltre allo scheletro, può trovare rifugio anche qualcun altro, vivo e vegeto: l’amante della padrona di casa, che, per cause differenti, ha dovuto darsela a gambe … sul più bello. A questo proposito, Luigi Barzini racconta che il conte di Papadopoli, veneziano, marito di una nobildonna famosa per la generosità con cui offriva la sua procace bellezza, mentre, di notte, era a letto (con la moglie!) abbia udito il respiro difficoltoso dell’amante-di-turno, costretto dalle circostanze a riparare nell’armadio. Al mattino, quando la premurosa consorte gli servì il caffè, bussò alla porta dell’armadio, domandando cortesemente: «Lu el lo tol dolze o amaro?» (= Lei, lo prende dolce o amaro?).

Autocontrollo da gran signore!

 

[1] I guelfi sostenevano il papato ed il loro nome è la versione italianizzata di Welfen, la famiglia sveva opposta ai Weiblingen, cioè quella dei ghibellini che si schieravano per l'imperatore.

 

(claudio bosio / puntodincontro)

 

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13 de julio de 2012. - Tal vez no nos damos cuenta, pero todos nosotros, en nuestro lenguaje cotidiano, utilizamos una serie de "frases hechas", coloridas e incisivas. Se trata de expresiones frecuentes, palabras que usamos por costumbre mental con el fin de darnos a entender más fácilmente. Las usamos sin darles ninguna importancia idiomática: son estructuras del comunicativas para "usar y tirar", eso es todo.

Por ejemplo, cuando algo ha sido realizado "sin pretensiones", "sin cuidado", encontramos más conveniente decir "al ahí se va" (en italiano, "alla carlona"). Y todos nos entienden. Pero no todo el mundo sabe que esta palabra se remonta a Carlomagno, quien incluso después de su coronación como emperador del Sacro Imperio Romano (25 de diciembre del año 800) no renunció a sus hábitos y su acostumbrado traje franco que incluía pantalones de lino, abrigo de pieles y botas con agujetas atadas.

Detrás de todas estas frases de uso regular hay muchas historias poco conocidas, algunas de las cuales vale la pena recordar. ¿Quién hubiera pensado que hacer un escándalo (en italiano se utiliza frecuentemente el término "can can") proviene de una encendida y erudita disputa entre académicos, que incluso dio lugar a un asesinato? En general se le denomina can-can al desenfrenado baile de la Belle-Epoque.

Pero el término no tiene nada que ver con la danza: deriva del latín "quamquam", que significa "aunque", conjunción de uso común entre los oradores universitarios del siglo XVI. Muchos profesores de la Sorbona utilizaban esta palabra pronunciándola al estilo gótico, "kankam", en contra de la opinión de sus colegas, los seguidores del humanista Pedro de La Ramée (1515-1572) conocido como Petrus Ramus, que estaban a favor de la pronunciación latina, "cuamcuam". No era poca cosa. Un joven maestro ... quamquamista, después de haber sido —por este motivo— despojado de su cátedra, recurrió al Parlamento.

Fue defendido por el propio Ramus. Finalmente, después de un fuerte altercado verbal, el Tribunal resolvió que la palabra podía ser pronunciada de ambas formas. Siguió otro violento enfrentamiento, no precisamente verbal, dado que, en el curso de este, Petrus Ramus perdió la vida. Desde ese momento, la palabra can-can se utiliza en italiano para indicar una violenta discusión sobre temas de poca importancia, y más tarde llegó a ser usada para describir un gran alboroto.

Incluso detrás de la frase, semi-proverbial, "cosa fatta capo ha" (que tiene, en italiano, un significado similar a "lo hecho, hecho está") se esconde un crimen vergonzoso. En Florencia, al principio de la guerra civil entre los güelfos y los gibelinos [2], en el siglo XIII, Buondelmonte de 'Buondelmonti (guelfo) había roto su compromiso con una doncella de la familia Amidei (gibelinos).

En represalia, éstos se reunieron en un Consejo en el que Mosca de' Lamberti instigó a los acólitos a matar al traidor, afirmando precisamente "lo hecho tiene cabeza", en el sentido de que una resolución, aunque drástica, siempre es mejor que atorarse en la indecisión. Este asunto también es mencionado en el Infierno de Dante. Mosca se encuentra condenado entre los sembradores de discordia (Infierno XXVIII, vv. 103-111), donde el poeta lo encuentra horriblemente mutilado de las manos como castigo por haber provocado el conflicto entre las facciones de los güelfos y los gibelinos, con su instigación al asesinato de Buondelmonte: «Te acordarás también del Mosca, que dijo: “Lo empezado fin requiere”, que fue mala simiente a los toscanos».

Entre las frases comunes se encuentra también la expresión "portare il cappello sulle 23" (llevar el sombrero en 23), con referencia a la gorra inclinada hacia un lado. Hubo un tiempo en que se acostumbraba contar las horas desde la una hasta las 24, a partir de la puesta del sol. Dado que el sol "se metía" aproximadamente en la hora 23, se decía que un sombrero estaba "en 23" cuando era llevado en una posición de equilibrio precario, tan inclinado que podría desaparecer de la cabeza al igual que el sol del cielo después del ocaso.

