8 settembre 2018
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«È come una mia piccola enciclica», così il
Papa si è accomiatato dal direttore del Sole
24 Ore Guido Gentili, al termine di una
lunga intervista pubblicata ieri su due
pagine dal quotidiano economico-finanziario
della Confidunstria.
Puntodincontro ha ricevuto dall'ufficio
stampa del Sole il testo integrale in
italiano e in spagnolo del colloquio, che
riproduciamo di seguito.
***
Santità, un antico proverbio africano
sostiene: “Se vuoi andare veloce vai solo,
ma se vuoi andare lontano vai insieme”.
Tutti noi sappiamo quanto si può correre
velocemente, grazie ai nuovi strumenti
dell'innovazione tecnologica, nella
comunicazione – anche tra le persone - e
nell'economia. Ma le crisi profonde che si
sono succedute, assieme ad una perdurante e
dilagante incertezza, sembrano averci
tagliato e oscurato gli orizzonti. In Gran
Bretagna, addirittura, è nato un ministero
che si occupa della “solitudine”. Farebbe
suo quel proverbio?
Questo proverbio esprime una verità; il
singolo può essere bravo, ma la crescita è
sempre il risultato dell'impegno di ciascuno
per il bene della comunità. Infatti le
capacità individuali non possono esprimersi
al di fuori di un ambiente comunitario
favorevole, dal momento che non si può
pensare che il risultato raggiunto sia
semplicemente la somma delle singole
capacità. Dico questo non per mortificare i
singoli o per non riconoscere i talenti di
ciascuno, ma per aiutarci a non dimenticare
che nessuno può vivere isolato o
indipendente dagli altri. La vita sociale
non è costituita dalla somma delle
individualità, ma dalla crescita di un
popolo.
Come si riesce ad essere “inclusivi”?
Vedere l'umanità come un'unica famiglia è il
primo modo per essere inclusivi. Noi siamo
chiamati a vivere insieme e a fare spazio
per accogliere la collaborazione di tutti.
Se ci guardiamo attorno con il cuore aperto
non ci sfuggono le tante, le tantissime e
preziose storie di sostegno, vicinanza,
attenzione, di gesti di gratuità, toccando
con mano che la solidarietà si estende
sempre più. Se la comunità in cui viviamo è
la nostra famiglia, diventa più semplice
evitare la competizione per abbracciare
l'aiuto reciproco. Come succede nelle nostre
famiglie di appartenenza, dove la crescita
vera, quella che non crea esclusi e scarti,
è il risultato di relazioni sostenute dalla
tenerezza e dalla misericordia, non dalla
smania di successo e dalla esclusione
strategica di chi ci vive accanto. La
scienza, la tecnica, il progresso
tecnologico possono rendere più veloci le
azioni, ma il cuore è esclusiva della
persona per immettere un supplemento di
amore nelle relazioni e nelle istituzioni.
Non avere un progetto condiviso sulle
riduzione delle diseguaglianze in un sistema
sempre più globalizzato può determinare
quella che Lei chiama “l'economia dello
scarto”, dove le stesse persone diventano
“scarti”. Nell'ultimo documento (“Oeconomicae
et pecuniariae quaestiones – Considerazioni
per un discernimento etico circa alcuni
aspetti dell'attuale sistema economico”) la
Santa Sede afferma che l'economia “ha
bisogno per il suo corretto funzionamento di
un'etica amica della persona”. Ci può
spiegare questo punto?
