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									5 
									febbraio
									2016 
									
									- 
									
									Incontro Don Luigi Ciotti, fondatore di 
									Libera (Associazioni, nomi e numeri contro 
									le mafie), in una mattinata di fine gennaio 
									a Città del Messico. L’appuntamento è nella 
									sede di Cauce Ciudadano (Alveo 
									Cittadino), associazione partner di Libera 
									che lavora coi giovani dei quartieri 
									marginali. È uno dei pochi momenti 
									disponibili nell’agenda di Don Ciotti che ha 
									in programma una lunga serie di incontri con 
									organizzazioni della società civile e 
									vittime della criminalità nel quadro 
									dell’iniziativa “Messico per la Pace”. 
									Questa campagna ha l’obiettivo di far 
									conoscere in Italia la difficile situazione 
									messicana e sostenere le realtà che in loco 
									lottano per la sua trasformazione. 
									
									Qual è l’importanza del Messico per Libera? 
									
									Sono venuto tante volte in Messico. Proprio 
									in questi giorni degli amici mi hanno 
									consegnato dei libri che abbiamo co-editato 
									insieme sul tema della droga. Come Gruppo 
									Abele avevamo portato anche il tema delle 
									dipendenze dalle droghe con dei contatti in 
									Messico per fare progetti insieme, 
									condividere esperienze e darci una mano 
									reciprocamente. Credo che si debbano 
									condividere le esperienze che si fanno e poi 
									ognuno deve calarle nel proprio contesto e 
									territori, nella propria cultura e nel 
									percorso della gente. Questo ha permesso di 
									conoscerci: dire droga vuol dire anche 
									mafia. Il traffico delle sostanze 
									stupefacenti è in mano nella sua quasi 
									totalità alle organizzazioni criminali e 
									specialmente a quelle criminali mafiose. 
									Quindi, come in Italia, Libera nasce un po’ 
									dalla storia del Gruppo Abele, che era 
									impegnato contro la varie forme di 
									dipendenza e non solo. Anche le forme di 
									sfruttamento, prostituzione, la tratta, la 
									corruzione o l’illegalità. E’ stato più 
									facile qui sentire il bisogno di creare una 
									collaborazione. E così è nata, perché il 
									problema del narcotraffico è un problema che 
									ci tocca tutti, no? Sono stato anche in 
									altre nazioni dell’America Latina proprio 
									per questa ragione. Ecco che questo rapporto 
									nasce perché ci uniscono gli stessi 
									interessi e le stesse problematiche, pur se 
									in regioni e contesti diverse. Il 
									narcotraffico ha dimensioni criminali non 
									indifferenti. Perché penso alle oltre 26mila 
									persone scomparse, penso che la prima causa 
									di morte nel mondo giovanile qui è 
									l’omicidio, mentre in altri paesi sono gli 
									incidenti stradali in quella fascia d’età. 
									Penso alle oltre 180mila vittime accertate 
									della guerra di mafia in questo territorio, 
									quindi sono numeri grandi, però, con numeri 
									molto più piccoli, abbiamo vissuto parte di 
									questa storia anche nel nostro paese perché 
									quanti morti ha fatto e continua a fare 
									anche in Italia, pur con numeri 
									completamente diversi, la violenza 
									criminale? 
									
									Cosa possono avere in comune le esperienze 
									dell’Italia e del Messico? Cosa può 
									apportare Libera dall’Italia al Messico? 
									
