La sciagura
dei Rondanini

Mi frugai in tasca e trovai il foglietto che Rachele mi aveva buttato dalla finestra.

Dopo pranzo portai il caffè accanto al computer e aprii il file di Orrore sulle colline. Avevo voglia di lavorare un po' su quel racconto. Non sapevo come sarebbe andato avanti, ma era proprio questo che mi spingeva a continuare.

Dopo appena dieci righe mi bloccai. Rilessi quello che avevo appena scritto. Non mi piaceva, e lo cancellai. Non era la giornata giusta per scrivere.

Chissà dov'era Camilla in quel momento. Avevo una gran voglia di vederla. Mi frugai in tasca per prendere l'accendino e mi trovai fra le dita una pallina di carta. Mi tornò in mente il biglietto che avevo scritto a Camilla, e lo buttai nel posacenere. Lo avrei bruciato e avrei sparso le ceneri nei campi.

Cercai di nuovo l'accendino e mi trovai in mano un altro foglietto appallottolato. Lo aprii e vidi che era il biglietto per Camilla. Allora l'altro cos'era? Poi mi ricordai, era il foglietto con i disegnini che Rachele mi aveva buttato dalla finestra. Ripresi la pallina di carta dal posacenere e la distesi con le dita. Andai a sedermi al tavolo, per osservare meglio quelle figure sotto la luce della lampada. Quattro disegni a matita blu, uno accanto all'altro. Erano molto essenziali, come quelli dei bambini. Il primo disegno a sinistra era una bimba abbracciata a un cane.

In quello accanto si vedeva una donna con i capelli lunghi e la pancia scarabocchiata con insistenza, quasi fino a bucare il foglio. Anche il terzo raffigurava una donna, ma con i capelli legati sulla nuca e un fucile in mano. Ai suoi piedi era disteso un cane senza testa. Il quarto disegnino mi fece venire la pelle d'oca: una bambina teneva in mano la testa del cane, che gocciolava sangue. Forse da bambina Rachele aveva origliato i discorsi dei grandi sulla morte di sua madre, e sapeva tutto. Avevo davanti agli occhi il suo racconto, sullo stile della vita dei santi che si vedevano nelle chiese.

Erano disegni elementari, ma molto efficaci. Senza motivo voltai il foglietto e vidi che c'era un altro disegno, una scenetta sola: una donna con le braccia in avanti, gli occhi grandi e la bocca formata da un cerchio ripassato molte volte, e di fronte a lei una specie di bestia ritta su due zampe, con le zanne che spuntavano dalle labbra, un grande cesto di capelli sulla testa e le mani alzate in aria in una posizione minacciosa. Insomma un lupo mannaro.

La storia di quel brutto giorno era tutta in quei disegnini, anche se trasformata dalla fantasia di Rachele. Poveraccia. Chissà se aveva mai disegnato una casa con un albero accanto e il sole nel cielo. La quinta scenetta dava la misura della sua follia. Viveva con quel segreto che le scoppiava dentro e aveva bisogno di raccontarlo. Ma non sapeva scrivere, e allora disegnava. L'unica cosa che non capivo era come mai avesse voluto raccontarlo a me, a uno sconosciuto. Continuavo a guardare il foglietto, affascinato da quelle figure infantili che a loro modo raccontavano la sciagura dei Rondanini.

C'era qualcosa che mi sfuggiva. Magari quei disegni non erano il delirio di una matta, ma un messaggio che non riuscivo a decifrare. Forse Rachele voleva dirmi qualcosa e sperava nella mia intuizione... o forse mi stavo solo bevendo il cervello, e dovevo smettere di occuparmi di lupi mannari e di fantasmi. Ma non era facile rinunciare, soprattutto adesso che avevo le chiavi della villa. Spensi tutto e uscii di casa, con la torcia elettrica in tasca. Il sole era nascosto da una grande nuvola bianchissima. M'incamminai lungo la strada sterrata, salii su per la collina e poco dopo arrivai davanti al cancello della villa. Mi affacciai alle sbarre. Ora che avevo visto quella stanza, la bella casa dei Rondanini mi appariva diversa. Mi sembrava quasi che avesse un'aria addolorata.