Innanzitutto una precisazione sull'idea
degli scarti. Come ho scritto nell'Evangelii
Gaudium: non si tratta semplicemente del
fenomeno conosciuto come azione di
sfruttamento e oppressione, ma di un vero e
proprio fenomeno nuovo. Con l'azione
dell'esclusione colpiamo, nella sua stessa
radice, i legami di appartenenza alla
società a cui apparteniamo, dal momento che
in essa non si viene semplicemente relegati
negli scantinati dell'esistenza, nelle
periferie, non veniamo privati di ogni
potere, bensì siamo sbattuti fuori. Chi
viene escluso, non è sfruttato ma
completamente rifiutato, cioè considerato
spazzatura, avanzo, quindi spinto fuori
dalla società. Non possiamo ignorare che una
economia così strutturata uccide perché
mette al centro e obbedisce solo al denaro:
quando la persona non è più al centro,
quando fare soldi diventa l'obiettivo
primario e unico siamo al di fuori
dell'etica e si costruiscono strutture di
povertà, schiavitù e di scarti.
Vuol dire che siamo in un contesto valoriale
nemico della persona?
Abbiamo un'etica non amica della persona
quando, quasi con indifferenza, non siamo
capaci di porgere l'orecchio e di provare
compassione dinanzi al grido di dolore degli
altri, non versiamo lacrime di fronte ai
drammi che consumano la vita dei nostri
fratelli né ci prendiamo cura di loro, come
se non fosse anche responsabilità nostra,
fuori dalle nostre competenze. Un'etica
amica della persona diventa un forte stimolo
per la conversione. Abbiamo bisogno di
conversione. Manca la coscienza di
un'origine comune, di una appartenenza a una
radice comune di umanità e di un futuro da
costruire insieme. Questa consapevolezza di
base permetterebbe lo sviluppo di nuove
convinzioni, nuovi atteggiamenti e stili di
vita. Un'etica amica della persona tende al
superamento della distinzione rigida tra
realtà votate al guadagno e quelle
improntate non all'esclusivo meccanismo dei
profitti, lasciando un ampio spazio ad
attività che costituiscono e ampliano il
cosiddetto terzo settore. Esse, senza nulla
togliere all'importanza e all'utilità
economica e sociale delle forme storiche e
consolidate di impresa, fanno evolvere il
sistema verso una più chiara e compiuta
assunzione delle responsabilità da parte dei
soggetti economici. Infatti, è la stessa
diversità delle forme istituzionali di
impresa a generare un mercato più civile e
al tempo stesso più competitivo.
Nello stesso documento in cui è esplicito il
messaggio perché l'attività finanziaria sia
al servizio dell'economia reale, e non
viceversa, colpisce l'appello alle scuole
dove si formano i manager e i capitani
d'industria del futuro, affinché ci si renda
conto che i modelli economici che perseguono
solo dei risultati quantitativi non saranno
in grado di mantenere nel tempo sviluppo e
pace. Significa che i manager dovrebbero
essere formati, e poi giudicati, anche sulla
base di parametri diversi da quelli attuali?
Quali?
Mi sembra importante osservare che nessuna
attività procede casualmente o
autonomamente. Dietro ogni attività c'è una
persona umana. Essa può rimanere anonima, ma
non esiste attività che non abbia origine
dall'uomo. L'attuale centralità
dell'attività finanziaria rispetto
all'economia reale non è casuale: dietro a
ciò c'è la scelta di qualcuno che pensa,
sbagliando, che i soldi si fanno con i
soldi. I soldi, quelli veri, si fanno con il
lavoro. E' il lavoro che conferisce la
dignità all'uomo non il denaro. La
disoccupazione che interessa diversi Paesi
europei è la conseguenza di un sistema
economico che non è più capace di creare
lavoro, perché ha messo al centro un idolo,
che si chiama denaro. E aggiungo, pensando
ai lavoratori incontrati in Sardegna: la
speranza è come la brace sotto la cenere,
aiutiamoci con la solidarietà soffiando
sulla cenere, la speranza, che non è
semplice ottimismo, ci porta avanti, la
speranza dobbiamo sostenerla tutti, è
nostra, è cosa di tutti, per questo dico
spesso anche ai giovani non lasciatevi
rubare la speranza. Dobbiamo anche essere
furbi, perché il Signore ci fa capire che
gli idoli sono più furbi di noi, ci invita
ad avere la furbizia del serpente con la
bontà della colomba.