									E’ uno scambio che ci arricchisce 
									reciprocamente. Ogni volta che vengo qui 
									imparo. Conosco esperienze, coraggio, 
									creatività, fantasia. E il lavoro nelle 
									periferie, dentro i barrios e i 
									territori difficili. Ho toccato con mano il 
									coraggio di reagire da parte di molti, 
									cresciuti dentro queste organizzazioni 
									magari sin da piccoli, che poi si fanno 
									promotori di un percorso alternativo per 
									uscire da questi circuiti criminali. Carlos 
									Cruz dell’associazione Cauce Ciudadano 
									è una di queste storie. Quindi c’è una 
									reciprocità perché ci si arricchisce e 
									ognuno è chiamato a dare il proprio apporto 
									e contributo senza calarlo dall’alto. E 
									questo avviene in tutti i territori. Qui 
									stiamo costruendo insieme dei percorsi: ALAS, 
									la rete di Libera in America Latina, parte 
									dalla stima, dall’attenzione, dalla 
									riconoscenza, dal rispetto e dalla 
									valorizzazione per cui proviamo gratitudine 
									per le realtà che qui sono impegnate. E allo 
									stesso modo abbiamo fatto in modo che 
									l’esperienza maturata nel nostro paese 
									potesse diventare un punto di riferimento. 
									Credo che sia in Italia che qui abbiamo 
									colto questo grande bisogno che c’è: io lo 
									chiamo grido di libertà. In che senso 
									libertà? Chi è povero non è libero, chi è 
									schiacciato dalla violenza criminale non lo 
									è, chi è ricattato non è libero, le ragazze 
									sfruttate non sono libere. E’ quindi questo 
									grido di libertà che ci unisce, pur in 
									contesti diversi. Oltre che il più prezioso 
									dei beni la libertà è la più esigente delle 
									responsabilità. Abbiamo la responsabilità di 
									impegnare un po’ della nostra libertà per 
									aiutare chi libero non è. Abbiamo deciso di 
									farlo mettendo insieme tante associazioni e 
									realtà di mondi e contesti completamente 
									diversi perché troverai movimenti cattolici 
									e più laici, giovani e anziani, eccetera.
									 
									
									In che modo? 
									
									Attraverso tre strumenti molto importanti 
									che cerchiamo di condividere. Primo, quello 
									culturale. Perché la cultura risveglia le 
									coscienze, il lavoro nelle scuole, con le 
									università. Abbiamo appena fatto qui con 
									Cauce Ciudadano un in incontro e s’è 
									lavorato sui linguaggi che devono tenere 
									conto della ricchezza dei contenuti e devono 
									essere accessibili. Non dimentichiamo che 
									l’unità di misura dei rapporti umani è la 
									relazione e questa ha bisogno di un 
									linguaggio che sia accessibile a tutte le 
									persone in forme e livelli diversi. Abbiamo 
									condiviso questa esigenza.  
									
									La seconda cosa che ci unisce è la memoria 
									che deve trasformarsi in impegno per non 
									diventare celebrazione, evento. Spesso c’è 
									questo grosso rischio, ma la memoria io l’ho 
									sempre inquadrata con un’espressione: 
									trasformare la memoria in un’etica 
									dell’impegno. Ecco in Italia abbiam cercato 
									di fare questo, di non lasciar soli i 
									familiari, di tutelarli ma anche di fare una 
									battaglia politica affinché abbiano una 
									serie di garanzie. Devo dire che le vittime 
									innocenti accertate della criminalità 
									mafiosa hanno già dei riconoscimenti nel 
									nostro paese ma non per tutti. Ad esempio 
									quelli che son stati uccisi prima del 1961 
									non sono riconosciuti e non capisco perché… 
									Pare sia sempre l’economia che determina 
									l’attenzione che, invece, dovrebbe 
									rivolgersi maggiormente alla storia delle 
									persone. Abbiamo cercato di stanarli, di 
									essergli vicini, di sentire la 
									responsabilità della memoria, il dovere di 
									trasmettere una memoria, ma soprattutto di 
									creare le condizioni per cui nessuno si 
									dimentichi che il miglior modo di fare 
									memoria è quello d’impegnarci veramente di 
									più tutti. Non solo un giorno all’anno. 
									Abbiamo scelto il primo giorno di primavera 
									per ricordare tutte le vittime. Il 21 di 
									marzo ogni anno in una città. Quest’anno 
									sarà fatto in tutta Italia alla stessa ora 
									dello stesso giorno la lettura di questa 
									lista interminabile di nomi: è un segnale 
									evidentemente però guai se ci dimentichiamo 
									che la memoria va bene ma per essere vera 
									deve essere un impegno. Abbiamo dato una 
									mano a molti familiari a trasformare il loro 
									dolore, la loro sofferenza e fatica in 
									impegno e testimonianza. A non rinchiudersi 
									nel loro dolore, nelle loro paure e 
									nell’ansia, ma a trovare punti di 
									riferimento per diventare anche loro una 
									forza. Non una categoria, come si dice “voi 
									siete i familiari”, ma cittadini che si 
									assumono responsabilità e tocca a noi non 
									lasciarli soli. 
									
