Una nera notte di luna

Noir nel Chianti. La vecchia villa era disabitata da trent’anni
e custodiva il mistero di un orribile delitto. Di Marco Vichi.

La vecchia villa.Le mie giornate presero molto presto un ritmo quasi regolare. La mattina facevo spesso delle lunghe camminate là intorno. Il pomeriggio cercavo di scrivere o leggevo, ascoltando un po’ di musica. Quasi sempre classica, ma a volte anche il grande rock dei miei tempi. La sera guardavo qualcosa in TV, e se non c’era nulla di buono mi rimettevo al computer. Mi sentivo libero come l’aria. Fare lavatrici e stendere panni era quasi divertente. Ogni tanto spazzavo i pavimenti con la mia nuova scopa di saggina, magari pensando alla bella contadinella che mi aspettava nei campi.

Andavo a letto tardi e mi svegliavo a ore diverse, mai troppo presto. Quasi tutti i giorni mi chiamava mia madre per sapere se avevo freddo e se mangiavo bene. Non era molto originale, come mamma. Con i pochi amici che avevo comunicavo via mail. Ogni tanto di notte mi affacciavo a una finestra del primo piano e guardavo la luna, sospesa nel cielo nero punteggiato di stelle. Mi ero scordato che esistessero, le stelle. Una volta rimasi per quasi un’ora a guardare la luna piena, immensa e tranquilla, riuscendo a cogliere il suo movimento lentissimo, mentre in lontananza si sentiva l’ululato infelice di un cane. Un pomeriggio, dopo aver passato un’ora davanti alla tastiera senza toccarla, uscii con l’intenzione di fare una passeggiata più lunga del solito. Magari avrei finalmente incontrato la mia contadinella, ci saremmo rotolati nell’erba e avrei capito una volta per tutte il senso della vita.

La vendemmia era vicina, la campagna era piena di vespe e calabroni. Passando davanti alle case coloniche salutavo i contadini indaffarati, tutti sopra i sessanta. Continuai a salire verso la cima della collina, deciso a camminare fino a che non mi avessero fatto male le gambe. Più avanti la strada tagliava in due un oliveto immenso. Dopo un paio di chilometri di curve ricominciava il bosco, ancora più fitto, e la strada sterrata diventava più stretta... A un tratto sentii un rumore veloce di passi e mi bloccai sulle gambe, trattenendo il fiato. Un attimo dopo apparve una lepre. Mi correva incontro sul sentiero, e appena si accorse di me fece una frenata slittando sul terreno come nei cartoni animati. Poi saltò di lato e sparì fra i cespugli. Scoppiai a ridere, ma lo spavento mi aveva fatto venire l’affanno. Non mi sentivo più tranquillo come prima. Tornai indietro e affrettai il passo. Il bosco sembrava diverso... tutta colpa di quella lepre rincoglionita.

