Sentii un urlo
poi un lamento

Marco Vichi.

Arrivai alla provinciale. Erano ancora tutti lì. Senza salutare nessuno montai in macchina e tornai indietro. Superai Fontenera, e dopo un po’ imboccai la stradina dove abitava Camilla. Avanzavo a passo d’uomo, e appena vidi la casa mi fermai. La Fiesta non c’era. Voltai la macchina, tornai sulla provinciale e me ne andai a casa.

Prima di entrare provai ancora una volta a chiamare Camilla, passeggiando sull’aia. Irraggiungibile. Non era stata uccisa, ma quel silenzio cominciava a preoccuparmi. Forse aveva un amante da qualche parte, o addirittura un orrido marito che la scopava in modo animalesco... Scacciai quel pensiero, per non sentire i coltelli nella pancia. Mai più sarei stato male per una donna, l’avevo giurato. Mai più. Le cose sarebbero andate come dovevano andare. Avrei aspettato che fosse lei a cercarmi. E se avesse deciso di non tornare da me, pazienza.

Entrai in casa e salii in camera. Controllai le tracce sonore registrate sul computer, ma non trovai nulla. Comunque non mi sarebbe servito a molto. Per poter intervenire in tempo dovevo sentire le voci in diretta.
Lasciai tutto acceso e andai in cucina per mangiare qualcosa. Avevo lo stomaco chiuso, e mi ci entrò solo una mela. Accesi la Tv per guardare il telegiornale. C’era un lungo servizio sulla donna uccisa. Maria Conti, ventisette anni, impiegata di banca. Viveva da sola a Siena. Morta da almeno tre giorni. Al momento si ignorava in che modo e con chi fosse arrivata in quel bosco. La pioggia di qualche giorno prima rendeva difficile l’analisi del terreno, ma i primi indizi facevano pensare che la Conti fosse stata uccisa sulla stradina, quasi certamente da un grosso cane, e poi trascinata in mezzo ai cespugli. Gli inquirenti stavano indagando in ogni direzione...

Altro che grosso cane, lo sapevo io chi era stato. Dovevo correre subito dalla polizia? E se non mi avessero creduto? Il maresciallo avrebbe tirato fuori che Bettazzi sentiva le voci e parlava di lupi mannari, e si sarebbero messi tutti a ridere. Era meglio fare le cose per bene. Dovevo avere in mano una prova, una foto del gigante. Ripensai alle ipotesi della polizia. Ero molto perplesso. Non era strano che un cane si preoccupasse di trascinare il cadavere tra i cespugli? In effetti anche per un lupo mannaro era strano... Era tutto strano, in quel cazzo di posto. Forse era per questo che in fondo mi ci sentivo bene.

Squillò il cellulare. Mia madre.

«Tesoro, stai bene?». Era agitata.

«Che succede, mamma?».

«Al telegiornale hanno parlato di una donna sbranata...».

«Lo so, l’ho appena visto».

«Torni a Firenze?».

«Non vedo perché».

«Come sarebbe? Hanno ammazzato una donna davanti a casa tua e...». «È successo a trenta chilometri da qui, mamma». Non erano nemmeno dieci, ma era meglio mentire.

«Torna a casa, tesoro... Ho un brutto presentimento». Lo diceva sempre, e io sempre mi toccavo.

«Mamma, per favore... Va tutto bene...». Sapevo come prenderla, e in pochi minuti riuscii a tranquillizzarla. Mi salutò schioccando un bacio nel telefono. Avevo rassicurato lei, ma non me stesso. Avevano sbranato una donna, e forse io ero l’unico a sapere chi era stato.

Avrebbe ucciso ancora? E quando?

Provai un’ultima volta a chiamare Camilla, ma era sempre spenta. Mi lasciai andare vestito sul letto, e finalmente mi addormentai.

Mi svegliai per via di un lamento, alzai la testa e mi guardai intorno. La finestra era abbagliata di sole. Sentii un urlo, poi un altro lamento... Ci misi un po’ a capire che le voci venivano dal computer.

«La villa...». Saltai giù dal letto e mi avvicinai agli altoparlanti. Erano suoni ovattati, come se arrivassero da una stanza lontana dal ricevitore. Un uomo e una donna, come le altre volte. M’infilai le scarpe e corsi a lavarmi la faccia. Ero fortunato, la radio-spia era arrivata da poco e... O forse ero sfortunato, perché lassù mi aspettava una verità raccapricciante. Ma ormai non potevo tirarmi indietro. Presi al volo il ricevitore auricolare e la macchina fotografica, e mi precipitai fuori. Saltai in macchina, e partii sgommando. Imboccai il sentiero che portava alla villa, continuando a sentire nell’orecchio l’eco delle voci.