									Il terzo punto è stato quello che ci ha 
									creato più problemi anche se adesso tutti 
									capiscono l’importanza della confisca dei 
									beni ai mafiosi. Quando è nata Libera 
									abbiamo condiviso il sogno di Pio Latorre. 
									Siciliano, deputato e sindacalista, aveva 
									intuito che bisognava inserire nel codice 
									penale i reati di stampo mafioso. Poi la 
									legge venne fatta, ma lui non la vide perché 
									fu ucciso prima. L’altra sua grande 
									intuizione è stata quella per cui bisogna 
									sottrarre ai mafiosi i patrimoni perché 
									cos’è che più disturba i mafiosi e i grandi 
									boss? Il loro obiettivo è il potere, il 
									denaro, la forza e allora li disturba il 
									fatto che tu gli togli questo potere e la 
									loro immagine, oltre a quei patrimoni che ha 
									realizzato spesso con la morte, il sangue e 
									la violenza. Latorre l’aveva intuito ed è 
									stato ammazzato quattro mesi prima di vedere 
									approvata la legge. Quando nasce Libera 
									pensiamo che il suo sogno deve realizzarsi. 
									La legge che era passata non era completa, 
									non prevedeva adeguatamente l’aspetto della 
									confisca dei beni. E per questo abbiamo 
									raccolto un milione di firme per stimolare i 
									cittadini a prendere posizione, a unire le 
									forze per chiedere al parlamento e alla 
									politica del nostro paese una legge per la 
									confisca dei beni dei mafiosi. Per 
									migliorarla s’è aggiunto anche l’uso sociale 
									di quei beni quando possibile. E oggi sono 
									centinaia le realtà che hanno accesso a 
									questo attraverso bandi pubblici. Abbiamo 
									aperto un po’ questa strada facendo le prime 
									cooperative su terreni agricoli però con la 
									creazione dei consorzi dei comuni. I beni 
									confiscati restano dello Stato che li affida 
									ai comuni. Questi secondo la legge possono 
									destinarli ad usi per il bene comune o anche 
									dare loro un uso sociale in favore delle 
									cooperative o associazioni. Lo Stato non dà 
									i soldi alle cooperative ma al consorzio dei 
									comuni, essendo loro i gestori. Abbiamo 
									cercato di creare cooperative di tipo 
									agricolo sui beni confiscati col progetto 
									Libera Terra e la scelta del biologico. 
									Questo vuol dire dare lavoro. Era difficile 
									fino a 20 anni fa immaginare nel nostro 
									paese che le ricchezze delle mafie potessero 
									trasformarsi in opportunità di lavoro, in 
									luoghi di stimolo alla partecipazione civile 
									e in strumenti di cambiamento. 
									
									Dicevi ieri presso l’Istituto Italiano di 
									Cultura che corruzione e mafia sono due 
									facce della stessa medaglia. Sarebbe 
									applicabile una politica di questo tipo 
									anche in Messico, malgrado suoi alti livelli 
									di violenza e la connivenza degli apparati 
									di stato con la criminalità? 
									
