A tavola con Radetzki
Uno stralcio storico-gastronomico della Milano d'antan.
Di Claudio Bosio.

Giacomo Brogi. Ottagono della galleria Vittorio Emanuele a Milano.

 

3 febbraio 2009. - «…. mi voleo profitare di questo intermezzo per m’informarmi de tua salute e de nostra famiglia. Voleo sperare tuto beno ed ti prego davere cura de tua salute. Te abbazio mille volte…. ».

la destinataria di questa lettera, scritta in un italiano quanto mai approssimativo, è una prosperosa signora che, nel 1850, gestiva un’osteria a Milano, in via Borgospesso, (in centro città, nell’attuale, celebre “quadrilatero della moda”): Giuditta Meregalli (1806-1885), già lavandaia-stiratrice a Sesto San Giovanni. Il mittente è un anziano militare di 84 anni, dall’aspetto assai poco marziale. Ha le gambe corte e arcuate, il collo tozzo, il capo precocemente sguarnito, un naso camuso e “arrubinato”, è afflitto da una malcelata pinguedine.

Si tratta di Johann Joseph Wenzel Anton Franz Karl, conte di Radetz (1766-1858) meglio noto come il maresciallo Radetzky. La storiografia risorgimentale ci ha purtroppo tramandato un’immagine fasulla di questo longevo, grande soldato: quella del sanguinario forcaiolo, del caporalaccio ottuso, grossolano e brutale. In realtà era soltanto un servitore fedele del suo Paese, di cui non discuteva la causa. La sua situazione famigliare, per altro, non era, per l’epoca, così scandalosamente complicata. Aveva sposato, a 32 anni, nel 1798, la diciassettenne contessina Franziska Strassoldo, di origini friulane, dalla quale ebbe cinque maschi e tre femmine.

Non fu certo un matrimonio d’amore, tuttavia i suoi legami con la famiglia della moglie rimasero sempre affabilmente stabili. Il caso volle (o, meglio, grazie alla regia occulta del consigliere conte Pachta) che, intorno al 1835, (a 69 anni!), incontrasse la giovane (29 anni) Giuditta. E fu, subito, una “cosa seria”: questa donna, semplice e discreta, gli rimase accanto per più di vent'anni, sino alla fine dei suoi giorni e gli diede quattro figli (due maschi e due femmine). La sua presenza tacita, affettuosa e fedele, che aveva certo colmato il vuoto della vita famigliare del Feldmaresciallo, si vuole sia stato il più decisivo motivo dell’affetto di Radetzky per Milano.

La leggenda vuole che fu proprio Giuditta che ottenne dal potente e anziano amante che la città non venisse bombardata, dopo l'insurrezione del marzo 1848. Fatto si è che, durante le “5 giornate”, essendo stata presa prigioniera dagli insorti, fu difesa dallo stesso Carlo Cattaneo (« … non ha colpe e spesso s’operò per aiutare i milanesi….». Non le torsero un capello. Al confronto, Claretta Petacci è stata meno fortunata: altri milanesi, altri tempi e altre giornate! Non mancarono, nelle Cinque giornate, episodi di ferocia, di avidità. Li ritroviamo sempre quando si scatena una rabbia collettiva Poi avvenne, al ritorno di Radetzky vittorioso, che erompesse dalla folla la frase liberatoria: «Hinn stàa i sciuri», sono stati i signori. Radetzky finse di crederci e fu magnanimo, nel trionfo.

La Gazzetta di Milano, il giornale dei milanesi di allora, una volta tornati gli austriaci, nell’articolo di fondo, nel  fare una specie di consuntivo delle cinque giornate, concluse: “Il potere provvisorio è stato il più inetto che Milano abbia avuto, dal principio alla fine”. Tanto per rinfrescarci le idee, nel 1848, Karl Marx (1818-1883) aveva 30 anni suonati. Garibaldi (1807-1882) ne aveva 41 e da qualche tempo se ne stava in Sud-America a fare il guerrigliero; Mazzini (1805-1872) era uno splendido quarantatreenne. Camillo Benso Conte di Cavour (1810-1861), invece, di anni ne aveva 38 e solo 10 anni dopo avrebbe avuto il suo primo incarico come Presidente del Consiglio. Carlo Alberto (1798-1849), 50 anni, soprannominato Schaukelkönig, il Re-altalena, avrebbe finalmente promulgato al suo noto Statuto (8 febbraio).

Giovanni Maria Mastai Ferretti (1792-1878) aveva 56 anni, era Papa da 2 anni (avendo preso il nome di Pio IX) e si era rifugiato a Gaeta presso Ferdinando II delle Due Sicilie, essendo sfuggito agli insorti della Repubblica Romana, nottetempo e travestito da prete. Francesco Giuseppe (1830.1916), “Cecco Beppe”, era un giovanotto diciottenne. Quanto a Radetzky, aveva la bellezza di 82 anni. E li portava più che bene.

