Accesi la radio-spia
per ascoltare gli amanti

Dopo il funerale mangiammo tutti insieme a casa dai miei come a Natale.

Sabato mattina verso le undici, dopo una breve messa con pochi discorsi, accompagnammo zia Cecilia al cimitero di Pratolino, chiusa in una cassa modello base. C’erano i fratelli di mio padre con le mogli. I miei due cugini erano all’estero per lavoro. Non mi sarebbero mancati, li consideravo dei coglioni e loro pensavano lo stesso di me. L’unica cugina era in vacanza in Vietnam. Ero stato sempre un po’ innamorato di lei, e mi dispiaceva non rivederla.

I necrofori spinsero la zia dentro il loculo comunale. Un ragazzone con la faccia impassibile costruì in pochi minuti un muretto di mattoni, ci spalmò sopra uno strato di cemento e lo lisciò a lungo con la cazzuola, poi con un dito ci scrisse, Cecilia Marescalchi. Mia madre aveva portato dei fiori, e li sistemò alla meglio. Restammo qualche minuto a guardare il loculo, parlando della lapide da fare. Quando la carovana si mosse salutai mentalmente la zia, promettendole che prima o poi sarei tornato a trovarla.

Mangiammo tutti insieme a casa dei miei, come succedeva a Natale quando ero bambino. Dopo i primi minuti di mormorii diventò un pranzo come tutti gli altri. Si mangiava e si beveva di gusto, e si rideva. Avevo lasciato la TV accesa con l’audio muto, e quando vidi la sigla del TG1 mi scusai e alzai il volume.

«Voglio solo vedere una cosa, poi abbasso». Continuarono tutti a mangiare, sbirciando ogni tanto il televisore senza troppo interesse. Avevano voglia di chiacchierare. La terza notizia era su Maria Conti. Mia madre si rabbuiò, e il suo sopracciglio sinistro si mise a ballare.

«Non mi piace che te ne stai lassù tutto solo».

«Ssst... fammi sentire».

Gli inquirenti avevano fermato l’ex fidanzato e lo stavano interrogando. Si vedevano le immagini di una macchina della polizia accerchiata dai fotografi, con dentro un uomo che si nascondeva la faccia. Era ovvio che prima o poi lo avrebbero interrogato. Si partiva sempre dalle persone più vicine, era un passaggio obbligato... ma forse erano fuori strada. Forse la verità era sulle colline di Montesevero, dentro il convento delle Domenicane dello Spirito Santo. Forse. Oppure Angiolino era davvero un gigante buono che rimboccava le coperte alle galline, e ad ammazzare quella donna era stato un vero lupo mannaro... perché no. Da quando abitavo a Fontenera nulla riusciva più a stupirmi.

«Ora si può parlare?» disse mia madre, fissandomi.

«Di cosa?». Abbassai il volume.

«Vuoi continuare a vivere in quel posto pericoloso?». Anche tutti gli altri mi fissavano.

«Chi mi passa un altro pezzo di pollo?». Feci l’indifferente, aggiunsi un paio di battute sceme e in poco tempo tutto tornò come prima.

Finimmo di pranzare. Dopo il caffè mio padre e i suoi fratelli si misero a cantare vecchie canzoni sconce di quando erano ragazzi. Si vedevano di rado, e quasi mai tutti e tre insieme. Quella era un’occasione per giocare come bambini, ricordando il passato. Erano un po’ sbronzi, e le mogli li guardavano con tenerezza. Una scena che faceva quasi venire le lacrime agli occhi.

Quando mi alzai da tavola erano già le tre. Non ne potevo più di stare seduto a mangiare. Salutai gli zii, strinsi la mano a mio padre, baciai la mamma e finalmente me ne andai. Montare in macchina mi diede un grande senso di libertà.

Uscii con piacere da Firenze e imboccai la Chiantigiana. Guidavo con calma, anche per via dei numerosi autovelox. La città mi aveva un po’ disturbato. La visuale chiusa dai palazzi e le macchine in coda mi avevano fatto rimpiangere gli spazi aperti e l’aria pulita. Non avevo nemmeno telefonato agli amici. Sapevo che qualcuno mi avrebbe invitato a cena, e mi sarebbe dispiaciuto dire di no. Ma non mi andava di restare in città. Sentivo una sottile e forse assurda nostalgia della cascina di Fontenera, come se lassù avessi avuto le mie radici. Non vedevo l’ora di essere a casa mia.