Furbizia e bontà per lottare contro
l'idolo-denaro? Come si fa?
In questo momento nel nostro sistema
economico al centro c'è un idolo e questo
non va bene: lottiamo tutti insieme perché
al centro ci siano piuttosto la famiglia e
le persone, e si possa andare avanti senza
perdere la speranza. La distribuzione e la
partecipazione alla ricchezza prodotta,
l'inserimento dell'azienda in un territorio,
la responsabilità sociale, il welfare
aziendale, la parità di trattamento
salariale tra uomo e donna, la coniugazione
tra i tempi di lavoro e i tempi di vita, il
rispetto dell'ambiente, il riconoscimento
dell'importanza dell'uomo rispetto alla
macchina e il riconoscimento del giusto
salario, la capacità di innovazione sono
elementi importanti che tengono viva la
dimensione comunitaria di un'azienda.
Perseguire uno sviluppo integrale chiede
l'attenzione ai temi che ho appena elencato.
Cosa fa bene all'azienda?
Il modo di pensare l'azienda incide
fortemente sulle scelte organizzative,
produttive e distributive. Si può dire che
agire bene rispettando la dignità delle
persone e perseguendo il bene comune fa bene
all'azienda. C'è sempre una correlazione tra
azione dell'uomo e impresa, azione dell'uomo
e futuro di un'impresa. Mi viene in mentre
il Beato Paolo VI che avrò la gioia di
proclamare santo il prossimo 14 ottobre, che
nell'enciclica Populorum progressio
scriveva: «Lo sviluppo non si riduce alla
semplice crescita economica. Per essere
autentico sviluppo, deve essere integrale,
il che vuol dire volto alla promozione di
ogni uomo e di tutto l'uomo. Com'è stato
giustamente sottolineato da un eminente
esperto: “noi non accettiamo di separare
l'economico dall'umano, lo sviluppo dalla
civiltà dove si inserisce. Ciò che conta per
noi è l'uomo, ogni uomo, ogni gruppo
d'uomini, fino a comprendere l'umanità
intera”».
Il recente documento vaticano di analisi sul
sistema economico cui ho già fatto
riferimento osserva, soprattutto, come “quel
potente propulsore dell'economia che sono i
mercati non è in grado di regolarsi da sé:
infatti essi non sanno né produrre quei
presupposti che ne consentono il regolare
svolgimento (coesione sociale, onesta,
fiducia, sicurezza, leggi…) né correggere
quegli effetti e quelle esternalità che
risultano nocivi alla società umana
(diseguaglianze, asimmetrie, degrado
ambientale, insicurezza sociale, frodi…)”.
Vuol dire che l'economia non può bastare a
se stessa e ha in qualche modo bisogno di
essere essa stessa “salvata”? Quali sono, a
Suo giudizio, i “giusti”, limiti del
profitto?
L'attività economica non riguarda solo il
profitto ma comprende relazioni e
significati. Il mondo economico, se non
viene ridotto a pura questione tecnica,
contiene non solo la conoscenza del come
(rappresentato dalle competenze) ma anche
del perché (rappresentata dai significati).