Era quel che si dice “un gran signore”, dal tratto ruvido ma generoso, anche se perpetuamente alle prese con problemi di bilancio, perché aveva le mani bucate. Il  demone segreto che lo insidiava era il debito. Debiti di gioco propriamente suoi, debiti mondani della moglie Franziska Romana, debiti di gozzoviglie dei dissoluti figli di primo letto. Ad ogni buon conto, “aiutò” sempre la sua «carissima Giuditta» (così iniziava le sue lettere a lei):  le passava una generoso assegno che negli ultimi anni di vita raggiunse i 37 napoleoni d’oro al mese (corrispondenti a circa 3000 € attuali, ma con una reale capacità d’acquisto decisamente più alta). Le pagava anche l’affitto: per circa 18 anni in via Borgospesso, poi in casa Verga, in quella che oggi si chiama via Bigli.

In realtà Radetzky, quella iena sanguinaria della retorica patriottarda, amava veramente Milano (secondo Stendall «una delle città più felici del mondo») e non solo per rispetto verso la sua Giuditta. In lei il nobile soldato non aveva certo trovato una dama di gusti coltivati né una esponente del grand goût,  ma una tenera amante, una avveduta confidente, una fantastica cuoca, che sapeva …. prenderlo per la gola, preparandogli sostanziosi piatti “meneghini”. In effetti, Radetzky era, letteralmente, un famelico mangiatore, onnivoro ed insaziabile.

Mangiava di tutto, in tutte le occasioni e … dappertutto: non faceva distinzione fra le comode mense di guarnigione, i saloni dell’alta società o le osterie. Non molto lontano dall'Ortica, dove era situata la polveriera, egli pranzava quotidianamente alla Trattoria dell'Oppio, insieme con i suoi ufficiali, deliziandoli (bandita ogni etichetta) con un repertorio ricchissimo di barzellette, di cui era abile narratore. Altra meta d'obbligo, la storica pasticceria Cova (quand'era in via Manzoni all'angolo con piazza Scala) fondata dall' ex soldato napoleonico Antonio Cova, dove pranzava seduto alla stessa tavola con ufficiali di grado, senza alcun sussiego né etichetta. Meno frequentemente lo si poteva incontrare, all’ora di pranzo, al Boeucc, "il buco", uno dei più antichi ristoranti milanesi, fondato alla fine del '600, allora sito in via Durini e quindi trasferito, nel 1932, in piazza Belgioioso.

Come Napoleone, era convinto che il soldato a pancia vuota fosse un pessimo combattente; e la regola la applicava innanzi tutto a se stesso. Il Feldmaresciallo non peccava di sciovinismo alimentare: era,come si usa dire, di bocca buona e fagocitava ogni cosa avesse sul piatto. Tuttavia i cibi che preferiva erano quelli casalinghi, sopra a tutti gli Specknödeln, grossi gnocchi di pane, arricchito da generosi pezzi di pancetta affumicata e serviti in brodo.

Prediligeva anche la minestra di riso con le cotiche, di altrettanto laboriosa digestione. Fra le pietanze preferiva i bolliti e il maiale arrosto, innaffiati da generose caraffate di vino tirolese o bordeaux. Invano il dr.Joseph von Wurzian, suo medico personale, cercava in tutti i modi di frenarne l’ingordigia: in assenza del medico, Radetzky, come un bambino goloso e disubbidiente, ne approfittava per rimpizzarsi. Con l’andar degli anni, alla fine del pasto, sempre pantagruelico e trangugiato con voracità spaventosa, gli capitava sempre più spesso di addormentarsi, russando (coram populi) come un contrabbasso. In questo contesto, la cucina di Giuditta, tipicamente milanese, non era certo sofisticata. Era una cucina saporita, in alcuni casi grassa.

Sarà stato per combattere il freddo che regnava nelle case fino agli inizi del ‘900. Sarà stato per osservanza della tradizione (di scarsa fantasia culinaria), certo è che la cucina meneghina è sempre stata piuttosto incline ai sapori forti sapori di origine mitteleuropea dove spesso convivono l'agro e il dolce, con poco rispetto per la digestione, e piatti di estrazione contadina a base di zucca o lenticchie. Non avendo Milano sbocchi sul mare, la sua cucina è essenzialmente di terra: i pesci rappresentano soprattutto una golosità come l’anguilla in carpione o i gamberi di fiume serviti con gli antipasti.

