«Tutto è follia in questo mondo,
fuorché il folleggiare.
Tutto è degno di riso,
fuorché il ridersi di tutto»

Leopardi, Zibaldone.

 

6 febbraio 2013 - «Semel in anno licet insanire», diceva Seneca (De tranquillitate animi, 17,10). E lo ribadiva lo stesso Sant’Agostino: «Tolerabile est semel anno insanire» (De civitate dei”, VI, 10).

Una volta all’anno è lecito darsi alla pazza gioia.

E noi, uomini del XXI secolo? La pensiamo allo stesso modo: in particolari momenti e in determinate circostanze, uno strappo alla regola non è una cosa, tutto sommato, disdicevole, anzi è ammissibile.

Una volta tanto, trasgredire alla morale, fa … bene al morale!

Comunque, questa antica locuzione latina si rifà in particolar modo alla celebrazione del Carnevale, vero rito collettivo che ricorre in tutte le culture occidentali.
 

Arlecchino.
 

«A Carnevale ogni scherzo vale», asserisce la tradizione popolare italiana. In questo periodo di ogni anno, molti di noi si sentono, per così dire, autorizzati a contravvenire ad alcune delle diverse convenzioni sociali e religiose e a comportarsi come se fossero altre persone. Anzi, proprio per sembrare anche visivamente altre persone, molti di noi —e non solo i bambini— si travestono, indossando costumi sgargianti e nascondendo la propria identità dietro ad una maschera.

Il termine Carnevale, è risaputo, deriva dal latino carnem levare, che significa letteralmente eliminare la carne. Questa rigorosa prescrizione, cioè l’astenersi dal mangiar carne, era stata deliberata e imposta dalla Chiesa medievale. Entrava in vigore dal primo giorno di Quaresima (dal tardo latino quadragèsima, sottinteso dies, giorno, cioè il 40° giorno prima di Pasqua) e durava sino al giovedì santo.

Nell’attesa di questo triste periodo di penitenza, sobrietà e magra (anche se in verità erano pochi coloro che potevano normalmente concedersi un pasto a base di carne) la gente si rimpinzava più che poteva. In effetti, la storia del Carnevale è una storia di eccessi: mangiare e bere in modo smodato, folleggiare per strada allestendo carri multicolori, inscenare battaglie tragicomiche a base di lanci di frutta e dolciumi, in un tripudio di canti e balli sino a notte fonda… In altre parole, far bisboccia, tentando di affogare in pochi giorni di baldoria i problemi della vita quotidiana.

Le origini del Carnevale sembrano collocarsi molto lontane nel tempo: si vuole risalgano ai Saturnali latini, quando cioè i romani si riversavano nelle strade cantando ed osannando Saturno, il padre degli Dei. Durante questi festeggiamenti ogni rapporto gerarchico veniva sovvertito perché nobili e plebei si confondevano volutamente in una inversione di comportamenti e di abbigliamenti; l’uso della maschera è più tardivo: venne preso in prestito dai Baccanali (festività in onore di Bacco) allo scopo di non essere riconosciuti durante le tante … licenze troppo ardite. Poi arrivò il Cristianesimo che smussò gradatamente, anche se non totalmente, i comportamenti carnascialeschi più smodati e trasgressivi. Con l’avvento del Rinascimento, il Carnevale fece un ingresso imponente presso le diverse e numerosissime Corti europee. In questi ambienti, i festeggiamenti divennero più eleganti e più raffinati. Si collegarono con il teatro, la danza e la musica, ma non persero mai il tradizionale indulgere ai piaceri materiali, come ben descritto dai versi di Lorenzo il Magnifico «chi vuol esser lieto, sia: del doman non v'è certezza... ».  

Questo Carnevale, per così dire, d’alto lignaggio, prosperò in modo tutto particolare nella Venezia del 600-700, che venne ad essere la patria dei costumi e della scostumatezza.

Si vuole che le prime maschere veneziane (in tela cerata, chiamate larve) siano state …. importate da Costantinopoli, nel 1200 circa, dal famoso Doge Enrico Dandolo [1], prendendo a modello la benda di velluto forata agli occhi con la quale le donne turche usavano coprirsi il volto.

La parola maschera ha un etimo incerto. Alcuni pensano derivi dall’arabo maschara o mascharat, buffonata, assorbita nel linguaggio medievale durante crociate.

