Un paesaggio magico
come in una fiaba

Di Marco Vichi

La mattina uscii come sempre a camminare, ormai era diventata quasi una droga. Il cielo era coperto, e a momenti veniva giù una pioggerella innocua. Non vedevo l’ora che tornasse Camilla. Telefonai a un paio di amici per dire che ero ancora vivo, e feci fatica a non parlare di lupi mannari.

Dopo mangiato accesi il fuoco e mi allungai sul divano. Mancava solo lei. Aprii il libro, e tra una botta di sonno e l’altra andai avanti a leggere fino alle nove. Dopo cena infilai nello zaino una bottiglia d’acqua, la macchina fotografica e la torcia. Montai in macchina e imboccai la provinciale verso Fontenera. Il cielo si era aperto, e soffiava un vento caldo che stordiva. Pregavo tutti gli dei di vedere il gigante e di immortalarlo con la digitale. La luna era stata piena appena due giorni prima ed era ancora grande, alta nel cielo. La sua luce copriva le colline e le vallate con un velo di madreperla.

J.J. Cale accompagnava il mio viaggio notturno nella campagna, a volume bassissimo. Vagavo nelle stradine sterrate in cerca del mostro. Non ero normale. Potevo essere al Noctambule di Parigi con una bella ragazza a bere un calvados, invece setacciavo le colline del Chianti sperando di incrociare un umanoide alto due metri. Quel paesaggio livido mi appariva magico come quello di una fiaba. Non facevo che pensare a Camilla. Avevo una gran voglia di chiamarla, ma lei aveva detto che preferiva di no. Non volevo fare la figura del bambino. Ero uno che sapeva aspettare, io. Alle tre passate tornai verso casa stanco e deluso, ma deciso a continuare la caccia.

La notte successiva uscii di nuovo in perlustrazione, con la macchina fotografica di Camilla che mi teneva compagnia. Passai per le stesse stradine un’infinità di volte, spiando la campagna. Le case dei contadini emergevano dal buio all’improvviso, misteriose come castelli abbandonati, e ogni tanto al mio passaggio si accendeva il rettangolo di una finestra.

Vidi un branco di cinghiali al margine del bosco, un daino che attraversava la strada, un istrice passeggiare tranquillo. Del lupo mannaro nessuna traccia. Ma quelle notti passate in macchina non erano buttate via, mi aiutavano a far passare il tempo. Contavo le ore che mi separavano da Camilla.

Anche la terza notte uscii per la mia missione. La luna era in fase calante, ma riusciva ancora a rischiarare la campagna. Guidavo lentamente sulla provinciale, con un sottofondo di musica, e imboccavo uno dopo l’altro i sentieri laterali che si perdevano nel buio. Nulla di nulla.

Tornai a casa alle quattro passate, e m’infilai subito a letto. Mi sentivo un po’ scoraggiato, ma non volevo darla vinta al maresciallo. Era diventata una sfida tra lui e me, anche se ero il solo a saperlo. Dovevo fotografare il gigante a ogni costo. Prima o poi lo avrei trovato, ne ero più che sicuro. Ci voleva solo un po’ di pazienza, e una notte valeva l’altra. Le fasi lunari non c’entravano nulla, non stavo cercando un lupo mannaro... dovevo smetterla con quelle cazzate. Era solo un matto che uccideva galline e conigli. E forse all’occasione anche prede più grosse, come quel ragazzo tedesco. Ci voleva una bella foto ricordo del mostro. Non vedevo l’ora di sbatterla sul muso a Pantano. Che lo volesse o no, sarebbe stato costretto a ringraziarmi. La soluzione di quel caso poteva addirittura fargli comodo per la carriera...

Sdraiato al buio mi misi a riflettere su quello che stavo facendo: andavo in giro di notte nella ridente campagna toscana alla ricerca di un gigante. Mi sentivo ridicolo... E se invece i lupi mannari esistevano davvero? Non stavo mettendo a repentaglio la mia vita? Ma no, quale lupo mannaro. Magari era un eremita, un dimenticato da Dio. L’unica certezza era che non aveva il cervello a posto. Non restava che dormirci sopra e aspettare il giorno dopo. Ridicolo o no, non mi sarei arreso. Avrei fotografato il mostro. E se Pantano non si fosse dato da fare, ci avrei pensato io stesso a chiarire quella faccenda. Il destino non si sarebbe fermato di fronte a un maresciallo...

Sotto ogni altro pensiero scorreva il viso di Camilla, e non riuscivo a dormire. Vedevo la sua bocca rossa, il suo sorriso scintillante... e mi mordevo le labbra. Vedevo due occhi neri che mandavano luce e spalancavo i miei nel buio. Ancora un giorno e l’avrei rivista, solo un giorno...

Niente, non riuscivo a dormire. Ci voleva un rimedio. Accesi la luce e mi feci una canna. Finalmente mi addormentai.

Stavo sognando Franco che camminava sull’acqua a piedi nudi, indicando qualcosa davanti a sé. Guardavo in quella direzione e vedevo delle persone che cadevano dal cielo, producendo dei tonfi sordi che mi facevano una grande impressione... tunf... tunf... tunf... tunf... Mi svegliai. Qualcuno stava bussando alla porta, e dalla delicatezza delle mazzate non doveva essere Camilla. Il sole filtrava attraverso le persiane. Guardai l’ora, le otto e un quarto.

...tunf... tunf... tunf... Chi cazzo poteva essere? Il contadino con le bretelle rosse? I testimoni di Geova? Il maresciallo che veniva a interrogarmi sulle mie scorribande notturne?

...tunf... tunf... tunf... Mi rotolai giù dal letto e sbirciai dalla persiana. Sull’aia c’era un furgone della Ups. Certo, la radio-spia della Elektra-International. Aprii la finestra. «Arrivo» urlai. I colpi cessarono e sentii borbottare qualcosa. Mi vestii in fretta e scesi ad aprire. Era un ragazzo di vent’anni, alto e pallido.

«Mi scusi se l’ho svegliata... Ho visto la macchina e... Sennò poi mi toccava tornare quassù». «Hai fatto benissimo». Firmai e portai il pacco in cucina. Misi la caffettiera sul fuoco, e aprii la scatola come se fosse un regalo di Natale. Sembrava una cosa seria, c’erano anche le istruzioni in italiano. Per prima cosa misi le batterie in carica, e mi accorsi che erano già al massimo. Una ditta seria, la Elektra. Bevvi il caffè in fretta e lessi con attenzione il manualetto. Semplicissimo. Andai a mettere una cimice davanti al televisore acceso, e uscii di casa con il ricevitore auricolare. Si sentiva benissimo. Mi allontanai in direzione della villa. Salutai un contadino e con aria indifferente attaccai la salita. La ricezione era ancora buona. C’era il telegiornale, parlavano di un attentato in Iraq.

A un centinaio di metri dalla villa la qualità del suono era peggiorata di pochissimo. Si sentiva un lieve fruscio di fondo, ma riuscivo a capire ogni parola. Stavano parlando di calcio. Quando arrivai davanti al cancello costeggiai il muro di cinta e feci tutto il giro. Ogni tanto c’era una breve interruzione del suono, ma per il resto si sentiva bene. Adesso c’erano le previsioni del tempo. Al centro Italia, sole per i prossimi due giorni.

Tornai a casa e provai anche l’altro trasmettitore, allontanandomi solo di un centinaio di metri. Funzionava bene anche quello. Decisi di andare subito a piazzare i trasmettitori. Montai in macchina e salii di nuovo su per la collina.

(Continua)


 

(La Stampa.it)