Lentamente riuscii a calmarmi. C’era ancora luce. Non avevo voglia di tornare a casa, e pensai di arrivare fino alla villa con la meridiana. Salii su per il sentiero erboso, respirando l’aria carica di odori. Dopo un po’ apparve la villa. L’ombra dell’enorme pino marittimo attraversava la facciata. Mi avvicinai al cancello, per la prima volta. La villa era ridotta male. Intonaci scrostati, grondaie penzoloni. Anche il giardino era in stato di abbandono. Vasi senza fiori e piante sfibrate. Accanto al muro c’era un gazebo arrugginito. Gli unici segni della presenza umana erano dei mucchi di foglie secche e l’erba tagliata. Mi staccai dal cancello, e costeggiando il muro del giardino andai sul retro della villa. Mi avvicinai a un cancellino stretto schermato da una lamiera, e dalle fessure vidi la stessa desolazione. Poco più in là, una minuscola cappella privata sporgeva dal muro di cinta. Di fronte, un fitto bosco di castagni e lecci scendeva leggermente sul fianco della collina, tagliato in due da un sentiero. Completai il giro e tornai davanti al cancello principale. Provai a spingerlo, e vidi che si apriva. Guidato da una forte curiosità entrai nel giardino. Non era come spiare da fuori, e mi sentivo a disagio. Trattenendo il fiato arrivai fino al portone della villa. Alzai gli occhi sulla facciata. Era la classica casa abitata dai fantasmi. Magari era proprio per quello che non ci abitava nessuno. Il sole stava scendendo. Lasciai perdere i fantasmi e mi avviai verso il cancello. In quel momento mi arrivò alle orecchie una specie di rantolo, e mi bloccai. Ne sentii un altro, più lungo. Istintivamente mi guardai intorno alla ricerca di un bastone, o di qualsiasi altra cosa che potesse servirmi a difendermi da un cane. Appoggiata al tronco di un cipresso vidi una zappa rugginosa e corsi a prenderla. A un tratto si alzò in aria un lamento. Una donna che si lagnava, o forse una bimba che cantava una canzoncina. Era difficile capirlo. La voce sembrava arrivare dal primo piano della villa, ma non ne ero sicuro. Mi allontanai camminando all’indietro, con la zappa stretta in mano. Mentre richiudevo il cancello sentii una specie di piagnucolio, e subito dopo le urla di un uomo. Non riuscivo a capire cosa dicesse, ma non dovevano essere paroline d’amore. Rimasi dietro le sbarre a guardare la villa. Ero sempre più convinto che le voci arrivassero da là dentro. Altro che disabitata.

Dopo un ultimo lamento tornò la pace. Era solo un brutto litigio fra marito e moglie, mi dicevo. Ma il cuore mi batteva svelto. Cominciai a trottare verso casa, con la zappa stretta in mano. Il sole era già sul filo dell’orizzonte, e sotto gli alberi stava diventando scuro. Mi voltavo di continuo a controllare il sentiero alle mie spalle. A momenti mi sembrava di sentire dei passi nel bosco, come se qualcuno mi stesse seguendo. Ma era solo suggestione, dovevo stare calmo. Il verso di una civetta mi fece affrettare il passo, e rallentai solo quando la strada uscì dal bosco. Vedevo già le case dei contadini con le finestre illuminate. Ero sudato, e mi sentivo un idiota. Buttai la zappa sul bordo della strada e mi uscì un sospiro. In città sentivo spesso i vicini che litigavano, ma non mi faceva nessun effetto. Anzi, in quei momenti mi ritenevo fortunato a non abitare con una donna. Quelle urla invece mi avevano impressionato, forse perché non me le aspettavo. Una banalissima battaglia coniugale, continuavo a ripetermi. Le coppie litigavano dappertutto, anche in campagna. Una luna a metà stava uscendo dal fianco di una collina, e affrettai di nuovo il passo. In lontananza si alzò il lamento di un animale. Non poteva che essere un cane, mi dicevo. Arrivai a casa e mi chiusi dietro la porta, facendo scorrere anche i paletti. Mi si sciolsero i muscoli. Salii in camera e mi affacciai alla finestra. La luna continuava a sbucare lentamente dalla collina di fronte. Accesi una sigaretta e mi misi a guardarla. Appena fu tutta fuori sentii di nuovo quel lungo lamento, lontanissimo. Forse era solo un cane, ma mi venne lo stesso la pelle d’oca. Di sicuro nel Chianti i lupi non c’erano. Tra gli olivi passò l’ombra di un grosso uccello notturno che andò a posarsi sopra un ramo, a una trentina di metri dalla casa. Due occhi gialli brillarono nel buio. Doveva essere un gufo.

Nella vallata echeggiò uno sparo, e per qualche secondo in lontananza si sentirono delle voci concitate. Dei cacciatori di frodo avevano ammazzato un cinghiale. Era una notte piuttosto movimentata. La pace della campagna non era sempre perfetta. Richiusi la finestra e andai in cucina a preparare qualcosa da mangiare. Dopo cena andai a sedermi davanti al computer con un bicchiere di vino. Mi misi a giocare al solitario, pensando alle voci della villa e cercando d’immaginare che faccia avessero quei due che avevo sentito litigare. La donna sembrava disperata, l’uomo inferocito. Brutta la gelosia, mi dissi. Un litigio del genere non si fa per la pasta scotta. Continuai a giocare fino a tardi, poi spensi tutto e andai a letto. Mancava ancora qualche giorno alla fine dell’estate, ma di notte ci voleva già una coperta. Non volevo piegarmi al gasolio prima che arrivasse l’autunno.