Prima di entrare nel giardino costeggiai il muro di cinta, per controllare che nei paraggi non ci fosse nessuno. Arrivai sul retro e imboccai il viottolo che s'infilava nel bosco, curioso di vedere dove portava. L'aria era tiepida e ferma, e sentivo nel naso un forte odore di muschio. Era un peccato che non mi piacessero i funghi, ce ne dovevano essere a quintali. Il sentiero scendeva leggermente e a momenti si allargava, sempre costeggiato da cespugli fitti. Continuai ad avanzare lungo il sentiero, sotto la grandine di luce che filtrava dalle chiome degli alberi. Ero abituato a camminare in mezzo al traffico, e mi sembrava di vivere chissà quale avventura. Dopo un po' intravidi di lontano la fine del bosco e un grande oliveto abbagliato dal sole. Tornai indietro. Un fagiano volò via da un cespuglio facendo un verso intermittente, e lo vidi planare in mezzo agli alberi.

Arrivai di nuovo davanti al cancello della villa. Dopo un'ultima occhiata intorno tirai fuori le chiavi. Stavo per commettere un reato, ma ormai avevo deciso. Feci un bel respiro, e ci mancò poco che mi scappasse un segno della croce. Aprii in fretta il lucchetto ed entrai nel giardino, poi richiusi tutto e corsi verso il portone. Ci misi un po' ad aprirlo, mi sudavano le mani.

M'infilai dentro la villa e mi chiusi il portone alle spalle. Accesi la torcia. Mi resi conto che per certe cose essere in due era molto meglio. Ripensai alle voci che avevo sentito, e stringendo i denti cercai di convincermi che i fantasmi non esistevano. Nulla da fare, in quel momento ci credevo. Sentivo gli spilli nei polpacci, come da bambino quando mio padre m'inseguiva facendo la voce da orco. Non stavo facendo una cosa sensata, lo sapevo. Guidato dalla luce gialla della torcia avanzai cercando di non fare rumore, attento a ogni minimo scricchiolio. Imboccai la scala. Salendo i gradini mi toccai la tasca, e non trovai il cellulare. L'avevo dimenticato a casa. Quella scoperta mi agitò. Ma i grandi eroi dell'antichità insegnavano che il coraggio è vincere la paura.

Arrivai al primo piano. M'incamminai lungo il corridoio e voltai l'angolo. Mi fermai davanti alla stanza della tragedia. Aprii la porta, e rimasi fermo sulla soglia. Illuminai il cappio, le lenzuola imbrattate di sangue, la macchia sul pavimento, le impronte delle scarpe, poi di nuovo il cappio, il letto, la macchia scura sul pavimento...

Avanzai nella stanza fino al lato sinistro del letto. Mi chinai per osservare meglio le impronte di sangue lasciate sul pavimento da molte scarpe. Erano impronte concitate. Cercavo di immaginare quei momenti di orrore... il cane impazzito, le grida della mamma di Rachele, il sangue... e finalmente il tonfo della fucilata. Poi il silenzio. E qualche giorno dopo quel povero disgraziato pendeva dal gancio del lampadario...

Era passato molto tempo, ma quei momenti erano stati vissuti secondo per secondo. Mi domandai se fosse da sadici pensare quelle cose. Illuminando tutto intorno notai delle piccole macchie scure sull'intonaco, vicino alla cornice dell'altra porta, quella che portava nella camera di Rachele. Mi avvicinai per osservarle meglio, senza un vero motivo. Erano tonde, più o meno a mezzo metro da terra. Quando capii cos'erano mi mancò il fiato. Tutte insieme, quelle macchioline formavano l'impronta insanguinata di una piccola mano. La mano di un bambino.

(Continua)



 

(La Stampa.it)