La pizza: il tricolore nel piatto
Bastano cento anni a costruire un'identità che tutti credono sia sempre esistita.

Di Claudio Bosio.
 

2 dicembre 2008. - La pizza è sempre esistita e non solo in Italia: la spianata di frumento cotta serviva in origine come luogo dove posare, carne, pesce o verdura, come tovaglia o piatto che poi si mangia.

È tuttora in atto un dibattito etimologico se la parola pizza derivi dal greco “pl)x”, plax, (superficie piana, schiacciata) o dal latino pinsa, dal participio passato pinsum (o pistum) del verbo latino pinsere, che significa schiacciare, pestare, ridurre in poltiglia).

Comunque, la pizza, questo gustosissimo e modernissimo alimento, ha più di 400 anni. Nasce infatti, intorno al 1600, dall'innegabile ingegno meridionale, bisognoso di rendere più appetibile e saporita la tradizionale schiacciata di pane: si trattava di pasta da pane, cotta in forno a legna, condita con aglio, strutto e sale grosso, oppure, nella versione più "ricca", con caciocavallo e basilico. Anche se ben presto l'olio si sostituì allo strutto, l'avvento della pizza moderna, avvenne quando si cominciò ad impiegare, come ingrediente, il  pomodoro.

Il pomodoro è nativo della zona compresa oggi tra i paesi del Messico e Perù. Gli aztechi lo chiamavano xitomatl, (con il termine tomatl indicavano vari frutti simili, in genere sugosi) e ne usavano la  salsa nella loro abituale cucina. La data del suo arrivo in Europa é l'anno 1540, quando cioè Hernán Cortés rientrò in patria e ne portò alcuni esemplari, da usarsi non come ortaggio commestibile, bensì come pianta ornamentale, ritenuta addirittura velenosa. (Da notare che gli stessi indigeni del Perù, i primi coltivatori del pomodoro, non ne mangiavano i frutti, ma lo consideravano una pianta ornamentale proprio i suoi frutti “color oro”). La tradizione vuole che, nel 1640, la nobiltà di Tolone abbia regalato al cardinale Richelieu, come atto di ossequio, quattro piante di pomodoro, e che, sempre in Francia, fosse usanza per gli uomini offrire piantine di pomodoro alle dame, come atto d’amor gentile. Al frutto del pomodoro (fatto non trascurabile) venivano attribuiti misteriosi poteri eccitanti ed afrodisiaci. Questo spiega i nomi che le varie lingue europee attribuirono a questa pianta del Nuovo Mondo: love apple in inglese, pomme d’amour in francese, Libesapfel in tedesco e pomo (o mela) d’oro in italiano, tutte definizioni con un esplicito riferimento all’amore. Ancor oggi, per altro, in certi paesi dell'interno della Sicilia, il pomodoro è indicato col nome di pùma-d'amùri. Va ricordato, per completezza, che altre fonti fanno risalire il nome ad una storpiatura dell’espressione pomo dei Mori, giacché il pomodoro appartiene alla stessa famiglia della melanzana (solanacee) l’ortaggio (a quei tempi) prediletto da tutto il mondo arabo. Oggi, con l’eccezione dell’italiano, le vecchie espressioni sono state sostituite in tutte le altre lingue da derivazioni dell’originario termine azteco tomatl.

Scarsissima è, d’altra parte, la documentazione relativa all’uso alimentare: le prime sporadiche segnalazioni di impiego, nel sud di Francia e Italia, del pomodoro come commestibile, fresco o spremuto e bollito, non si registrano prima della fine del XVII secolo. In Italia arrivò nel 1596 ma solo più tardi, trovando condizioni climatiche favorevoli nel sud del Paese, si verificò il viraggio dall’originario e caratteristico colore oro all'attuale rosso, che diede appunto il nome alla pianta, grazie a innesti successivi ed opportune  selezioni. Il pomodoro “nostrano” fu dapprima usato in cucina come salsa cotta, con l’aggiunta di un pò di sale e basilico. Per inciso, la prima industria conserviera meridionale, fu creata, a Napoli, nel 1875, dal torinese Francesco Cirio. Ecco perché la prima pizza "pomodoro e mozzarella" non fu reperibile in commercio prima della seconda metà dell’800.

Cosa sarebbe la gastronomia napoletana senza il sugo di pomodoro? Luciano de Crescenzio, napoletano verace, si esprime così:

«….una cucina a «luci rosse» per la presenza illuminante sulla nostra mensa di quel meraviglioso prodotto della natura, fatto a forma di lampadina, noto a tutti come il pomodoro sammarzano».