Una sana economia pertanto non è mai slegata
dal significato di ciò che si produce e
l'agire economico è sempre anche un fatto
etico. Tenere unite azioni e responsabilità,
giustizia e profitto, produzione di
ricchezza e la sua ridistribuzione,
operatività e rispetto dell'ambiente
diventano elementi che nel tempo
garantiscono la vita dell'azienda. Da questo
punto di vista il significato dell'azienda
si allarga e fa comprendere che il solo
perseguimento del profitto non garantisce
più la vita dell'azienda. Oltre a queste
questioni legate più direttamente
all'azienda, dobbiamo lasciarci interpellare
da ciò che sta intorno a noi. Non è più
possibile che gli operatori economici non
ascoltino il grido dei poveri. Ancora Paolo
VI, - e voglio qui citarlo integralmente per
la sua importanza - affermava nella
Populorum progressio che «la legge del
libero scambio non è più in grado di reggere
da sola le relazioni internazionali. I suoi
vantaggi sono certo evidenti quando i
contraenti si trovino in condizioni di
potenza economica non troppo disparate:
allora è uno stimolo al progresso e una
ricompensa agli sforzi compiuti. Si spiega
quindi come i paesi industrialmente
sviluppati siano portati a vedervi una legge
di giustizia. La cosa cambia, però, quando
le condizioni siano divenute troppo
disuguali da paese a paese: i prezzi che si
formano “liberamente” sul mercato possono,
allora, condurre a risultati iniqui. Giova
riconoscerlo: è il principio fondamentale
del liberalismo come regola degli scambi
commerciali che viene qui messo in causa.
L'insegnamento di Leone XIII nella Rerum
novarum mantiene la sua validità: il
consenso delle parti, se esse versano in una
situazione di eccessiva disuguaglianza, non
basta a garantire la giustizia del
contratto, e la legge del libero consenso
rimane subordinata alle esigenze del diritto
naturale. Ciò che era vero rispetto al
giusto salario individuale - ha scritto
ancora il mio venerato Predecessore Paolo VI
- lo è anche rispetto ai contratti
internazionali: una economia di scambio non
può più poggiare esclusivamente sulla legge
della libera concorrenza, anch'essa troppo
spesso generatrice di dittatura economica.
La libertà degli scambi non è equa se non
subordinatamente alle esigenze della
giustizia sociale”».
Il “Sole 24 Ore” – come Radio 24 e l'Agenzia
Radiocor Plus- è il quotidiano della
Confindustria, cioè l'organizzazione degli
imprenditori italiani che rappresenta 160
mila aziende, in grande maggioranza piccole
e medie. Gli industriali italiani si battono
per una società aperta e inclusiva. Cosa è
necessario, a Suo giudizio, perché un
imprenditore sia un “creatore” di valore per
la sua azienda e per gli altri, a partire
dalla comunità in cui vive e lavora?
Dalla lettura dei Vangeli emerge peraltro
che Gesù mostra grande simpatia (si pensi
alla parabola dei cinque talenti) per gli
imprenditori che si assumono un rischio.
Ricordo l'incontro che nel febbraio del 2016
ho avuto con l'Associazione. Ricordo tanti
volti dietro ai quali c'erano passione e
progetti, fatica e genialità; dicevo che
ritengo molto importante l'attenzione alla
persona concreta che significa dare a
ciascuno il suo, strappando madri e padri di
famiglia dall'angoscia di non poter dare un
futuro e nemmeno un presente ai propri
figli. Significa saper dirigere, ma anche
saper ascoltare, condividendo con umiltà e
fiducia progetti e idee. Significa fare in
modo che il lavoro crei altro lavoro, la
responsabilità crei altra responsabilità, la
speranza crei altra speranza, soprattutto
per le giovani generazioni, che oggi ne
hanno più che mai bisogno. Credo sia
importante lavorare insieme per costruire il
bene comune ed un nuovo umanesimo del
lavoro, promuovere un lavoro rispettoso
della dignità della persona che non guarda
solo al profitto o alle esigenze produttive
ma promuove una vita degna sapendo che il
bene delle persone e il bene dell'azienda
vanno di pari passo. Aiutiamoci a sviluppare
la solidarietà ed a realizzare un nuovo
ordine economico che non generi più scarti
arricchendo l'agire economico con
l'attenzione ai poveri e alla diminuzione
delle disuguaglianze. Abbiamo bisogno di
coraggio e di geniale creatività.
Il lavoro, che pure quando manca è
un'intollerabile emergenza, personale e
sociale, è spesso percepito come una sorta
di condanna quotidiana, una routine
insopportabile. Può indicarci, ad esempio,
due ragioni perché non lo è, o almeno non lo
deve essere, e i modi in cui le imprese si
possono adoperare per far sì che non lo sia,
con ciò stesso contribuendo anche al
successo delle aziende stesse e alla
prosperità della società?