Ripensavo a quei due giorni passati con i miei, che obbedivano a schemi ormai consolidati. Con mio padre parlavo solo di cose inutili, ma era il nostro modo di dirci quello che nessuno dei due avrebbe mai pronunciato. Con mia madre non era facile comunicare liberamente. Dietro le sue parole riverberava sempre qualcos’altro, di solito un’ammonizione o un comandamento divino. Era faticoso seguirla, e la lasciavo parlare pensando ad altro.

Era sabato. Camilla era a Torino, o almeno così aveva detto. Provai a chiamarla, ma il telefono era staccato. Chissà chi era quel tipo barbuto della fotografia. Non vedevo l’ora di chiederglielo.

Misi un CD di cori barocchi, a volume bassissimo. Stavo lentamente rientrando nel mio mondo. I pensieri andavano e venivano a caso, accompagnati da immagini... zia Cecilia distesa sul letto, appena illuminata dalla candela sul comodino... il suo nome scritto sul cemento fresco... Angiolino che si aggirava nei campi...

Rachele affacciata alla finestra... la vecchia Rondanini con il bastone... di nuovo Angiolino che dormiva sulla paglia a bocca aperta... le due monache con gli occhi stupiti... sempre sia lodato... la bella matta sexy che camminava nel bosco insieme al porco... Bella cavalla...

Arrivai a Fontenera poco dopo le quattro. Prima di andare a casa passai dalla Marinella per comprare qualcosa. Le eterne donnine in coda parlavano della povera Maria Conti, e fra i bisbigli sentii una frase che finiva con mannaro.

«E se fosse stato Angiolino?» dissi. Mi arrivò addosso una pioggia di occhiate sospettose. La Marinella fece un sospiro.

«Dodici e quarantacinque» disse, battendo sui tasti della cassa. Una vecchia aprì il borsellino e pagò con i soldi contati. Non dissi più nulla. Quando toccò a me comprai un pecorino magnifico e un po’ di pane, per la mia cena solitaria.

Tornai a casa. Misi il pecorino in frigo e uscii di nuovo per fare due passi. Mi erano mancate molto, quelle camminate. Tirava vento e mi chiusi il giubbotto. Mi spinsi lontano, in sentieri dove non ero mai passato. All’orizzonte le colline ricoperte di boschi erano viola, e capii finalmente come mai molti pittori toscani le avessero dipinte di quel colore assurdo. Ma quelle colline non erano solo viola, erano anche un covo di squilibrati.

Pensai alla vecchia Rondanini e alla sciagura che aveva colpito la sua famiglia. Negli ultimi giorni avevo lasciato un po’ in disparte quella faccenda, ma in realtà non se n’era mai andata dalla mia testa. Ero riuscito a scoprire chi era il gigante e avevo dato un volto ai fantasmi della villa. Di conseguenza avevo capito che la tragedia dei Rondanini era un mistero a sé, indipendente dagli altri.

Tornai a casa poco dopo il tramonto. Appena entrai in camera accesi il computer e il ricevitore della radio- spia. Non vedevo l’ora di sentire le voci degli «amanti» e di correre alla villa. La prima volta ero arrivato tardi perché stavo dormendo, ma se beccavo il momento in cui entravano avrei avuto tutto il tempo... Chissà se le batterie dei trasmettitori avevano ancora un po’ di autonomia. Avrei aspettato altri due o tre giorni, poi sarei andato a prenderle per caricarle.

Dopo aver avviato la lavatrice salii in camera per lavorare un po’. Lasciai da parte Orrore sulle colline. Sentivo il bisogno di un racconto nuovo, di cui non sapessi ancora nulla. Ne imboccai uno strano, dove il diavolo appariva nei vicoli di Firenze con le sembianze di un gobbo alto un metro. Mentre battevo sui tasti mi passavano veloci nella mente le immagini del funerale della zia...

(Continua)

 
 

(La Stampa.it)