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2 ottobre 2019 - Cristoforo Colombo ne parlò per la prima volta in una relazione di viaggio datata 15 gennaio 1493. L'esploratore genovese era arrivato a Hispaniola, la moderna Haiti, e scrisse testualmente: «Vi era in abbondanza pure axi, che è il loro pepe, di qualità che molto sopravanza quella del pepe e non v’è chi mangi senza di esso, che reputano assai curativo».

Il peperoncino non aveva allora ancora un nome proprio in Europa e, al ritorno dal secondo viaggio, nel 1496, i collaboratori di Colombo, con alla testa il medico di bordo Diego Álvarez Chanca, lo portarono in Spagna, da dove si diffuse in tutto il vecchio continente. Apparve ufficialmente in Italia per la prima volta 72 anni più tardi, nel 1568, nei Discorsi del medico toscano Pietro Andrea Mattioli, che ne diede una precisa descrizione chiamandolo pepe d’India.

Pietro Andrea Mattioli

Il poeta satirico di Pistoia Niccolò Forteguerri, vissuto fra il 1674 e il 1755, lo denominò per la prima volta peperone. Pare che il termine derivasse dal piemontese pevrum e dal ligure-lombardo-emiliano pevron.

Nello Stivale, il nuovo ingrediente —il più comune è ancora oggi quello che in Messico è conosciuto come chile de árbol— ebbe successo quasi di immediato nella cucina povera del meridione. Risaltava il sapore dei cibi, conservava la carne e, con le sue proprietà disinfettanti, era di aiuto alle popolazioni dei territori caldi. Si diffuse così in luoghi caratterizzati da regimi alimentari monotoni e carenti di vitamine. In special modo in Calabria, il capsicum annuum —nome scientifico del peperoncino— rese vivace la cucina vegetariana e, utilizzandolo, i suoi abitanti crearono autentici “gioielli gastronomici”.

La non distante Napoli —tra il XVIII e il XIX secolo una delle più influenti città europee nel campo dell'arte culinaria— non poteva sottrarsi al suo fascino. Nel capoluogo campano lavoravano Vincenzo Corrado (1734-1836), originario di Oria, e Ippolito Cavalcanti (1787-1859), duca di Buonvicino, gastronomi aperti alle novità della cucina italiana e francese e, al tempo stesso attenti, alle cucine popolari meridionali.

Corrado, nei suoi ricettari, propose il Peperoncino in addobbata, una salsa di vari ingredienti con la quale veniva riempita la testa del capretto. E nel trattato Del cibo pitagorico, ovvero erbaceo (1781), conferì importanza ai peperoni con otto ricette. Cavalcanti nel suo trattato La cucina teorico pratica, suggerì peperoni dolci e peperoni piccanti in una Zuppa di soffritto e nel Piatto d’erba stomatico.

Non appare però nessuna traccia del peperoncino nel celebre libro di Fisiologia del gusto di Brillat-Savarin del 1825 e nemmeno nella Scienza in cucina, il trattato con cui Pellegrino Artusi nel 1891 “inventò” la cucina nazionale italiana. In quegli anni era ancora diffuso solo presso i ceti popolari meno abbienti e i contadini del sud, che lo utilizzano per insaporire i loro piatti.

Per registrarne la presenza a livelli più alti ci vorrà la nascita del Futurismo. Comparve infatti nel primo pranzo futurista dell’8 marzo 1931 con Filippo Tommaso Marinetti, che inaugurò la Taverna Santo palato con un antipasto intuitivo fatto con dei peperoncini verdi all’interno dei quali erano nascosti biglietti con frasi di propaganda del movimento.

Oggi sono molte le ricette italiane in cui il peperoncino viene usato come ingrediente. Due preparazioni della pasta sono forse tra le più conosciute con questa caratteristica: la pasta all'arrabbiata e la pasta con aglio, olio e peperoncino.

(massimo barzizza / puntodincontro.mx)

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