La città che voleva volare
L'Aquila - Un'intensa riflessione di Patrizia Tocci, scrittrice e poeta.

23 aprile 2009.- L’ho vista dal finestrino di un camper, la città che voleva volare. L’ho sentita e vista tremare, nella notte. I lampioni che si muovevano, in una danza macabra. L’atmosfera rossastra, infernale. Una polvere sottile ed alta impediva persino di capire cosa non c’era più. Mutato improvvisamente il profilo, mancavano dei campanili, c’erano dei vuoti ma la notte oscura proteggeva cullando la paura, che cresceva e montava come un mal di mare, il terreno all’improvviso diventato liquido. La paura per i cari, per gli altri, per tutto.

Una sensazione di perdita dell’equilibrio, qualcosa di atavico che scatta: contemporaneamente i sensi tutti all’erta e un ottundimento. Con la prima luce dell’alba, l’evidenza del disastro, la colonna sonora delle ambulanze, degli elicotteri , delle sirene, la ricerca spasmodica dei familiari, degli amici. L’Aquila, un’aquila con le ali spalancate, la città sopra la collina. Voglio pensarla così, la mia città. Una città sospesa. C’erano, fino a qualche anno fa due aquile in gabbia, dentro una specie di piccola grotta, sulla strada del vecchio ospedale civile. Tutti gli aquilani le ricorderanno. Metafora e simbolo della città. Perché questa città, invece deve “restare a terra”, ingabbiata, ferita. Ma qui, su questa collina dalla quale ha tentato altre volte di prendere il volo. Non la lasceremo volare. Le cureremo le ali spezzate, le zampe ferite, ma solo a patto che resti dov’è prigioniera dei nostri sogni e delle nostre paure, e che la sua gabbia diventi la nostra salvezza. La città sospesa, non la città fantasma. Certo molte vite perdute, certo le strade tutte vuote, certo le macerie. I sogni custoditi dalle case anch’esse in frantumi e sbriciolate. I palazzi lesionati e sventrati.

E’ stata una via crucis di ricordi, mentre camminavamo in fila indiana in Via Garibaldi, al centro della strada vuota e con gli elmetti sulla testa; un pellegrinaggio silenzioso. I vigili del fuoco – ragazzi e uomini rudi e gentili - a farci compagnia e a guidarci come si fa con i piccoli scolari a cui si vuole bene, discreti, attenti, vigili; perché saremmo rimasti ore dentro le case a prendere l’utile e l’inutile, con il rischio di mettere a repentaglio la nostra vita e la loro. Voglio ringraziare Raffaele, un vigile di Pisa. Non so altro di lui. Ma la sua stretta di mano e la reciproca commozione mi basterà per molto. Uno per tutti quelli che in questi giorni ci hanno aiutato, sorretto, capito, ascoltato. Perché in questi momenti si diventa davvero un “ ci” un noi; la mia gente aquilana, fiera e caparbia, che cela le emozioni, nasconde le lacrime e si sottrae alle telecamere, nasconde il dolore o lo comunica con poche parole. Tutte le persone che abbiamo incontrato; poche parole, una stretta di mano, la lista dei lutti, la casa, “ tutto bene e adesso dove vai… ?” Tra le tante, due immagini conservo: una ciabatta impolverata, una sola, che qualcuno aveva pietosamente messo su un muretto e un gatto macilento a cui abbiamo dato dell’acqua. Ci sarà tempo per i ricordi e per elaborare tutto questo. Non è ancora il momento. Quella ciabatta sapeva di casa e di fuga. Anche lei spaiata e disorientata, anche lei in cerca dell’altra di sé. Manca tutta una parte della mia identità: le cose, gli odori, i rumori e i suoni, le piccole abitudini quotidiane, le certezze. Ma se i simboli hanno un senso, L’Aquila deve restare così com’è nel gonfalone della nostra città. Ferma, con le ali spalancate sulla collina. Incatenata a terra da uomini resi più saggi dal dolore. Fissata con sapienza alla terra, nei piloni delle sue stanze, nelle fondamenta. Il gatto magro ma vivo, a guardia della casa. Ricostruiremo le case della nostra città. Riempiremo le strade e le finestre, apriremo saracinesche e vetrine. Torneremo, come dopo una lunga transumanza. Siamo abituati alle lunghe attese e a vivere sobriamente. Voglio dedicare a Giustino Parisse e a sua moglie questi pensieri, a quell’ immenso dolore. A tutti quelli che in questo momento soffrono, spaesati, lontani, divisi. A tutti quelli che lottano perché la nostra città resti dov’è e come era.

 

Patrizia Tocci


Patrizia Tocci è nata a Verrecchie (L’Aquila) nel 1959. Si è laureata in filosofia alla Sapienza di Roma. Insegna materie letterarie negli istituti superiori.

Ha pubblicato Un paese ci vuole, l’Aquila 1990 (prose e poesie) con introduzione di Vittoriano Giannangeli e Pietra serena, Chieti 2000 con introduzione di Anna Ventura. Una silloge inedita è stata pubblicata, con il commento di Angelo Fabrizi, sul n. 1 anno 2003 di «Caffè Michelangiolo».

Tra i segnalati al premio «Eugenio Montale», Patrizia Tocci ha vinto il primo premio "Marianna Fiorenzi" per una poesia d’amore, con giuria presieduta da Cesare Garboli. Patrizia Tocci è infine studiosa di Laudomia Bonanni, scrittrice aquilana tra i grandi della letteratura del Novecento.