Quanto al condimento, al pari di quella francese, come grasso per cucinare e condire si usava il burro e non l’olio. Non famose ma buonissime alcune minestre milanesi: il minestrone naturalmente (senza la zucca, mantovana) ma ancor più la minestra di riso e prezzemolo coi fegatini, quello di riso e porri, o la zuppa di rane. Alla base di tutto un buon brodo, che il milanese (di allora e di oggi) vuol fatto con reale o costa della croce o cappel di prete di bovino, il più possibile maturo, e poi ristretto (brodon): Radetzky lo avrà certo provato con gli sbrofadei, una sorta di passatelli emiliani. Esistono mille leggende circa l’origine di alcuni dei piatti più tipici di questa cucina.

Si vuole, per esempio, che un tale Ughetto degli Antellari, nobile cavaliere milanese, che, innamoratosi della Adalgisa, figlia del panettiere Toni, si finse garzone e andò a lavorare nel suo negozio dove preparò, per la sua bella, il più famoso dolce natalizio, il panettone, al secolo Pan de Toni. E ancora si tramanda che un vetraio, con il pallino del giallo abbia deciso di dare un tocco di colore anche al risotto, aggiungendoci una spolverata di zafferano.

Ad ogni buon conto, in fatto di riso, Radetzky aveva solo l’imbarazzo della scelta;  il risotto, infatti era accoppiato con gli ingredienti più disparati: dagli asparagi (ris e spàrgitt), ai fagioli (risòtt coi borlòtt), al prezzemolo (ris e erborinn), fino alle rane (ris e ràn) e al vitello (ris e coràda). La Giuditta, certo, sapeva bene che, nel preparare il risotto allo zafferano, non si deve impiegare il vino, perché l’acidità di questo confligge con l’aroma, vivace ma delicato, dello zafferano.

Già ai tempi del Feldmaresciallo, il milanese non aveva “tempo da perdere”, neanche a tavola: ecco, allora, la cassoeûla, una zuppa di verdura (verza) e carne (salsiccia, piedini e cotenne, rigorosamente di maiale) come piatto unico, ricco e sostanzioso. Sempre per consumare velocemente il proprio pasto, era prassi invalsa quella di unire il riso agli ossibuchi, creando così il risotto con l’ossobuco, carne infarinata, rosolata nel burro e nel vino. Ma a darle quel qualcosa in più ecco la gremolada, un trito di prezzemolo, aglio e scorza di limone, sminuzzati finemente e poi bagnati da poche gocce d’olio, da adagiare sugli ossibuchi. Anche le zuppe erano numerose e variate. Le più comuni erano la zuppa di cipolle (supa de scigol), di verdure, il "pancott" (zuppa di pane raffermo) oppure la panada, minestra di pangrattato che compariva puntualmente in tavola il giorno di Pasqua. Numerosi anche i patiti del cereghìn, l’uovo all’occhio di bue, con contorno di asparagi «affogati» nel burro e nel formaggio. (L’"oeuf in cereghin", letteralmente “uova alla chierichetto”, era così chiamato perché il rosso al centro del bianco ricordava il collare rosso portato dai chierichetti di rito ambrosiano sopra la cotta bianca, durante la Messa). Spesso il cereghìn veniva mangiato in piedi, in osteria.

A Natale, la tradizione imponeva il pollìn de Natal, un tacchino con tanto di ripieno di prugne secche, mele ruggini e marroni arricchiti con pezzetti di salsiccia. Se finirlo il 25 dicembre era un’impresa, il pollìn ricompariva i giorni successivi per il rebattìn, la famigerata «ribattitura» degli avanzi.(Il termine "pollino", come a Milano sono chiamati i tacchini, era comunemente usato come appellativo per indicare i gendarmi austriaci, per il loro aspetto tronfio e impettito e i lunghi baffoni impomatati, che ricordano appunto l'altezzoso animale da cortile).Radetzky, milanese adottivo, sapeva bene quanto la carne fosse gradita ai suoi … concittadini. Prima di tutto il manzo, anche allora, amatissimo dai milanesi, che finiva inesorabilmente lesso o in umido. E, del resto, in una fredda giornata d’inverno cosa c’è di meglio di un piatto caldo e ricco? Ecco allora, come già accennato, la cassoeûla, uno stufato di cotenna, salsiccia, piedini, testina, puntine di maiale, verze, oppure il bollito misto (lingua, testina, spalla, culatta, coda di bue adulto) o la büsecca ([1]) (dall’austriaco butze viscere di vitello) che oggi è considerata un secondo mentre era originariamente minestra, una sinfonia di tre tipi di trippa (chiappa, foiolo e riccia o francese) o i rustìn negaa, nodini di vitello rosolati insieme alla pancetta e cucinati in salsa di vino bianco, o,ancora, i mondeghili, polpettine preparate con carne di manzo, mortadella e salsiccia.