Dopo che i pizzaioli napoletani avevano già diffuso svariate qualità di pizza tra la popolazione, “nacque” (siamo esattamente nel 1889) la pizza ancor oggi più rinomata: la "Pizza Margherita". Quell’estate il re Umberto I con la regina Margherita, la trascorsero a Napoli, nella reggia di Capodimonte.
La regina era incuriosita dalla pizza che non aveva mai mangiato.
Ma non poteva andare lei in pizzeria: così toccò alla pizzeria andare da Lei; cioè fu chiamato a palazzo il più noto rinomato pizzaiuolo del tempo, “don” Raffaele Esposito. Costui, recatosi a Palazzo, utilizzando i forni delle cucine reali, assistito dalla moglie donna Rosa (che era poi vera creatrice delle pizze per cui il marito andava famoso) realizzò per i Reali tre pizze: una pizza alla Mastunicola (sugna cioè strutto, formaggio e basilico), una pizza alla Marinara (aglio, olio e pomodoro, origano) e una terza con mozzarella, pomodoro e basilico, cioè con i colori della bandiera italiana, che entusiasmoò in particolare la regina Margherita, e non solo per motivi patriottici. Don Raffaele, da bravo uomo di pubbliche relazioni, chiamò questa pizza " alla Margherita". E questa è la storia vera; solo che la pizza alla margherita o pizza margherita, come si incominciò a chiamarla, passava per una novità, una invenzione vera e propria, mentre si sa che esisteva già prima. A Napoli la si faceva già. Per esempio, per un'altra regina, la borbonica Maria Carolina, che di pizze era ghiotta, tanto che aveva voluto a corte, nel palazzo di San Ferdinando, un forno apposito.
Carolina amava molto quella pizza bianca, rossa e verde; ma forse, se avesse potuto immaginare che quelli sarebbero stati i colori dell'Italia unita sotto un'altra dinastia, che avrebbe cacciato la sua, non ne sarebbe stata più tanto entusiasta.......
Storicamente, le due pizze che hanno fatto più strada sono la cosiddetta napoletana uguale alla margherita ma con l'acciuga; e la stessa margherita. In ogni caso, la napoletanissima pizza si mise in marcia senza tregua:
attraversò l’Atlantico con gli emigranti e conquistò, inesorabilmente,
le Americhe. Un’ulteriore, portentosa espansione,“italiana” stavolta, avvenne dopo la seconda guerra mondiale. In questo periodo la pizza, emigrando dal meridione, sbarcò al nord dell’Italia. Infatti, con il boom industriale nel triangolo Milano, Torino, Genova, migliaia di emigranti si spostarono con le loro famiglie, trascinandosi dietro usi, costumi e piatti tipici
([1]). Incominciarono pian piano a fare le prime pizze per i compaesani e via via, con il successo ottenuto, anche per la gente del posto. Con il passare del tempo la “densità” di pizzerie si è capovolta, tanto che oggi sono più numerose nel Nord che in meridione d'Italia. Dal 1989, con la caduta del muro di Berlino, ebbe inizio una nuova migrazione verso l'Europa dell'Est: Russia, Polonia, Ungheria ecc. E quindi Medio Oriente, Giappone e persino Cina. Veramente una “marcia”trionfale”: effettivamente la pizza è divenuta un vero cibo nazionale ed è popolarissima ovunque all'estero, in modo speciale negli Stati Uniti, dove pare sia addirittura considerata un piatto autoctono: il critico gastronomico Davide Paolini racconta di un professore americano che, durante un convegno, si rivolse alla traduttrice per chiederle come si diceva pizza in italiano!

Oggi la pizza ha conquistato i consumatori di tutto il mondo, anche grazie alla sua versatilità; le combinazioni di ingredienti utilizzati per preparare questa pietanza sono ormai innumerevoli.

L'autentica pizza napoletana va realizzata con un impasto di farina di frumento, acqua e lievito, a cui si aggiungono pomodori San Marzano, mozzarella di bufala, olio extravergine di oliva, sale marino. La cottura va effettuata in forno refrattario alimentato a legna (preferibilmente di quercia e ulivo), a una temperatura compresa fra i 420 e i 480°C. Non è vero che la legna dona un aroma particolare: non vi è trasmissione di odori dalla legna alla pizza. La legna ideale è quella di ulivo perché compatta, con alto potere di produrre calore e capace di bruciare costantemente senza scoppiettare. L'importante è la temperatura di cottura, che deve essere alta: 400-500°C ed è questa che fa la differenza col forno elettrico e non i presunti aromi che si trasmetterebbero dalla legna alla pizza. Più è alta la temperatura più risulterà morbida la pizza e la mozzarella non uscirà cotta (marrone) ma solo sciolta (bianca e filante). Durante la cottura la parte del disco che non è coperta dal condimento si solleva leggermente, creando il cosiddetto cordone (o cornicione).

