A Fontenera
una festa da lupi

Vidi il vicesindaco uscire dalla villa. Da anni voleva comprarla per una speculazione.

Attraversai il paese e mi fermai nel piazzale di Romero. Lui stava spaccando la legna in canottiera, sotto una tettoia di plastica ondulata. Gli andai incontro con un sorriso da cliente affezionato. Romero mi vide e conficcò la scure nel ceppo.

«Quanta ne vuole?».

«Due quintali».

«Bene». Riprese l’accetta e continuò a spaccare tronchetti in verticale, con un colpo solo. Stun.

«Lei conosce Rachele, la nipote della Rondanini?».

«E chi non la conosce?».

«Mi chiedevo se prima di quella brutta storia era una bambina normale o se invece...».

«Tanto va la gatta al lardo...». Stun.

«In che senso, scusi?».

«In tutti i sensi». Stun. Ero sicuro che avrebbe risposto così. Cominciavo a conoscerlo.

«Sa chi ho visto uscire dalla casa dei Rondanini?».

«No». Stun.

«Il vicesindaco».

«Sai che novità...».

«Ho avuto l’impressione che la signora non vada pazza per lui».

«Eeeh, lo so». Stun.

«Perché?».

«Non lo può vedere».

«Come mai?».

Stun.

«Sono anni che il dottor Fallani cerca di convincere la signora».

«A fare cosa?».

«Si è messo in testa di comprare la villa con la meridiana, ma la signora non ne vuole sapere». Stun.

«Ci va spesso a trovarla?».

«Ci ha fatto il solco».

«Come mai insiste tanto?».

Stun.

«A sentir lui lo fa per il bene della signora».

«Perché?». Evitai di chiedere: in che senso?

«Dice che alla signora farebbe un gran bene liberarsi di quella villa sciagurata». Stun.

«Forse non ha tutti i torti».

«È bugiardo fino al buco del culo. Non gliene frega un cazzo della vecchia, vuole farci degli appartamenti da vendere ai tedeschi».

«Una speculazione...».

«È il suo mestiere. Tutti i mesi va a rompere i cosiddetti alla signora e aumenta l’offerta di cinque milioni». Parlava ancora in lire. Stun.

«Si sa a quanto è arrivato?».

«Centonovanta milioni». Tradussi la cifra in euro: nemmeno centomila. Una miseria. La villa valeva almeno un milione di euro, se non di più.

«È un’offerta ridicola».

«C’è una filastrocca, qui in paese... (Stun) Se passi da Fontenera e non rimani inculato, Fallani non c’era o s’era addormentato». Stun.

«Molto suggestiva».

«Per i soldi il dottor Fallani lo metterebbe nel tapanaro anche a sua madre, (stun) ma finché è viva la signora la villa resta dov’è».

Stun.

La sera andai alla festa del patrono. Sant’Agostino. Un uomo capace di intuire l’inconscio quindici secoli prima di Freud. Chissà cosa avrebbe pensato di Fontenera e dintorni...

Intorno a dieci bancarelle girellava senza meta una folla smisurata di persone vestite a festa. Dovevano essere arrivati anche dai paesi vicini. Porchetta, brigidini di Lamporecchio, torrone, liquerizie arrotolate e altre cose buone per il fegato. Le stesse porcherie di quando ero bambino. Le feste del patrono si trasformavano più lentamente dei dettami della Chiesa.

Camminando fra la gente riconoscevo delle facce, anche se come sempre nessuno mi salutava. Vidi anche la Marinella, Romero e la bella minorata con sua mamma. C’erano perfino due extracomunitari, una cinese che vendeva accendini luminosi e un senegalese più nero delle sue sculture in legno. I movimenti del mondo arrivavano anche su quelle colline. Mancava solo il Nero. Dopo la Casa del Popolo non l’avevo più visto.

Sopra un palco alto un metro c’era la banda. Stavano per cominciare. Mi sentivo bene. Quella festa paesana mi distraeva da Camilla e mi aiutava a far passare il tempo. La banda attaccò a suonare un’aria di Verdi, e tutti applaudirono. Seguì il resto del repertorio fino a Bella Ciao, in una versione cadenzata e trionfale, triste come non mai. Quasi mi commossi, e ne fui felice. Da qualche tempo riuscivo a intenerirmi solo davanti a un piatto di pasta. Alzai gli occhi. In alto nel cielo la luna piena dominava su tutto. Era la notte giusta per i lupi mannari, ma in paese facevano festa.