									Direi di sì. Qui, ma anche nel nostro paese, 
									i livelli di corruzione sono eccezionali. 
									Allora vorrei dire che l’economia mafiosa 
									oggi è per molti versi legata all’economia 
									legale, al sistema che governa il libero 
									mercato. La finanza, gli scambi e la 
									corruzione chiamano in causa l’etica privata 
									e pubblica. Allora in questo senso la lotta 
									alle mafie e alla corruzione non sono solo 
									un dovere etico ma anche una priorità 
									economica perché ci impoverisce tutti. E’ 
									questo il forte potere in mano ai mafiosi. 
									Il problema non sono quindi solo i poteri 
									legali, né solo quelli mafiosi il cui scopo 
									è il denaro, la forza e fare soldi, in 
									sostanza. Il vero problema sono anche i 
									poteri legali che si muovono illegalmente. 
									Le mafie sono dei parassiti di un sistema 
									che distrugge il lavoro, la dignità e la 
									speranza. Per raggiungere il loro obiettivo 
									s’avvalgono di questo o quel potere che gli 
									permette di sopravvivere e le protegge. E 
									sono segmenti del potere politico. Più che 
									mai oggi sono anche i poteri economici, 
									imprenditoriali e finanziari. Questo è 
									chiaro, tant’è vero che testualmente la 
									Banca d’Italia anni addietro parlò di 
									“corrotti che siedono regolarmente nei 
									consigli d’amministrazione di enti 
									pubblici”. Allora dico, insomma, siccome lo 
									denunciate seriamente, si crei rapidamente 
									un sistema per farli venir fuori, per 
									cacciarli. Magari dei passi si stanno 
									facendo, ma credo che resti fondamentale il 
									problema della corruzione che è 
									l’incubatrice del potere mafioso. Ma c’è di 
									più. L’altro elemento da affrontare è la 
									mafiosità diffusa. 
									 
									19 gennaio 2016. Paolo Pagliai e Don Luigi Ciottiall'Istituto Italiano di Cultura di Città del Messico.
 
									
									E’ un concetto simile a quello “messicano” 
									di narcocultura? 
									
									Esatto. E’ il vero patrimonio delle mafie 
									prima ancora di quello economico. I mafiosi 
									riescono a fare questo perché c’è proprio 
									una mentalità mafiosa che ci circonda. La 
									vediamo nel nostro paese, anche se certe 
									cose sono cambiate. Noi e altri abbiamo 
									lavorato molto nelle scuole, nelle 
									università, con la magistratura e condotto 
									una battaglia culturale. Dei passi in avanti 
									sono stati fatti e credo che abbiamo una tra 
									le migliori leggi per il contrasto alle 
									mafie. Certo poi bisogna anche tradurla in 
									pratica. Quello che manca ad esempio in un 
									paese come il Messico è una commissione 
									antimafia, la politica deve attrezzarsi. E’ 
									uno strumento politico fondamentale. Il 
									nostro ruolo è un altro, riguarda la società 
									civile, l’educazione, la dimensione 
									culturale, l’impegno sociale perché abbiamo 
									troppi cittadini a intermittenza in giro, a 
									seconda delle emozioni e dei momenti, e 
									abbiamo bisogno di cittadini più 
									responsabili. 
									
									Anche qui c’è la percezione che i movimenti 
									di protesta come quello per la Pace del 2011 
									e quello nato intorno ai genitori dei 43 
									desaparecidos de Ayotzinapa abbiano 
									funzionato come ondate che poi rientrano e 
									non sempre si concretizzano in cambiamenti. 
									
									E’ vero. Dico sempre che la strada per tutti 
									è in salita. Ma tre parole per me diventano 
									fondamentali. La continuità nel fare le 
									cose, anche se è dura e difficile. La 
									seconda parola è la condivisione, non è 
									opera di navigatori solitari. Credo 
									nell’unione di energie e pensieri. Ecco 
									allora la nostra esperienza mi ha portato 
									qui 5 anni fa, chiamato dalla conferenza 
									episcopale messicana a parlare a tutti i 
									vescovi perché l’esempio che s’era costruito 
									un po’ in Italia interessava a questo 
									episcopato. Si chiedevano come è stato 
									possibile mettere insieme tanti movimenti e 
									realtà così diverse tra di loro. E’ stata 
									una scommessa evidentemente. Credo che in 
									ogni nazione, pur con caratteristiche 
									diverse e anche se per esempio qui il ceto 
									medio è più ridotto ed è una terra di 
									estremi, la strada del “Noi”, di unire forze 
									ed energie con corresponsabilità diventi 
									importante. Allora c’è la continuità, la 
									condivisione, il noi, e la 
									corresponsabilità. Corresponsabilità vuol 
									dire che noi sentiamo che dobbiamo cercare 
									di collaborare con le istituzioni quando 
									fanno la loro parte, ma di essere anche una 
									spina nel fianco quando non vengono 
									affermati i diritti, l’uguaglianza e la 
									dignità delle persone. 
									
