"Non l’ha sbranata
Angiolino"

Vidi il suo corpicino disteso. Aveva le mani intrecciate sul seno e un rosario tra le dita.

«Stai bene, tesoro?». Mia madre mi baciò sulla guancia e mi toccò la fronte per sentire se avevo la febbre.

«Sono solo un po’ stanco, sto lavorando molto».

«Lavorando?» fece lei, sinceramente stupita. Per mia madre scrivere non era un lavoro, era un passatempo.

Non importava se vendevo migliaia di copie.

«Sto scrivendo un romanzo».

«Non può essere quello, hai un'aria così stanca...».

«Sto benissimo, mamma. Dov’è la zia?».

«Il babbo l’ha sistemata sul letto». La seguii lungo il corridoio, illuminato appena da una lampada a muro. Entrammo nella camera della zia e vidi il suo corpicino disteso sopra una coperta scura. Aveva le mani intrecciate sul seno e un rosario tra le dita. Sul comodino bruciava una candela.

La Bianchina era seduta in un cantuccio a pregare. Appena si accorse di me si alzò e mi venne incontro. Mi baciò sullo zigomo, lasciandomi un’impronta bagnata.

«Se n’è andata» disse, con le lacrime agli occhi.

«È in paradiso» dissi, purtroppo senza crederci. La Bianchina sorrise tristemente e tornò sulla sua sedia a pregare. Mi avvicinai alla zia. Sembrava che dormisse, anche se le guance le erano scivolate un po’ verso le orecchie. Aveva la labbra socchiuse, e dal naso le usciva un lungo pelo bianco.

Visto il suo passato di medium, mi aspettavo da un momento all’altro di vedere il suo spirito alzarsi in piedi e venirmi ad abbracciare. Le posai una mano sulla fronte, come avevo fatto con Franco, e quel gelo mi si attaccò alle dita. Il bisbiglio della Bianchina andava di pari passo con il tremolio della candela.

«Babbo dov’è?».

«È andato a fare due passi, adesso arriva». Come fosse stato evocato, mio padre arrivò. Sentii la porta d’ingresso che si apriva e i suoi passi decisi nel corridoio. Aveva settant’anni ma non li accettava.

«Ciao» disse, stritolandomi la mano.

«Hai avvertito gli zii?». Parlavo dei suoi fratelli.

«Giampiero è già passato, Marcello viene dopodomani per il funerale». Lo zio Marcello abitava a Roma.

Restammo in silenzio di fronte alla zia, uno accanto all’altro. Quel corpo immobile sul letto aveva qualcosa di assurdo. Era zia Cecilia, potevo toccarla... ma lei dov’era? Tra le sue labbra sbocciò una bolla di saliva bianca, simile alla bava di una lumaca.

«Vieni a dormire a casa?» disse mio padre. La mamma mi guardò, speranzosa. Alzai le spalle.

«Preferisco andare a casa mia».

«Fai come ti pare» disse mio padre, fissando la zia con le mani allacciate dietro la schiena. Non aveva mai digerito che la famiglia si fosse smembrata, cioè che a venticinque anni suo figlio fosse andato a vivere da solo. Era lui la vera chioccia della famiglia.

«Una volta tanto potresti anche dormire a casa» disse mia madre. Aspettava la mia risposta.

«E va bene, dormo a casa».

«Hai la tua camera, nessuno ti disturba». Era felice. Mio padre guardò l’ora.

«Bianchina, lei cosa fa? Vuole dormire da noi?».

«Faccio la veglia» disse la vecchietta, con un sorriso avvilito. Mio padre andò a darle una pacca sulla spalla.

«Noi andiamo. Domani ci sarà da fare...».

«Bianchina, non si strapazzi troppo» disse la mamma.

«Sto bene, sto bene» borbottò la Bianchina.

«Buonanotte...».

«Io resto ancora un po’» dissi.

«Hai le chiavi?».

«Sì».

«Non fare troppo tardi».

«No».

«Allora noi andiamo».

«A dopo».

«Non tornare troppo tardi...».

«No, mamma». Finalmente se ne andarono.