Alle dieci tiro alla fune tra vecchi ubriachi, incitati dalle mogli. Alle dieci e mezzo i fuochi d’artificio, belli come in città. Alle undici e un quarto la piazza si svuotò. La luna era sempre lassù, e per non rimanere in giro da solo tornai a casa.

Riaccesi il fuoco e mi misi a guardare la televisione, fumando canne leggere. Non vedevo l’ora di arrivare al giorno dopo. Ma in fondo era bella anche l’attesa, con la sua carica di desiderio e d'immaginazione. Riempii il bicchiere e mi ritrovai a pensare alle mie donne passate, soprattutto le più lontane nel tempo. Nella marea sbiadita dei ricordi spiccavano momenti indimenticabili, i più belli ma anche i più stupidi. Gli innamorati sono sempre stupidi, è la loro grande forza. Soltanto dopo la sbornia si rendono conto di quanto erano ridicoli. Adesso ero maturato, riuscivo a sentirmi innamorato e ridicolo nello stesso momento.

E finalmente il giorno dopo arrivò. Appena sveglio sistemai la legna che Romero aveva scaricato accanto alla mia macchina, forse all'alba. Feci due lunghe passeggiate nei campi, una la mattina e una nel tardo pomeriggio, dopo una dormita.

Alle nove accesi il fuoco e preparai la tavola. Misi sul fornello una pentola d’acqua con la fiamma al minimo, e mi sdraiai sul divano con il libro. Avevo dodici stanze ma ne usavo solo tre: la cucina, la camera e il bagno. Cominciai a leggere. Tra una parola e l’altra pensavo a Camilla, e spesso mi toccava rileggere la frase.

Alle dieci e mezzo passate sentii il rumore di una macchina che parcheggiava davanti a casa, e riconobbi la Fiesta di Camilla come un cagnolino che aspetta il padrone. Anche se non si poteva vedere, scodinzolavo. Corsi ad alzare il fuoco sotto la pentola dell’acqua. Feci un bel respiro e andai ad aprire.

«Ciao». Sembravo l’immagine della serenità.

«Non ce l’ho fatta a venire prima». Era stanchissima, un po’ spettinata, ma nulla poteva offuscare la luce del suo sguardo. Anzi, era ancora più bella. Mi seguì in cucina. Si lasciò andare sul divano, davanti al fuoco. Si tolse le scarpe e tirò su i piedi. Vederla così a suo agio mi elettrizzava. Presi in mano due bottiglie di vino.

«Senti un po’...»

«No, ti prego... Stasera niente lupi mannari» m’interruppe lei.

«Obbedisco».

«Sei ossessionato».

«Forse è vero, però adesso volevo solo chiederti se preferisci un Bruciato o un Fonterutoli». Alzai le bottiglie.

«Scegli tu».

«Agli ordini». Stappai il Bruciato, poi magari avrei stappato anche l’altro. Insieme al calice di vino portai a Cleopatra una scodellina con delle schegge di parmigiano.

«Oh, grazie» disse lei, impressionata dalla mia gentilezza.

«Non dirmi che non ti è mai successo».

«Sempre. Ma mi stupisco ogni volta».

«Ah, ecco...».

Andai a buttare gli spaghetti, e li girai finché non furono tutti dentro. Quando la schiuma bianca salì oltre il bordo della pentola ci soffiai sopra e abbassai un po’ la fiamma. Il fuoco che avevo dentro, invece, non si poteva abbassare.

«Ti sei fissato con quelle storie assurde...» disse Camilla.

«Lo ammetto».

«Io ho deciso, non voglio farmi coinvolgere da queste cose».

«Fai bene».

«E poi stasera ho bisogno di rilassarmi».

«Giusto».

«Non sono mica come te».

«Ci mancherebbe...».

Silenzio. Lei fissava il fuoco passandosi le mani sui pantaloni, vagamente imbronciata. Io giravo un po’ la pasta e un po’ la salsa di pomodoro. L’unico rumore era quello della legna che bruciava. Detti ancora un’occhiata alla tavola per vedere se mancava qualcosa. Camilla stese le gambe sul divano, occupandolo tutto, e sbadigliò senza coprirsi la bocca. Si comportava come una fidanzata, e invece non sapevo nemmeno com’era il suo seno. Lo intuivo sotto il maglione, doveva essere non grande ma perfetto. Coppa di champagne, le tette che preferivo. Mi piaceva tutto di lei. Gli occhi malinconici, ma luccicanti di vita. La voce appena un po’ rauca, quasi infantile ma decisa... e il naso, le orecchie, le mani...

(Continua)
 
 

(La Stampa.it)