La mattina dopo mi svegliai molto presto, per colpa di un’erezione dolorosa che si calmò appena aprii gli occhi. Dedicai un pensiero alla contadinella ignota, sapendo che certi sogni sono belli finché rimangono sogni. In fondo non mi ci vedevo a rotolarmi nell’erba con una sconosciuta... senza contare che la contadinella più giovane che avevo visto nei dintorni aveva più di sessant’anni, a parte qualche bambina e la povera ragazzina minorata. Mi rigirai nel letto per un po’ cercando di riaddormentarmi. Alla fine mi alzai e ciondolai fino in cucina. Mi feci un caffè nero, e lo bevvi seduto sul divano davanti al camino spento. A vedermi da fuori potevo sembrare triste, ma sentivo nel sangue un’emozione piacevole, come quando si aspetta l’ora dell’appuntamento con una bella ragazza. Fuori c’era il sole. Mi vestii in fretta e andai a fare i soliti due passi. Di giorno la campagna era tutta un’altra cosa. Erano appena le otto, e l’aria era fresca. Ogni tanto alzavo gli occhi verso la collina boscosa che nascondeva la villa con la meridiana, ripensando a quelle voci. Di lontano vidi il vecchio contadino che mi aveva venduto l’olio. Stava montando sulla sua Punto bianca, con gesti lentissimi. Mi avvicinai alzando una mano. Lui chiuse la portiera, poi mi fece un cenno con la testa e mise in moto.

«Mi scusi...» dissi, avvicinandomi al finestrino. Lo schienale posteriore era abbassato, e la macchina era piena di cassette di frutta e verdura. Il contadino tirò giù il vetro, e mi chinai in avanti per guardarlo negli occhi. Sotto il cappello di paglia la sua faccia rugosa era immobile come un sasso.

«Mi scusi, conosce quella grande villa in mezzo al bosco? Quella con la meridiana?» Indicai la collina.

«E chi non la conosce?»

«Chi è che ci abita?» Aspettavo con impazienza la risposta. Il contadino alzò le spalle e ingranò la prima, senza dire nulla. Cercai di sorridere.

«È solo una curiosità» dissi.

«Come no...»

«Ieri sono andato a fare due passi sulla collina e...»

«Perché è andato lassù?»

«Per fare due passi... ho visto quella bella villa e...»

«Perché vuole sapere chi ci abita?»

«Passandoci accanto ho sentito un uomo e una donna che litigavano, e mi domandavo...»

«Strano» disse il contadino. «Sono più di trent’anni che non ci sta più nessuno.» Mi fissava. Mi accorsi che una vecchia mi stava osservando da una finestra del primo piano, e feci finta di nulla.

«Magari sono tornati» dissi al contadino.

«Non c’è verso.»

«Perché no?»

«Faccio tardi» disse lui, accennando al suo carico.

«Mi scusi, quando posso venire a comprare ancora un po’ d’olio?»

«Quanto ne vuole?»

«Cinque litri è possibile?»

«Fanno quaranta euri.»

Gli passai quaranta euro, fiducioso. Dicevano tutti che in campagna una parola data o una stretta di mano contavano ancora più di un contratto. Il contadino mise i soldi in un portafogli nero e gonfio, senza una parola. Mi salutò con un cenno del capo e partì. Appena arrivò sulla strada accelerò, alzando una nuvola di polvere. Mi voltai a guardare la cascina. La vecchia non c'era più. Avrei fatto volentieri qualche domanda anche a lei, ma decisi di lasciar perdere.

Tornai a casa, salii in macchina e andai a Fontenera. Mi fermai all'alimentari della Marinella. Come sempre era pieno di donnine mormoranti. Nessuno mi salutò.