L'idea che il lavoro sia solo fatica è
abbastanza diffusa, ma tutti esperimentano
che non avere un lavoro è molto peggio di
lavorare. Quante volte ho raccolto lacrime
di disperazione di padri e madri che non
hanno più un lavoro! Lavorare fa bene perché
è legato alla dignità della persona, alla
sua capacità di assumere responsabilità per
se e per altri. E' meglio lavorare che
vivere nell'ozio. Il lavoro dà
soddisfazione, crea le condizioni per la
progettualità personale. Guadagnarsi il pane
è un sano motivo di orgoglio; certamente
comporta anche fatica ma ci aiuta a
conservare un sano senso della realtà ed
educa ad affrontare la vita. La persona che
mantiene se stessa e la sua famiglia con il
proprio lavoro sviluppa la sua dignità; il
lavoro crea dignità, i sussidi, quando non
legati al preciso obiettivo di ridare lavoro
e occupazione, creano dipendenza e
deresponsabilizzano. Inoltre lavorare ha un
alto significato spirituale in quanto è il
modo con il quale noi diamo continuità alla
creazione rispettandola e prendendocene
cura.
Quale apporto Lei chiede alle imprese?
Le imprese possono dare un forte contributo
affinché il lavoro conservi la sua dignità
riconoscendo che l'uomo è la risorsa più
importante di ogni azienda, operando alla
costruzione del bene comune, avendo
attenzione ai poveri. So che in molte
aziende si dà un giusto spazio alla
formazione. Sono convinto che gioverebbe
molto ad un'azienda completare la formazione
tecnica con una formazione ai valori:
solidarietà, etica, giustizia, dignità,
sostenibilità, significati sono contenuti
che arricchiscono il pensiero e la capacità
operativa.
Il mondo globalizzato si è fatto in qualche
modo piccolo, ormai abbiamo raggiunto i
limiti di quella che Lei chiama la nostra
casa comune, cioè il pianeta Terra, tanto
che si progetta di colonizzare nuovi
pianeti. L'ecologia e un mondo sostenibile
sono una Sua grande preoccupazione e gli
stessi grandi player internazionali
dell'energia, a partire dell'italiano Eni,
hanno annunciato le loro svolte “verdi”.
Ritiene che su questo punto si stia facendo
abbastanza?
C'è ancora molto da fare per ridurre
comportamenti e scelte che non rispettano
l'ambiente e la terra. Stiamo pagando il
prezzo di uno sfruttamento della terra che
dura da molti anni. Anche oggi, purtroppo,
in tante situazioni, l'uomo non è il custode
della terra ma un tiranno sfruttatore. Ci
sono però segnali di nuove attenzioni verso
l'ambiente; è una mentalità che gradatamente
viene condivisa da un numero sempre maggiore
di Paesi. E' un percorso che ha bisogno di
una cura particolare perché è necessario
passare da una descrizione dei sintomi, al
riconoscimento della radice umana della
crisi ecologica, dall'attenzione
all'ambiente ad una ecologia integrale, da
un'idea di onnipotenza alla consapevolezza
della limitatezza delle risorse. Il punto
nodale è che parlare di ambiente significa
sempre anche parlare dell'uomo: degrado
ambientale e degrado umano vanno di pari
passi. Anzi le conseguenze della violazione
del creato sono spesso fatte pagare solo ai
poveri. Lo sviluppo della dimensione
ecologica ha bisogno della convergenza di
più azioni: politica, culturale, sociale,
produttiva. In particolare la formazione di
una nuova coscienza ecologica ha bisogno di
nuovi stili di vita per costruire un futuro
armonico, promuovere uno sviluppo integrale,
ridurre le disuguaglianze, scoprire il
legame tra le creature, abbandonare il
consumismo.
