Massimo Mila, caro Zio Pavese
con la Pivano punisci te stesso

Dagli archivi dell'Einaudi le lettere inedite
(non solo) editoriali del musicologo.

Massimo Mila è morto a Trino iil 26 dicembre 1988, dove era nato nel 1910.15 dicembre 2010. - Nel giornale di segreteria dell’Einaudi c’è un appunto dal titolo «Vivo per miracolo», del 18 giugno 1946. «Mila - vi si legge - domenica è andato in montagna e ha fatto un salto di 25 metri rischiando di rompersi l’osso del collo, ma si è soltanto lussato un ginocchio.

Ne avrà forse per una ventina di giorni». È già un ritratto del grande musicologo. Rischiare l’osso del collo era una delle sue attività preferite, anche intellettualmente.

E lo dimostrò nel lavoro apparentemente secondario per quanto riguarda la sua biografia, e per certi aspetti persino segreto, che svolse nella casa editrice prima come dipendente, anzi quasi subito condirettore della sede torinese dal ’43 al ’46, e poi come consulente, dal ’50 sino alla morte. Ora l’Einaudi pubblica le sue Lettere editoriali, plaquette natalizia - come d’uso si tratta di un volume fuori commercio - a cura di Tommaso Munari, che ne ripercorre la lunga avventura editoriale.

Mila era un grande studioso, un appassionato di montagna, e anche un uomo di carattere, che non si tirava certo indietro dalle battaglie. Nemmeno da quelle amorose: c’è nella corrispondenza con l’amico Cesare Pavese, fra tanti libri proposti e discussi, programmi editoriali, resoconti d’ufficio, giudizi folgoranti, anche un capitolo dedicato all’infelice passione dello scrittore per l’ex allieva Fernanda Pivano, iniziata con la traduzione dell’Antologia di Spoon River. Mila non l’ha particolarmente in simpatia, a un certo punto la chiama «la bizzosa», ma offre i suoi servigi per tentare un riavvicinamento a tutto vantaggio dell’heautontimoroumenos, come definisce affettuosamente l’amico citando la nota commedia di Terenzio sul «punitore di se stesso». Tutto finisce in disastro; ma per il musicologo, che lascia intendere d’avere anche lui qualche cadavere nell’armadio in quei giorni frenetici del 1945, fare il punitore di se stesso resta «la specie peggiore di mattana».

Mila sa essere insieme bonario, affettuoso e sarcastico. E poi c’è tanto lavoro. La sua area sarebbe la letteratura tedesca, ma legge di tutto. Nel ’42 propone un’edizione del Sogno di Polifilo - la celebre Hypnerotomachia Poliphili, considerata per le incisioni il libro più bello del Rinascimento - spiegando che «è una curiosissima operetta della fine del ‘400, con artifici verbali e trucchi linguistici, che ne fanno una specie di anticipazione classico-umanistica di Joyce». Nel ’45 consiglia «tutta l’opera in genere» di Evelyn Waugh, e non solo Ritorno a Brideshead. Tiene baldamente testa a Carlo Muscetta sugli accenti dell’endecasillabo, a proposito di una discutibile traduzione poetica di Giuseppina Lombardo Radice, ma soprattutto si scontra senza se e senza ma con Vittorini e il suo Politecnico.

«Non ho nessuna voglia di avallare, anche solo per complicità indiretta, l’eruzione di materialismo storico che ci riporta culturalmente al 1880, quando si scambiavano Marx e Engels per grandi filosofi, della statura di Hegel e Kant» scrive a Pavese. Poi, dopo aver ritirato un articolo, dice allo stesso Vittorini: «Grazie, e tanti affettuosi auguri per il Politecnico, del quale tuttavia non condivido il materialismo “nu, cru et vert”». Se ne va, per tornare come consulente. Resta legato all’idea del Partito d’Azione (tanto da caldeggiare presso Giulio Einaudi l’assunzione part-time a Torino di Vittorio Foa, perché possa «far politica»), e resta in minoranza. Ma soprattutto resta, legatissimo per tutta la vita, einaudiano a oltranza.

 

(la stampa)

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