Altri sostengono più semplicemente che provenga dal latino medievale màsca, strega.

Celeberrime sono le maschere italiane nate con la Commedia dell’Arte, così chiamata perché i suoi interpreti, per la prima volta dopo un millennio e più, erano artisti di mestiere, cioè professionisti.

Le storie rappresentate, erano quelle dell'eterno repertorio comico, affidate a un piccolissimo numero di personaggi, sempre gli stessi.

Questi personaggi erano (e sono) le maschere che anche noi ben conosciamo: Arlecchino, Brighella, Colombina, Pantalone, Pulcinella, Stenterello ecc., personaggi che sapevano far rideregli spettatori con una serie farsesca di smargiassate, di bravate, di arguzie.

A Venezia, però, c’era una maschera che non era una maschera.

Non era nata dalla commedia dell’arte e neppure era un travestimento di Carnevale. Era una divisa particolare (creata apposta da un medico francese, un certo Charles de Lormar) che i medici erano obbligati a portare durante le pestilenze.

Era detta come la maschera dello speziale. Consisteva in una lunga tunica nera, stivaloni, guanti, cuffia e cappello (tutta roba cerata e impermeabile) ed era completata da una strana maschera bianca, con gli occhi protetti da grosse lenti, e con un naso prominente e appuntito, simile ad un becco adunco. Questo enorme naso veniva riempito di erbe e spezie medicamentose che servivano a coprire i miasmi emanati dai corpi degli appestati e (così si pensava) a proteggere dal contagio per inalazione dell’aria fetida. I veneziani, indubbiamente gente di notevole spirito, chiamavano questi tristi figuri dall’aspetto di corvi dal becco giallo, i beccamorti.  

A Venezia, questo è certo, le maschere trovarono assoluta egemonia in strada. In breve tempo, nell’occasione del sempre più scatenato Carnevale, le maschere  invasero le calli e le piazzette, abbandonando i loro paludamenti teatrali. Anche se il Carnevale, vanto della Serenissima, affonda effettivamente le sue radici nel teatro dei personaggi della Commedia dell’Arte, il mettersi in maschera (fosse solo per recarsi al casinò o ad un incontro con amici) diventò via via una abitudine consolidata e tipica della città lagunare.

In questo contesto, le abili mani dei mascareri creeranno la Bauta, la maschera più tipica di Venezia. Indossava lo zendale, una mantellina nera lunga fin quasi alla vita a coprire la testa e le spalle, e portava il cappello a tricorno e la maschera, detta anch’essa Bauta, in un trinomio indissolubile.

Oggi, nel nostro Paese, dopo alterne vicende di gloria e decadenza, le manifestazioni carnevalesche sembra abbiano ripreso un certo vigore. Ma, ahinoi!, più che un sincero recupero di tradizioni popolari, da lungo tempo dimenticate, rappresentano in realtà il risultato di una sapiente attività imprenditoriale, dove il business diventa il volano per iniziative turistiche più o meno valide.

La tradizione del Carnevale, nel senso di usanze, costumi, modi di vita, è indubbiamente in crisi di identità. Il fatto è che, questa tradizione, l’abbiamo ereditata, non acquisita. Non ci è costata niente. Neppure un briciolo di fatica. Quindi, non ci è parso la pena di conservarla intatta e inalterata.

Fatalmente, il Carnevale di un tempo, vivo di vita vera, lo abbiamo ormai trasfigurato in un volgare pagliaccio di cartapesta.

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[1] Giunse al dogato ad oltre ottant'anni. Le sue qualità politiche risaltarono in occasione della 4a Crociata. Infatti, non avendo potuto i Crociati pagare a Venezia il nolo delle navi, Dandolo "usò", con successo e malgrado la scomunica papale, le truppe crociate come fossero un esercito della Serenissima. Prima contro la ribelle Zara e poi contro Costantinopoli. Fu lui che portò a Venezia i famosi cavalli bronzei, esposti (in copia) sul frontale di S.Marco. Morì all'età di 98 anni e fu sepolto nella grande basilica di Santa Sofia, a Costantinopoli. Dopo la conquista della città da parte dei turchi, nel 1453, si dice che la sua tomba venne violata e le sue ossa furono gettate in pasto ai cani.