Purtroppo le pizze che consumiamo normalmente sono prodotti che rispettano poco queste regole; per esempio, spesso viene utilizzato il formaggio fuso e i pomodori non sono sempre all'altezza della situazione. Infine la cottura: la pizza deve avere una forma circolare, con bordo regolare, non rigonfio né bruciato e la parte centrale deve risultare morbida. La pizza contiene proteine (mozzarella), grassi (olio di oliva), carboidrati (farina di grano tenero) e si può ritenere perciò un piatto unico, da completare con un frutto o delle verdure cotte o crude.

Se il peso medio di una “pizza al piatto” è di circa 330 g, si può tener conto di un apporto di:

         110 g di carboidrati

         12 g di proteine

         11 g di grassi

ed un contenuto calorico suddiviso come segue:

·         Una pizza napoletana “al piatto” fornisce 520 kcal.

·         Una piza pomodoro e mozzarella, 540 kcal

·         Una pizza Margherita, 570 kcal.

·         Una pizza prosciutto e funghi, 700 kcal.

·         Una “4-stagioni”, 770 kcal.

Anche da questa lista è palese che la composizione nutritiva della pizza varia notevolmente a seconda degli ingredienti utilizzati e delle dimensioni. L'INRAN (Istituto Nazionale di Ricerca per gli Alimenti e la Nutrizione) ci dice che una pizza consumata in pizzeria arriva facilmente alle 1000 kcal: in realtà è sufficiente l’aggiunta di un cucchiaio di olio di oliva e l’impiego di una mozzarella più ricca di grassi per far lievitare anche di 150 calorie l’apporto complessivo del piatto.

Per le pizze surgelate è sufficiente leggere l'etichetta nutriziona­le, facendo però attenzione a non considerare solo i valori riferiti a 100 g di prodotto, ma le reali porzioni di consumo.

I vari tipi di denominazione della piazza, non sono usati concordemente in ogni luogo: per es. a Napoli si definisce napoletana l'edizione più semplice, con soli pomodori e origano, mentre si definisce Margherita quella con pomodori, mozzarella, basilico, che in altre regioni è detta invece napoletana. La pizza marinara preparata a Napoli non contiene frutti di mare, come si potrebbe pensare, ma solo pomodoro passato, aglio e origano. Il nome deriva dal fatto che gli ingredienti, facilmente conservabili, potevano essere portati dai marinai per preparare pizze nel corso dei loro lunghi viaggi.

Nata come pietanza povera, la pizza è oggi il prodotto più commercializzato e imitato della gastronomia globale. Sono ben 56 milioni i dischi di pasta che vengono preparati nelle 23.000 pizzerie italiane con un giro d’affari (relativo all’anno 2004) di 2,2 miliardi di euro. Per non parlare dei colossi americani: i titoli fumanti di Pizza Hut e Papa John's International appaiono da anni nel listino della Borsa di New York; ma, anche la più piccola Domino’s Pizza, ultima entrata a Wall Street, è un’azienda che può vantare 4,2 miliardi di dollari di fatturato e 7.400 punti vendita.

Fra le numerose catene di pizzerie; una delle maggiori “in franchising” è pizza Hut, la quale ha aperto propri ristoranti in 86 paesi del mondo.

Dal 1999 è attiva in Italia la catena Spizzico, collegata al marchio Autogrill, che propone un concetto a metà strada tra la pizzeria e il fast-food. La stessa società Autogrill, attraverso una società americana acquisita nel 1999, controlla indirettamente Pizza Hut, non presente in Italia.

In Spagna è popolare Telepizza, che effettua anche consegne a domicilio. La città con il più alto consumo di pizza nel mondo è la città di New York seguita da San Paolo in Brasile con 30 milioni di pizze al mese. In quest'ultima città le pizze hanno spesso guarnizioni derivanti dalla gastronomia locale, come il palmito e il catupiry, un formaggio cremoso.

Da rilevare, per concludere, una singolare … stranezza: la mozzarella di bufala, componente di pregio della pizza, effettivamente prodotta in Italia, è di circa 300 mila quintali/anno.

Ma, la mozzarella di bufala venduta annualmente in Italia risulta essere 700 mila quintali!!

C’è qualcosa che non quadra. Meglio non chiederci perché.


 

([1]) Fino al 1950 le uniche pizzerie si trovavano a Napoli, mentre nel resto d’Italia se ne contavano solo 10! Dagli italiani, anzi, è stata conosciuta grazie alla sua diffusione planetaria. Si potrebbe affermare, addirittura, che l’abbiano scoperta prima gli americani e poi gli italiani.