Per uno come me, cresciuto in città, stare in coda in quel negozio era una specie di iniziazione alla vita di campagna, dove l'esistenza si basava ancora sul clima e sulle stagioni. Avevo anche imparato a considerare la pioggia come una benedizione, mentre in città era solo una rottura di scatole.

Quando arrivò il mio turno chiesi due etti di prosciutto crudo, e mentre la Marinella affettava buttai lì la solita domanda che avevo fatto al vecchio contadino.

«Mi scusi, conosce quella grande villa con la meridiana che c'è in mezzo al bosco?».

«Come tutti» fece lei, senza guardarmi. Nel negozio calò il silenzio.

«Chi ci abita?» chiesi. Sentii le donnine borbottare, e la Marinella mi fissò con i suoi occhi un po' storti.

«Non ci sta più nessuno» disse, scambiando occhiate con le donnine. «È molto strano» dissi esagerando il mio stupore.

«Perché strano?» disse una delle donnine. Avevo addosso gli occhi di tutto il negozio.

«Ieri pomeriggio sono andato lassù a fare due passi e ho sentito delle voci venire da dentro la villa» spiegai con calma.

«Quali voci?» disse la Marinella, unendo le sopracciglia.

«Sembravano un uomo e una donna».

«E cosa dicevano?».

«Non capivo le parole, ma ho avuto la sensazione che stessero litigando». Non volevo essere troppo categorico. La Marinella fece scorrere di nuovo lo sguardo sulle donnine, poi mi guardò.

«Sono più di trent'anni che non ci abita più nessuno» disse.

«L'erba del giardino sembra tagliata di fresco, e qualcuno ha rastrellato le foglie secche» obiettai.

«Ogni tanto ci va Alfiero a fare un po' di pulito, per ordine della padrona. Ma alla villa non ci sta più nessuno».

«Forse sono tornati da poco».

«Mi sembrerebbe molto strano» disse una vecchietta in coda. «Perché strano?».

«La signora non vuole più saperne di quella casa» disse Marinella.

«Come mai?».

«Brutte storie» tagliò corto lei. Mi incartò il prosciutto e mi domandò se volevo altro.

«Qualche panino, grazie. Che genere di storie?» dissi. Nessuna risposta.

«Chi è questa signora? Abita da queste parti?».

«Vuole altro?» fece la Marinella, pesando i panini.

«Due etti di pecorino stagionato. È successo qualcosa di brutto, in quella villa?» dissi. Lei mise i panini in un sacchetto di carta, poi si dedicò al pecorino.

«Serve altro?».

«No, grazie». Capii che avevo già saputo troppo. Pagai e uscii dal negozio, sentendo sulla schiena gli sguardi delle donnine e della Marinella.

Decisi di provare con Romero, l'uomo della legna. Montai in macchina e arrivai fino al suo deposito. Parcheggiai nel piazzale. Romero mi venne incontro con il suo sorriso muscolare.

«L'ha già bruciata tutta?».

«Non l'ho ancora toccata».

«Io gliel'avevo detto che era caldo...».

«Mi scusi, conosce la villa con la meridiana che c'è sulla collina?»

chiesi, per la terza volta nell'ultima mezz'ora.

«Quella disabitata?» fece lui.

«Già...».

«La conoscono tutti».

«Ho saputo che in quella villa è successo qualcosa di brutto...». «A quei tempi ero un ragazzino» disse lui. Sembrava l'inizio di una lunga storia, e aspettai il seguito. Ma Romero non parlava più. «Più di trent'anni fa, giusto?» dissi.

«Trentasei» fece lui.

«Ah...».

«Millenovecentosettanta» aggiunse Romero, e per un attimo mi tornò in mente l'atmosfera di quei tempi, quando sembrava ancora che il mondo potesse cambiare in meglio.

«Un sacco di tempo fa» dissi.

«Trentasei anni» ripeté lui.

«E cos'è che successe?».

«Una brutta storia».

«Un suicidio?».

«Anche...».

«Perché anche?».