 

(claudio bosio / puntodincontro / traduzione allo spagnolo di carla acosta villavicencio e massimo barzizza)

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«Todo es una locura en este mundo,
excepto el comportarse como loco.
Todo es digno de risa,
excepto
el reírse de todo».

Giacomo Leopardi, Zibaldone de pensamientos

 

6 de febrero de 2013 - «Semel in anno, licet insanire» decía Séneca  (De tranquillitate animi, 17,10). Y lo confirmaba el mismo San Agustín: «Tolerabile est semel anno insanire» (De civitate dei”, VI, 10).

Una vez al año está permitido entregarse a la locura.

Y nosotros, seres humanos del siglo XXI, pensamos de la misma manera: en momentos específicos y en determinadas circunstancias, una excepción a la regla no es cosa impropia y es, de hecho, admisible.

De vez en cuando, transgredir a la moral... ¡Hace bien a la moral!

Pero esta frase latina se refiere en particular la celebración del Carnaval, un verdadero rito colectivo de todas las culturas occidentales.
 

Arlequín.
 

«En tiempo de Carnaval, cualquier broma está permitida», asegura la tradición popular italiana. En este período de cada año, muchos se sienten, por así decirlo, autorizados a quebrantar algunas convenciones sociales y religiosas y a comportarse como si fueran otras personas. De hecho, para parecer también visualmente otras personas, mucha gente —y no solo niños— se disfraza con vestuarios  brillantes escondiendo la identidad detrás de una máscara.

La palabra “Carnaval”, deriva del latín Carnem levare, que significa literalmente “eliminar la carne”.

Esta rigurosa prohibición, la de abstenerse de comer carne, fue establecida e impuesta por la Iglesia medieval. Entraba en vigor desde el primer día de la cuaresma (del latín tardío quadragesima —sobreentendiendo dies— es decir, el día 40 antes de la pascua) y duraba hasta el jueves santo.

En espera de este triste período de penitencia, sobriedad y carencias (aunque en realidad eran pocos los que podían concederse regularmente un platillo a base de carne), la gente engullía todo lo que podía. De hecho, la historia del Carnaval es una historia de excesos: comer y beber de manera desmedida, festejar por las calles en carros multicolores, simular batallas tragicómicas lanzado frutas y dulces en una fiesta de cantos y bailes hasta altas horas de la noche. En otras palabras, celebrar tratando de desahogar —a lo largo de unos cuantos días de juerga— los problemas cotidianos.

Los inicios del carnaval, al parecer, se remontan muchos años atrás. Se presume que tiene sus orígenes en los Saturnales latinos, es decir, cuando los romanos se lanzaban a las calles cantando y alabando a Saturno, el padre de los dioses. Durante las festividades, toda relación jerárquica desaparecía, porque nobles y plebeyos se confundían voluntariamente en una inversión de comportamientos y ropajes. El uso de la máscara es más tardío. Fue tomado de los Bacanales (festejos en honor a Baco), con el propósito de no ser reconocidos durante los muchos... excesivos atrevimientos. Después, con la llegada del Cristianismo, se suavizaron gradualmente, aunque no totalmente, los comportamientos más desmedidos y transgresivos. Con el Renacimiento, el Carnaval  hizo su imponente ingreso a las numerosas cortes europeas. En este ambiente, los festejos se volvieron más refinados y elegantes. Se unieron al teatro, a la danza y a la música, pero aún así no perdieron nunca la búsqueda de la satisfacción de los anhelos materiales, como lo describen los versos de Lorenzo el Magnífico «Quien quiera ser feliz, que lo sea, porque del mañana no hay certeza...»

Este Carnaval, por así decirlo, de alto linaje, prosperó de manera muy particular, en la Venecia del 600-700, que se convirtió en la patria de los disfraces y el libertinaje.

Se cree que las primeras máscaras venecianas (en tela encerada, llamadas larvas) hayan sido importadas de Constantinopla, aproximadamente en el  año 1200, por el famoso Dux Enrico Dandolo [1], tomando como modelo el velo, perforado en la parte de los ojos, que usaban las mujeres turcas para cubrirse el rostro.

La palabra máscara, tiene una etimología desconocida. Hay quienes piensan que deriva del del árabe maschara o mascharat (chiste, payasada), palabra adoptada por el lenguaje medieval durante las cruzadas. Otros simplemente sostienen que viene del latín medieval masca (bruja).