Vuol dire che c'è bisogno di cambiare
modello di produzione?
Come scrivevo nell'enciclica Laudato si'
questi problemi sono intimamente legati alla
cultura dello scarto, che colpisce tanto gli
esseri umani esclusi quanto le cose che si
trasformano velocemente in spazzatura.
Pensiamo, ad esempio, al nostro sistema
industriale, che alla fine del ciclo di
produzione e di consumo, non ha sviluppato
la capacità di assorbire e riutilizzare
rifiuti e scorie. Non si è ancora riusciti
ad adottare un modello di produzione che
assicuri risorse per tutti e per le
generazioni future, e che richiede di
limitare al massimo l'uso delle risorse non
rinnovabili, moderare il consumo,
massimizzare l'efficienza dello
sfruttamento, riutilizzare e riciclare.
Affrontare tale questione sarebbe un modo di
contrastare la cultura dello scarto che
finisce per danneggiare il pianeta intero.
Dobbiamo ammettere che in questa direzione
il lavoro da fare rimane ancora molto.
Tra gli “scartati” della Terra ci sono i
migranti che si spostano da un continente
all'altro in fuga dalle guerre o in cerca di
condizioni per vivere o sopravvivere. Lei,
in un periodo storico che vede le frontiere
(anche quelle commerciali) chiudersi e
prevalere i nazionalismi in un'Europa stanca
e divisa, non si sente un po' come un Mosè
contemporaneo che apre il passaggio, apre le
porte per tutti i popoli e le persone, a
cominciare dai più poveri? C'è chi pensa che
questa non sia comunque la missione di
successore di Pietro. Perché, invece,
ritiene che lo sia? E di cosa ha bisogno
questa Europa per ritrovare una rotta comune
e insieme per rispondere alle paure dei suoi
cittadini?
I
migranti rappresentano oggi una grande sfida
per tutti. I poveri che si muovono fanno
paura specialmente ai popoli che vivono nel
benessere. Eppure non esiste futuro pacifico
per l'umanità se non nell'accoglienza della
diversità, nella solidarietà, nel pensare
all'umanità come una sola famiglia. E'
naturale per un cristiano riconoscere in
ogni persona Gesù. Cristo stesso ci chiede
di accogliere i nostri fratelli e sorelle
migranti e rifugiati con le braccia ben
aperte, magari aderendo all'iniziativa che
ho lanciato nel settembre dell'anno scorso:
Share the Journey - Condividi il viaggio. Il
viaggio, infatti, si fa in due: quelli che
vengono nella nostra terra, e noi che
andiamo verso il loro cuore per capirli,
capire la loro cultura, la loro lingua,
senza trascurare il contesto attuale. Questo
sarebbe un segno chiaro di un mondo e di una
Chiesa che cerca di essere aperta, inclusiva
e accogliente, una chiesa madre che
abbraccia tutti nella condivisione del
viaggio comune. Non dimentichiamo, come ho
già detto precedentemente, che è la speranza
la spinta nel cuore di chi parte lasciando
la casa, la terra, a volte familiari e
parenti, per cercare una vita migliore, più
degna per sé e per i propri cari. Ed è anche
la spinta nel cuore di chi accoglie: il
desiderio di incontrarsi, di conoscersi, di
dialogare… La speranza è la spinta per
“condividere il viaggio” della vita, non
abbiamo paura di condividere il viaggio! Non
abbiamo paura di condividere la speranza. La
speranza non è virtù per gente con lo
stomaco pieno e per questo i poveri sono i
primi portatori della speranza e sono i
protagonisti della storia.
Ma come deve muoversi, in concreto,
l'Europa?
L'Europa ha bisogno di speranza e di futuro.