«Perché c'è stato anche quello, ma dopo».

«E prima cos'è successo?» chiesi, convinto di essere a un passo dal sapere tutto.

«Non è una bella storia» fece lui, socchiudendo gli occhi.

«Me la racconti lo stesso...».

«Non vedo perché» disse Romero. Volevo cominciare un lavoro ai fianchi per farlo cedere, ma in quel momento arrivò un tipo grasso con le bretelle sulla canottiera.

«Romero, vieni a farti un bicchiere dal Piro?».

«Arrivo» disse Romero. Mi fece un cenno di saluto e se ne andò con il grassone. Niente da fare, nessuno mi diceva nulla. Ma non volevo arrendermi.

Ormai ogni volta che andavo a camminare passavo dalla villa con la meridiana. Entravo nel giardino e facevo un giro intorno alla casa, guardando le persiane chiuse. Ogni tanto mi capitava di vedere l'ombra di un gatto che fuggiva, ma gli unici rumori erano i versi degli uccelli che si rincorrevano nel bosco. Dopo qualche giorno ero già quasi convinto di non aver mai sentito quelle voci. Forse era stato il vento, mi dicevo, o magari qualche animale di là dal muro.

Ma un pomeriggio, mentre camminavo di fianco alla casa sentii di nuovo quelle voci. Mi bloccai, con le tempie che mi battevano. Tutto uguale all'altra volta. La donna che si lamentava e l'uomo che urlava, e ogni tanto quel rantolo cupo. Alzai gli occhi verso il primo piano, respirando appena. Le voci sembravano venire proprio dalle stanze della villa. Rimbombavano un po', e non era facile capire cosa dicessero. Anche questa volta sembrava che stessero litigando. Dalle vocali cercavo di ricostruire le parole, seguendo la mia fantasia.

«...nooo... nooo...» sembrava che dicesse la voce femminile.

«...vieni qua puttanaaaa» sembrava che urlasse l'uomo, ma non ne ero sicuro.

«...nooo... nooo... cattivo...».

Il rumore di un mobile che strusciava sul pavimento, e di nuovo quel rantolo.

«...nooo... nooo... cattivo...» continuava la donna, anche se ogni tanto mi sembrava quasi di sentirla ridacchiare. Dalla voce sembrava una ragazzina, ma non ci avrei scommesso. Dopo un attimo di smarrimento corsi fino al portone principale e ci picchiai sopra a mano aperta, due o tre volte. Le voci smisero all'istante. A quanto pareva mi avevano sentito. Bene. A costo di fare una brutta figura volevo chiarire quella faccenda una volta per tutte. Mi sarei scusato con i proprietari e avrei annunciato a tutto il paese che la villa non era per niente disabitata. Non vedevo l'ora di stupire le donnine in coda dalla Marinella. Tirai altri colpi alla porta, ma non venne nessuno. Bussai di nuovo. Silenzio. Voltai l'angolo della villa e tornai sotto la solita finestra. Non si sentiva volare una mosca. Chiamai a voce alta, ma non si affacciò nessuno. Tornai davanti al portone e bussai ancora. Niente. Non riuscivo a spiegarmelo. Eppure in casa doveva esserci per forza qualcuno. A meno che... quelle voci...

Sentii un brivido nella pancia, e un attimo dopo stavo già marciando verso il cancello. Che scemo, non dovevo lasciarmi suggestionare. Uscii dal giardino e me ne andai giù per il sentiero a passo svelto. Era un'idea assurda, ma non riuscivo a togliermela dalla testa: forse quelle che sentivo erano le voci di trentasei anni prima, quando era successa quella brutta cosa di cui nessuno voleva dirmi nulla...

Cazzate. I fantasmi non esistevano. Rallentai l'andatura e infilai le mani in tasca, con aria tranquilla. Stavo quasi per mettermi a fischiettare. Ma avevo ancora il cuore accelerato, e dopo un po' affrettai di nuovo il passo. Quella notte era luna nuova.