Portai una sedia accanto al letto funebre e mi sedetti. Mi ricordai della carezza di Camilla, e passai una mano sulla guancia di zia Cecilia. La Bianchina continuava a biascicare, persa nel suo mondo di preghiere. Era come se fossi da solo. Dalla fiamma della candela saliva a momenti una striscia sottile di fumo nero. Ero molto stanco, e mi si chiudevano gli occhi di continuo...

A un tratto zia Cecilia si tirò su, aiutandosi con le mani. Sbatté gli occhi e mosse le spalle come se fosse intorpidita. Mi sorrise.

«No Emilio, non è stato Angiolino a sbranare quella povera ragazza».

«Eh?».

«È stato un animale».

«Zia...». Mi svegliai. Dopo qualche secondo di smarrimento vidi la Bianchina piegata sul viso della zia, con gli occhi sgranati.

«Si è mossa» sussurrò.

«Non mi sembra» dissi, drizzandomi sulla schiena.

«Ha tirato su il capo, l’ho vista».

«Sarà stato un sogno...».

«No no, l’ho vista. Si è mossa».

«Bianchina, le dispiace se vado a casa? Sono molto stanco» dissi, alzandomi.

«Vada pure. Resto io con la signora».

«Non vuole andare un po’ a riposare?».

«Faccio la veglia» ripeté la Bianchina.

«Buonanotte». Le feci una carezza sui capelli stopposi. Salutai la zia con un cenno e me ne andai.

Arrivai a casa dei miei. Mia madre era in cucina a scaldare dell’acqua per una tisana. Aveva voglia di parlare. Rievocò qualche aneddoto sulla zia Cecilia, e mi aggiornò sulle disgrazie di amici e parenti. Poi mi parlò del figlio di una sua amica, un grande studioso che scriveva saggi importantissimi. (Non la robaccia che scrivevo io, aggiunsi da solo.)

«Ah, bene... e i suoi libri li hai letti?» dissi, fingendo che fosse una domanda innocente.

«Ancora no».

«Allora come fai a dire che sono saggi importantissimi?». Cosa mi stava succedendo? Mi sentivo un po’ acido.

«Lo sanno tutti» disse mia madre, come se fosse ovvio.

«Come si chiama?».

«Alcide Bonechi».

«Mai sentito nominare». Oddio, ero geloso.

«Questo che c’entra, tesoro? Tu non leggi mica quelle cose...».

«Certo che leggo quelle cose... Leggo anche libri di filosofia e di storia, se è per questo». Sapevo di essere antipatico. Con mio padre ormai mi sentivo in pace, con mia madre invece i giochi erano ancora aperti. Lei aveva letto solo il mio primo romanzo, o almeno ci aveva provato. A pagina cinque aveva chiuso il libro. Le era sembrato osceno, e mi aveva telefonato per dirmelo. Ci avevo riso sopra, anche con gli amici, ma a quanto pareva non avevo ancora digerito quello che a me era sembrato disprezzo.

«C’è nulla da mangiare?» dissi, per cambiare discorso.

«Ci sono le lasagne. Te le scaldo?».

«Posso fare io...».

«Ci vuole solo un minuto». Accese il forno e tirò fuori le lasagne dal frigo.

«Solo un pezzetto» dissi.

«Sentirai che buone».

«Non voglio andare a dormire con la pancia piena».

«Le ho fatte oggi a pranzo».

Mangiai un piatto enorme di lasagne, seduto a tavola davanti alla TV accesa. Mia madre era già andata a letto. Portai il piatto sporco in cucina e lo posai nell’acquaio, come quando ero ragazzo. Tornai nella stanza da pranzo con una bottiglia di grappa e aprii la finestra. Guardando un vecchio film di vampiri fumai una canna, con la stessa emozione di quando da ragazzino mi masturbavo in bagno con le foto in lingerie di Elsa Martinelli e di Barbara Bouchet...

Entrai in camera mia. Quanti secoli erano che non ci dormivo più? Qua e là si vedevano antichi residui dell’adolescenza. Adesivi mezzi strappati sulle ante dell’armadio, scritte a pennarello sui muri. Quanti sogni avevo fatto in quella stanza... Ricordare certe cose mi faceva sentire un vecchio appesantito dai rimpianti. Mi spogliai e m’infilai a letto... Zia Cecilia si era mossa per davvero o la Bianchina aveva avuto una visione?


(Continua)

 
 

(La Stampa.it)