Muy célebres son las máscaras italianas nacidas con la “Comedia del Arte” así llamada porque sus intérpretes, por primera vez después de más de un milenio eran “artistas de oficio”, es decir, profesionales. Las historias representadas, eran las del eterno repertorio cómico, hechas para un pequeño número de personajes, siempre los mismos. Estos personajes eran (y siguen siendo) las máscaras que hoy conocemos: Arlequín, Briguella, Colombina, Pantaleón, Polichinela, Stenterello, etc., personajes que sabían cómo hacer reir con una serie farsesca llena de fanfarronería, bravuconada e ingenio. Pero en Venecía, existía una máscara que no era precisamente una máscara.

No nació de la Comedia del Arte ni era un disfraz de carnaval. Era un vestuario muy particular (creado por un galeno francés, un tal Charles de Lormar) que los médicos estaban obligados a llevar puesto durante las pestes, llamada máscara del boticario”.

Consistía en una larga túnica negra, botas grandes, guantes, cofia y sombrero (cada uno de los elementos estaba encerado y era impermeable) y remataba con una rara máscara blanca con los ojos protegidos por unos lentes gruesos y una prominente y puntiaguda nariz, similar a un pico ganchudo. Esta nariz enorme, se rellenaba de hierbas y especias medicinales que servían para cubrir el hedor de los cuerpos afectados por la peste y (así se pensaba) protegía del contagio por inhalación del aire fétido. Los venecianos, indudablemente personas con un amplio sentido del humor, llamaban a estas tristes figuras con aspecto de cuervo con pico amarillo los “sepultureros”.

En Venecia —eso es seguro— las máscaras encontraron hegemonía absoluta en las calles. En poco tiempo, en ocasión del cada vez más salvaje carnaval, las máscaras invadían las calles y las plazas, quedando olvidados los adornos teatrales.

Aunque el Carnaval, orgullo de la Serenísima, tiene sus raíces en los personajes de la “Comedia del Arte”, el ponerse una máscara (aunque fuera sólo para ir al casino o con los amigos) se convirtió poco a poco en una típica y consolidada costumbre de la ciudad de las lagunas. En este contexto, las hábiles manos de los fabricantes de máscaras crearon la Bauta, el personaje más típico de Venecia, que llevaba el cendal —un abrigo negro y largo hasta la cintura—, el sombrero de tres picos y la máscara, también llamada Bauta, en una trinidad indisoluble.

Hoy en nuestro país, después de alternadas etapas de gloria y decadencia, las manifestaciones carnavalescas, al parecer, han tomado nuevo vigor. Pero... cuidado... porque más que un verdadero rescate de las tradiciones populares, desde hace mucho olvidadas, son en realidad el resultado de una buena actividad empresarial, donde el negocio se convierte en la fuerza impulsora de las iniciativas del turismo, algunas más o menos válidas.

La tradición del Carnaval, en el sentido de costumbres, disfraces  y formas de vida, tiene —sin lugar a dudas— una crisis de identidad. El hecho es que esta tradición la hemos heredado, no adquirido.

No nos costó nada. Ni tantito trabajo. Por lo tanto, no nos ha importado conservarla inalterada e intacta.

Desafortunadamente, el Carnaval de antaño, vivo de verdad, lo hemos convertido en un payaso de papel maché.

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[1] Llegó a ser Dux a la edad de más de 80 años. Sus cualidades políticas destacaron en ocasión a la 4a. cruzada. De hecho, no pudiendo los cruzados pagar el flete de los busques en Venecia,  Dandolo “usó” con éxito, a pesar de la excomunión papal, las tropas cruzadas como si fueran un ejército de Venecia. Primero contra la rebelde Zara y después contra Constantinopla. Fue él quien llevó a Venecia los famosos caballos de bronce, puestos (en pareja) en frente de San Marcos. Murió a la edad de 98 años y fue sepultado en la gran Basílica de Santa Sofía, en Constantinopla. Después de la conquista de la ciudad por los turcos en 1453, se dice que su tumba fue profanada y sus huesos dados a los perros como comida.

 

(claudio bosio / puntodincontro / traducción al español de carla acosta villavicencio y massimo barzizza)