Nei giorni seguenti evitai la villa, e non chiesi più nulla a nessuno. Volevo dimenticare quella storia e cominciare finalmente a guadagnarmi il pane. Ma alle camminate non rinunciavo. Vagavo senza meta nei mille viottoli che attraversavano i boschi o i campi coltivati, passando accanto a vecchi pozzi di mattoni e a baracche per gli attrezzi. L'uva matura pesava sulle viti, e le olive erano già piuttosto grandi. Ogni tanto vedevo una biscia strisciare veloce sulle zolle screpolate dal sole, o una lepre che scappava.

Fare la spesa dalla Marinella mi piaceva sempre di più. Il suo negozio sembrava un centro di informazioni, come il barbiere o la Casa del Popolo. C'era un sacco di gente che andava e veniva, soprattutto vecchie contadine, e tutti parlavano con tutti. Origliando coglievo delle frasi compiute e cercavo di decifrarle, ma non ci riuscivo quasi mai. Parlavano sempre alludendo a qualcosa che non potevo conoscere.

Rividi spesso la bella ragazza minorata, e nonostante tutto mi piaceva starla a guardare. A volte entrava qualche persona importante, che le donnine salutavano con rispetto esagerato. Il direttore della filarmonica, un paio di assessori comunali, il medico del paese, e anche il vicesindaco di Montesevero, un tipo grasso sui cinquanta con la testa tonda e gli occhi piccoli che comprava enormi quantità di salumi. Ogni tanto appariva anche don Staccioni, con quello sguardo da anatema del Signore. Quando entrava lui le donne smettevano di chiacchierare, e ricominciavano appena se ne andava.

Una sera telefonai a Caterina, l'ultima ex, per invitarla a passare qualche giorno con me in quella bella casa sulle colline. Non so perché lo feci. Sapevo benissimo che non avrebbe accettato. La sua voce mi ricordò quella di un call center. Eravamo due estranei. Mi sembrava impossibile averci passato insieme quasi due anni. Non l'avrei chiamata mai più.

Una sera dopo cena uscii in macchina. Volevo fare un giro là intorno, per vedere la zona. Mi ero un po' stufato di passare le serate in casa. Imboccai la provinciale nella direzione opposta a Fontenera. La luna era già bella grande, alta nel cielo limpido, e i campi erano ricoperti da un velo di luce smorta. Nelle curve, davanti ai fari della macchina le ombre degli olivi si rincorrevano senza sosta. Mi aspettavo da un momento all'altro di trovarmi davanti un istrice o un cinghiale. Invece dietro una curva apparve una donna. Era ferma in mezzo alla strada e agitava le braccia. Accanto a lei c'era un'utilitaria scura parcheggiata in uno spiazzo erboso, con le quattro frecce che lampeggiavano. Mi fermai dietro la macchina e scesi.

«Ha bisogno d'aiuto?».

La donna mi venne incontro. Era molto carina, con i capelli neri corti e gli occhi frizzanti.

«Sono rimasta ferma» disse. Non aveva più di trent'anni. Jeans e camicetta.

«Posso dare un'occhiata».

«Grazie». Salii sulla sua macchina. Era una Fiesta piuttosto vecchia. Lei rimase fuori a guardarmi, piena di speranza. Provai a mettere in moto, ma la batteria era a terra. Il motorino di avviamento non faceva nemmeno un singhiozzo.

«Ci vorrebbero i cavi» dissi, scendendo.

«Quali cavi?».

«Per collegare le batterie... Ma purtroppo non li ho». Invece li avevo, ma non volevo perdere l'occasione di darle un passaggio.

«E adesso?» fece lei.

«Se vuole posso darle un passaggio» dissi. Nei suoi occhi vidi passare una domanda: posso fidarmi?

«Stavo andando da una paziente, sono un medico» disse.

«Posso accompagnarla».

«Non è che cercherà di stuprarmi?». Scherzava, ma non del tutto. Non potevo darle torto, con le brutte cose che succedevano.

«Non faccio più quelle cose, ne ho già violentate troppe» dissi, alzando le mani.

(Continua)

 

(La Stampa.it)