									Nel contesto messicano, ma anche in certa 
									misura in quello italiano, c’è da 
									considerare che attivisti, giornalisti, 
									difensori dei diritti umani e tutte le 
									categorie che rappresentano comunità o 
									gruppi sociali sono tra due fuochi: la 
									criminalità organizzata e apparati dello 
									stato a vari livelli che remano contro di 
									loro. A volte questo avviene mediante 
									legislazioni che penalizzano o 
									criminalizzano le proteste e le domande 
									sociali. Spesso queste vengono interpretate 
									dai media e da un’opinione pubblica 
									piuttosto conservatrice come 
									“delinquenziali” e paragonate alla 
									criminalità organizzata. Che ne pensi? 
									
									Sono molto consapevole di questo, di questi 
									elementi, perché a forza di venire qui e 
									ascoltare vedo che da una parte c’è questa 
									situazione ma dall’altra anche il coraggio. 
									E ce ne vuole veramente tanto, la dignità, 
									il non venire meno. Ho visto gruppi di 
									ragazzi, le associazioni l’altro giorno a 
									Cuernavaca, e abbiamo fatto un incontro di 
									grande valore. Questa è una grande battaglia 
									politica che va portata avanti, affidata 
									però al popolo, alla nazione, per quella che 
									è la sua parte. Mi fa piacere che ci siano 
									anche delle collaborazioni con la 
									magistratura italiana, alcuni sono venuti 
									qui, ma è da anni che ci sono collaborazioni 
									per cercare dei sistemi. Bisogna fare in 
									modo che non diventino solo di facciata e 
									che si concretizzino perché questa è la 
									strada. La corruzione, che si trova a 
									diversi livelli, ci impoverisce tutti e, 
									devo dire che è così anche da noi: il fango, 
									le manovre, il destabilizzare. Dobbiamo 
									avere più coraggio tutti. Credo anche che la 
									prima grande riforma da fare, guardando più 
									all’Europa evidentemente, sia un’autoriforma 
									delle nostre coscienze, di risveglio delle 
									nostre coscienze. Certo qui c’è una parte 
									della popolazione che culturalmente fa più 
									fatica o ha meno strumenti, ma anche da noi 
									in Italia ora ci sono 8 milioni di persone 
									in povertà relativa e 4 in povertà assoluta. 
									Siamo agli ultimi posti in Europa, 
									nonostante i miglioramenti negli ultimi 
									tempi, per la dispersione scolastica. 
									Milioni di italiani sono analfabeti o hanno 
									forme di analfabetismo di ritorno. E allora, 
									lotta alle mafie…  
									
									Come vedi un contesto come il messicano in 
									cui c’è sempre manovalanza criminale 
									disponibile per via della povertà e la 
									mancanza di opportunità? 
									
									Sì è vero, ma anche da noi adesso tutti i 
									vuoti creati, per il grande lavoro degli 
									arresti dei latitanti, vengono subito 
									riempiti da nuove leve: la mancanza di 
									lavoro, e molti che si perdono per strada 
									nella scuola, favorisce tutto questo. Dico 
									sempre che le mafie non sono figlie della 
									povertà e dell’arretratezza, ma è indubbio 
									che povertà, disuguaglianze e marginalità 
									sono i serbatoi che favoriscono la loro 
									espansione per cui bisogna affrontare il 
									problema delle pratiche sociali vere, reali. 
									Lotta alla mafia nel nostro paese vuol dire 
									lavoro, cultura, scuola. Certo, anche il 
									lavoro dei magistrati e delle forze 
									dell’ordine, ma c’è anche una risposta di 
									politiche sociali che diventa importante. Va 
									chiarito che la mafia non è figlia della 
									povertà, ma quelle disuguaglianze la 
									favoriscono moltissimo. Perché poi i grandi 
									capi o per esempio il capo di Cosa Nostra a 
									Corleone era un medico, cioè non si tratta 
									solo di povera gente che reagisce in un 
									certo modo. Oggi dietro c’è la grande 
									finanza, quella sporca in giro per il mondo, 
									quell’economia che Papa Francesco ha 
									chiamato “economia assassina”. 
									