L'apertura, spinti dal vento della speranza,
alle nuove sfide poste dalle migrazioni può
aiutare alla costruzione di un mondo in cui
non si parla solo di numeri o istituzioni ma
di persone. Tra i migranti, come dice lei,
ci sono persone alla ricerca di “condizioni
per vivere o sopravvivere”. Per queste
persone che fuggono dalla miseria e dalla
fame, molti imprenditori e altrettante
istituzioni europee a cui non mancano
genialità e coraggio, potranno intraprendere
percorsi di investimento, nei loro paesi, in
formazione, dalla scuola allo sviluppo di
veri e propri sistemi culturali e,
soprattutto in lavoro. Investimento in
lavoro che significa accompagnare
l'acquisizione di competenze e l'avvio di
uno sviluppo che possa diventare bene per i
paesi ancora oggi poveri consegnando a
quelle persone la dignità del lavoro e al
loro paese la capacità di tessere legami
sociali positivi in grado di costruire
società giuste e democratiche.
Il Vaticano è in Italia e Lei è il vescovo
di Roma. Ma il popolo italiano ha riservato
grandi consensi alle forze politiche
definite “populiste” che non condividono
l'apertura delle porte del Paese ai
migranti. Come vive questo scostamento tra
pecore e Pastore?
Le risposte alle richieste di aiuto, anche
se generose, forse non sono state
sufficienti, e ci troviamo oggi a piangere
migliaia di morti. Ci sono stati troppi
silenzi. Il silenzio del senso comune, il
silenzio del si è fatto sempre così, il
silenzio del noi sempre contrapposto al
loro. Il Signore promette ristoro e
liberazione a tutti gli oppressi del mondo,
ma ha bisogno di noi per rendere efficace la
sua promessa. Ha bisogno dei nostri occhi
per vedere le necessità dei fratelli e delle
sorelle. Ha bisogno delle nostre mani per
soccorrere. Ha bisogno della nostra voce per
denunciare le ingiustizie commesse nel
silenzio, talvolta complice, di molti.
Soprattutto, il Signore ha bisogno del
nostro cuore per manifestare l'amore
misericordioso di Dio verso gli ultimi, i
reietti, gli abbandonati, gli emarginati.
In che modo si può realizzare un percorso di
integrazione in grado di superare paure e
inquietudini, che sono reali?
Non smettiamo di essere testimoni di
speranza, allarghiamo i nostri orizzonti
senza consumarci nella preoccupazione del
presente. Così come è necessario che i
migranti siano rispettosi della cultura e
delle leggi del Paese che li accoglie per
mettere così in campo congiuntamente un
percorso di integrazione e per superare
tutte le paure e le inquietudini. Affido
queste responsabilità anche alla prudenza
dei governi, affinché trovino modalità
condivise per dare accoglienza dignitosa a
tanti fratelli e sorelle che invocano aiuto.
Si può ricevere un certo numero di persone,
senza trascurare la possibilità di
integrarle e sistemarle in modo dignitoso.
E' necessario avere attenzione per i
traffici illeciti, consapevoli che
l'accoglienza non è facile. Ricordo qui
quanto scrivevo quest'anno nel Messaggio per
la Giornata Mondiale della Pace: quattro
pietre miliari per l'azione, che amo
esprimere tramite i verbi «accogliere,
proteggere, promuovere e integrare», e
sottolineo che il 2018 condurrà alla
definizione e all'approvazione da parte
delle Nazioni Unite di due patti globali,
uno per migrazioni sicure, ordinate e
regolari, l'altro riguardo ai rifugiati.
Patti che rappresenteranno un quadro di
riferimento per proposte politiche e misure
pratiche. Per questo è importante che i
nostri progetti e proposte siano ispirati da
compassione, lungimiranza e coraggio, in
modo da cogliere ogni occasione per far
avanzare la costruzione della pace: solo
così il necessario realismo della politica
internazionale non diventerà una resa al
disinteresse e alla globalizzazione
dell'indifferenza.
(guido gentili / ilsole24ore / adattamento di
massimo barzizza e traduzione in spagnolo per
ilsole24ore di graziella filipuzzi)
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