Degno di menzione, a questo proposito, è anche il manzo a la Californiana (dal nome di una cascina vicino a Montevecchia), squisitezza a base di panna e aceto. Tra i dessert il maresciallo Radetzky  preferiva lo stracchino, di cui era ghiottissimo, e come dolce i "peladei" (castagne sbucciate e lessate). Comunque,  al termine del pranzo, se fosse stato indeciso fra un caffé e una cioccolata,  avrebbe potuto prendere una barbajada cioè un misto fra i due, “corretto”, a piacere, con rum o cognac. In alternativa poteva bere una resumada, fatta a base di caffé versato su un uovo sbattuto ben zuccherato, con la variante, ad libitum, del vino rosso al posto del caffè, oppre un sapajean (idem con vino rosso e succo di limone). Una menzione particolare, ovviamente, va dedicata alla famosa cotoletta, in milanese cuteleta, con la prima "e" chiusa e la seconda "e" più aperta che si può.

La denominazione milanese cuteleta viene citata dal Cherubini nel suo “Vocabolario Milanese italiano” del 1814 come voce derivata dal francese cotelette e definita: “carne costereccia degli animali ridotta in vivanda”. Sulla cutoletta, vanto dei cuochi milanesi, vi sono due scuole di pensiero: chi la pretende come autoctona, e chi la fa derivare dalla "wiener-schnitzel", cioè di scuola viennese. 

Circa la primogenitura della cotoletta, pare che il Maresciallo Radetzky ne abbia descritto la ricetta a Francesco Giuseppe, noto per la frugalità dei suoi pranzi, in un documento conservato nell’archivio di Stato di Vienna, in cui, oltre a ragguagliare l’Imperatore sulla situazione politica ed economica, raccontava che i milanesi sapevano preparare un piatto squisito: la costoletta intinta nell’uovo, impanata e fritta nel burro. In sintesi, per dirimere la diatriba, si può dire che, a differenza della Costoletta alla Milanese, la "similare" Wiener Schnitzel austriaca:

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è di fesa e quasi sempre di maiale e non di vitello come la milanese

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viene infarinata prima della cottura. Le milanesi no;

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è senz'osso, quindi può essere ottenuta da vari tagli

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come grasso di cottura si usa lo strutto invece del burro.

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è sottilissima, ben battuta e larghissima, passata nella farina, nell'uovo sbattuto e poi nel pangrattato, mentre le “nostre” devono essere alte quanto l'osso, poco battute e impanate passandole nell'uovo sbattuto e poi subito nel pangrattato.

È importante sottolineare che le “milanesi” si salano solo sul piatto di portata: il sale messo prima avrebbe sottratto, per sciogliersi, quell'umidità della carne che, conservata nel croccante involucro dell'impanatura, la mantiene morbida e permette, quando si taglia la carne, di vedere apparire "la goccia", senza la quale non è una vera costoletta alla milanese. Il ricciolo di carta bianca posto sull'osso non è solo una guarnizione ma un necessario riparo alle dita delle persone che mangiavano in passato alla …. "Enrico VIII", brandendola per il "manico" ed evitando così di ungersi le dita 

Tornando, in fine, alla “cuoca” Giuditta Meregalli, non si sa che fine abbia fatto. Milano l’ha praticamente ignorata. Così come, specie alle esequie, ignorò il grande vegliardo Feldmaresciallo Radetzky. Tanto poco fu amato dai milanesi, tanto lui si era invaghito di Milano, al punto da morirvi come ospite … recidivo. Tant’è. Dell’orgoglioso, testardo, tenace Radetzky stiamo parlando ancor oggi, dell’impero che si dissanguerà dissipandosi nella Grande Guerra, si ha, semmai, soltanto un pallido e malinconico ricordo.


 

([1]) I milanesi chiamano "il büsecca" il mangiatore di trippa. Per i pavesi, però, le cose sono un po’ diverse. Infatti, nel 1152, quando il Grande Barbarossa assediò e distrusse la superba e forte Milano., si distinsero nella distruzione delle mura meneghine i Lodigiani ed i Pavesi. Non contenti della schiacciante vittoria, i primi chiesero all’imperatore di trafugare le reliquie dei Re Magi, che dalla chiesa di Sant’Eustorgio furono trasferite al duomo di Colonia dove sono tuttora conservate, mentre i secondi istigarono il Federico a umiliare i maggiorenti della città distrutta. L’imperatore, non potendo non accontentare i Pavesi, umiliò i capi milanesi obbligandoli a baciare, meglio a leccare, il sottocoda del suo cavallo. Da qui il termine büsleccun, che, per i Pavesi, andrebbe scritto come büs leccun !