									C’è dunque una responsabilità dei poteri 
									pubblici in un tipo di politica economica e 
									nella perdita di interi territori che in 
									Messico è molto forte? 
									
									Ma certo, è quello che dicevo prima. Le 
									mafie sono forti quando la politica è 
									debole, quando la democrazia è pallida. Per 
									esempio non è possibile che in Italia 
									crescano l’evasione fiscale e la corruzione. 
									Adesso tutti fanno i codici etici e io sono 
									preoccupato perché il primo codice etico è 
									la tua coscienza. Perché non basta scrivere 
									e fare “un protocollo”. No, sono i tuoi 
									comportamenti, i tuoi linguaggi, le tue 
									scelte, le tue frequentazioni. Oggi l’etica 
									è una parola che è sulla bocca di tutti, 
									invece chiama in causa di più le nostre 
									coscienze, comportamenti, linguaggi. 
									
									Qual è la posizione di Libera o tua nel 
									dibattito, molto acceso in Messico, sulla 
									legalizzazione delle droghe? 
									
									E’ un dibattito che va avanti da sempre. 
									
									Come la pensate? Sottrarre quei mercati alle 
									mafie può essere una strategia utile? 
									
									Io sono perché ci si metta tutti intorno a 
									un tavolo, spogliandosi da pregiudizi e 
									moralismi, per chiederci, non dimenticando 
									mai la dignità delle persone che è 
									l’obiettivo centrale, che cosa si può fare 
									sulla faccia di questa Terra dove già ci 
									sono tantissime ipocrisie. Un’ipocrisia che 
									tocco con mano è quando prendo un pacchetto 
									di sigarette, monopolio dello Stato, con 
									scritto “Nuoce gravemente alla salute”. 
									Credo sia un’ipocrisia perché le vendi e ci 
									metti sopra anche l’immagine della 
									morte…Allora che si affronti il discorso 
									complessivo, con vera volontà politica di 
									affrontare questo nodo, si aprano gli armadi 
									che sono blindati a Vienna dove tanti 
									studiosi hanno fatto ricerche eccezionali. 
									Lì c’è il centro dell’Onu sulle dipendenze. 
									Molti ricercatori di tutto il mondo hanno 
									lavorato per questo organismo per capire i 
									meccanismi, i governi, i traffici. Sono 
									sotto giuramento. Molti che abbiamo 
									incontrato, anche italiani molti bravi, ci 
									dicono di fare qualcosa da anni perché, 
									dicono, “quei documenti negli armadi, le 
									molte ricerche per cui abbiamo lavorato anni 
									e abbiamo dimostrato cosa stava dietro a 
									tutto questo mondo e al giro delle droghe, 
									non sono poi resi pubblici”. Perché quando 
									toccano i governi…I governi hanno diritto di 
									voto e quindi se il rapporto che tu mi fai, 
									il lavoro che ti avevo commissionato, poi 
									contiene denunce, allora molti son bloccati 
									perché vengono fuori delle cose per cui la 
									politica, il governo, dice che quel rapporto 
									non dev’essere pubblicato. Studi sui 
									traffici e le coperture, su cosa si nasconde 
									dietro. Ecco quando dico allora, per 
									piacere, facciamo una riflessione seria a 
									carte scoperte su qual è la soluzione perché 
									sono falliti tutti gli altri tipi di 
									percorso. La lotta alla droga l’abbiamo 
									persa tutti. 
									