«...uaaa.... naaa... aiii.... eeeoo... aaaa....». L’uomo urlava come sempre, ma non potevo capire le parole. La donna si lamentava e basta. Se erano davvero fantasmi, sarei riuscito a fotografarli?

Fermai la macchina in uno slargo lontano dalla villa e scesi, con il cuore che mi batteva nelle tempie. Mentre avanzavo in mezzo al bosco le voci s’interruppero... anzi no, si sentiva ancora la voce dell’uomo, ma più calma... sembrava che stesse parlando del più e del meno... la donna invece non si sentiva più... il borbottio dell’uomo sparì... silenzio... un rumore di passi, sempre più chiari... forse si stavano avvicinando al ricevitore in fondo alle scale... a un tratto l’uomo parlò...

«Bella cavalla...» disse. Bella cavalla? Quelle parole le avevo sentite chiaramente. Ma che cazzo di fantasma era? Il fascino del mistero svanì di colpo.

Ormai ero davanti alla villa. Nell’auricolare indovinai dei passi che si allontanavano... poi più nulla. Un secondo dopo sentii una porta che si chiudeva sul retro della casa, e passi sulla ghiaia. Erano usciti. Ecco chi erano i fantasmi, due che scopavano. Quasi certamente una coppia clandestina. Ma come facevano ad avere le chiavi? Volevo vederli in faccia. Mi ficcai in tasca l’auricolare e camminai in fretta lungo il muro di cinta. Mi fermai sull’angolo a spiare... appena in tempo per vedere un uomo sui cinquanta e una ragazza che uscivano dal cancellino di servizio. Mi cascò la mascella. Li conoscevo tutti e due, anche se soltanto di vista.

Lui era vestito più o meno elegante, la ragazza aveva un vecchio cappotto scuro sulle spalle. Avanzarono lungo il sentiero che dal retro della villa scendeva in mezzo al bosco. Camminavano affiancati. La ragazza aveva il passo esitante, e teneva le braccia penzoloni. L’uomo le appoggiò una mano aperta sulla testa come se lei fosse una cosa sua.

Accesi la macchina digitale. Puntai, massimo zoom, click, click, click... Click silenziosi, che catturavano immagini ad alta definizione. Aspettai di vederli sparire tra i castagni e li seguii, tenendomi a distanza di sicurezza. Il sentiero era pieno di curve, non era difficile nascondersi. I raggi del sole filtravano tra le chiome degli alberi. Un’atmosfera molto suggestiva, adatta per due innamorati... ma non era quello il caso.

Mi riparai dietro un albero. Click, click, click, click... ma non ero ancora soddisfatto. L’uomo si voltava ogni tre secondi a guardare la ragazza, come se le stesse parlando. Lei teneva la testa bassa. Dopo qualche centinaio di metri intravidi sulla destra una macchina bianca, parcheggiata fra gli alberi. Più avanti il bosco s’interrompeva di colpo e cominciava un oliveto immenso, tagliato in due da una strada sterrata dritta come un palo. M’infilai tra i cespugli un secondo prima che i due si fermassero accanto alla macchina. Era una Punto. Nascosto dietro un ginepro puntai di nuovo l’obiettivo, sperando che almeno uno dei due si voltasse. Volevo fotografare le facce.

L’uomo aprì la portiera. La ragazza era ferma accanto a lui. Sfioravo il bottone della digitale come se fosse il grilletto di una pistola e avessi davanti un nazista. L’uomo si voltò per una frazione di secondo... Scattai, ma in ritardo. Lo vidi montare in macchina e tirare giù il finestrino, ma la sua faccia rimaneva sempre nascosta. La ragazza annuiva. Dopo una pacca sul sedere, l’uomo mise in moto e si allontanò stirando le marce. Quando diventò un puntino in mezzo alla polvere mi tirai un pugno in testa... che coglione, avrei potuto almeno fotografare la targa. La ragazza aspettò un paio di minuti, con le braccia penzoloni lungo i fianchi, poi s’incamminò verso l’oliveto.

Poteva sembrare una banale storia di corna o di prostituzione, ma sapevo bene che non era così. La ragazza era la bella minorata che vedevo spesso dalla Marinella.

(Continua)

 
 

(La Stampa.it)