También "estar de luna de miel" es una frase que tiene una bella historia. Se trata de un dicho antiquísimo, que se remonta a la difusión —en la India— del zoroastrismo, una religión (y filosofía) basada en las enseñanzas del profeta Zoroastro (o Zaratustra) que en el pasado llegó a ser el culto más común en el mundo. En el siglo VIII aC un gran número de iraníes devotos de Zoroastro emigraron a la India, donde encontraron refugio con Jadav Rana, un rey hindú de la actual provincia de Gujarat, pero a condición de que se abstuviesen de realizar actividades misioneras y se casaran entre sí. A pesar de que estas restricciones tienen siglos de antigüedad, todavía en la India los devotos del zoroastrismo no hacen proselitismo y son endogámicos. Precisamente de los zoroastrianos viene el dicho según el cual "el primer mes de matrimonio es la luna de miel y el segundo la luna de ajenjo". Tal vez ... con fines propiciatorios era costumbre que durante el primer mes la pareja bebiese todos los días un brebaje preparado con miel diluida. De ahí la expresión, que se sigue utilizando, "estar de luna de miel".

Es interesante otra "frase hecha", muy común. Cuando empieza a llover, en Italia se oye muy a menudo la expresión: "¡Llueve, ladrones del gobierno!" ("Piove, governo ladro!"). Es una exclamación con la que la gente parece imputar cualquier acontecimiento negativo al gobierno, incluso si no es culpable, como precisamente en caso de lluvia. El origen de esta frase se refiere a un evento que, en 1861, los seguidores de Mazzini habían organizado en Turín. Pero, en el día señalado, llovió y el evento nunca tuvo lugar. El periódico "Pasquino" publicó entonces una caricatura que representaba a tres simpatizantes del movimiento protegiéndose de la lluvia con el subtítulo: "¡Ladrones del Gobierno, llueve!".

Con el fin de protegerse de la mala suerte, se acostumbra decir "toco madera" ("tocco ferro", en italiano). Es la abreviatura de "tocar la herradura del caballo" y tiene el significado, precisamente, de alejar la desgracia, pronunciando las palabras mientras se lleva a cabo el acto de tocar una pieza de metal. Para comprender el significado oculto de esta expresión hay que remitirse a una antigua leyenda inglesa. Un día el demonio, disfrazado, se presentó a un herrero y le pidió que le colocara una herradura en la pata.

El herrero era en realidad San Dunstan de Canterbury (909-988), quien no desaprovechó la oportunidad: encadenó el demonio a una pared, forjó un buen trozo de hierro y se lo clavó a martillazos en una pata. El dolor era insoportable y el diablo le rogó al Santo que lo dejara en libertad: San Dunstan estuvo de acuerdo con la condición de que el diablo prometiera no volver a entrar en cualquier casa donde estaba colgada una herradura. Todavía hoy en día, la herradura es considerada un amuleto de la suerte.

Lo ideal sería encontrar una en el camino, con los clavos aún puestos. Una sugerencia para aquellos que cuelgan la herradura a la puerta: tiene que ser acomodada con los dos brazos hacia arriba y deben utilizarse un número non de clavos; éstos solo deben servir de apoyo y no pasar por los agujeros que se utilizan para fijarla adhieren a la pata del caballo. Los clavos, además, deben estar oxidados. En la tradición nórdica en lugar de "tocar fierro", se dice "tocar madera". En Inglés, en particular, se utiliza la expresión "knocking on wood". El término deriva de la creencia de que algunos espíritus habitaban en los árboles. Al tocar sobre el tronco se despierta el espíritu dormido y se obtiene protección.

Otra expresión figurativa "tener un esqueleto en el armario", fue tomada del Inglés (A skeleton in the cupboard) y significa tener algo oculto que no se quiere que los demás lleguen a saber. Pero, a veces, en el armario, además del esqueleto, pueden encontrar refugio también personajes vivos, como, por ejemplo, el amante de la señora de la casa, que, por diferentes motivos, tuvo que salir corriendo ... en el pleno de la acción.

A este propósito, Luigi Barzini cuenta que el conde de Papadopoli —veneciano y marido de una mujer famosa por la generosidad con la que ofrecía a terceros su procaz belleza— mientras durante la noche se encontraba en la cama (¡con su esposa!) escuchó la respiración del amante en turno, obligado por las circunstancias a reparar en el armario. Por la mañana, cuando su mujer le sirvió el café, tocó a la puerta del mueble y preguntó cortésmente: «Lu el lo tol dolze o amaro?» («¿Usted lo toma dulce o amargo?»).

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[2] Los güelfos apoyaban al Papa y su nombre es la versión italianizada de Welfen, la familia de Suabia que se oponía a los Weiblingen, es decir, los gibelinos, partidarios del emperador.

 

(claudio bosio / puntodincontro)

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de Claudio Bosio,