									Cosa pensi della strategia di mano dura e 
									militarizzazione dei territori partita a 
									fine 2006 con la cosiddetta “guerra alle 
									droghe” in Messico? 
									
									Mi pare che la droga continui a essere alla 
									grande in giro per tutta questa Terra. Io 
									non ho le competenze, la professionalità, 
									opero nel sociale, ma vedo la disperazione 
									della gente. Vedo che le politiche, anche 
									nel nostro paese, nel nome della crisi 
									economica si sono fortemente ridotte, la 
									prevenzione è stata stroncata del 50%. 
									Sempre perché è il dato economico quello che 
									penalizza tutto. Dipende come investi poi i 
									soldi… Ma la droga continua ad esserci. Ce 
									n’è tanta, sempre di più. Io devo lavorare 
									per fare in modo che la gente non arrivi a 
									drogarsi, però dobbiamo anche chiederci come 
									fare per sconfiggere un mercato in mano a 
									questi criminali, ma che ha anche delle 
									coperture. E’ per questo che gli armadi di 
									Vienna devono aprirsi. 
									
									Ma in questo senso c’è un doppio ostacolo 
									alla legalizzazione: una falsa morale 
									nell’opinione pubblica e poi lo scoglio 
									politico. 
									
									Non ti so dire se è bene, se è male, 
									eccetera. Dico solo che bisogna trovare 
									veramente la volontà, liberi. La riflessione 
									deve essere fatta, sempre a partire dalla 
									dignità della persona, ma che venga fatta su 
									tutte le forme di dipendenza perché ci si 
									accanisce in una direzione e si dimenticano 
									le altre dipendenze. E’ una riflessione 
									molto seria partendo per esempio dal gioco 
									d’azzardo. Gruppo Abele pubblicò un libro 
									denunciando queste forme di dipendenze e ci 
									risero in faccia, mentre adesso tutti ne 
									parlano. Anoressia e bulimia: chi l’avrebbe 
									detto quando anni fa l’anticipò il Gruppo 
									Abele. E’ un’altra sofferenza, un’altra 
									forma di dipendenza, oltre al fumo, l’alcol. 
									Abbiamo bisogno di una grande riflessione e 
									non solo leggere in una direzione. Ci vuole 
									che la politica affronti realmente questo 
									problema. Io non ho la formuletta in tasca, 
									credo che, però, la “lotta alla droga” 
									l’abbiamo veramente persa tutti nell’arco di 
									questi anni. Nel nostro paese, l’Italia, 
									anni fa faceva notizia se un ragazzo moriva 
									di overdose. Adesso sono riprese le morti, 
									nonostante la presenza di farmaci e altro, 
									ma non fa più notizia. Si dà quasi per 
									scontato, è venuta meno quell’indignazione 
									vera che scuote le coscienze e ci fa mettere 
									in gioco. 
									
									Beh, qui il grande scossone è stato 
									sicuramente il crimine contro i 43 studenti 
									di Ayotzinapa.   
									
									Me lo ricordo bene perché mi arrivò una 
									lettera quando stavamo facendo Contro-Mafie 
									in Italia, un evento biennale cui 
									partecipano più di tremila persone e 
									lavorano in gruppi. All’assemblea conclusiva 
									a Roma era arrivata una lettera di alcuni 
									ragazzi messicani. Il loro grido dal Messico 
									era: “Fate qualcosa, ditelo al mondo”. 
									Davanti a tutte quelle persone e ai media ho 
									dato la denuncia. Ho letto quella lettera 
									perché mi hanno scritto un testo pesante e 
									drammatico chiedendo di non essere 
									abbandonati “davanti ai criminali e ai 
									politici mafiosi che usano polizie ed 
									esercito per sequestrare”. E alla fine si 
									sono mossi di più. Allo stesso modo non 
									vanno dimenticati gli altri ventiseimila. 
									
									
									Il problema di molti casi qui in Messico, 
									tra cui la “notte di Iguala” e la 
									persecuzione contro gli studenti di 
									Ayotzinapa, è che viene riscontrata 
									dall’inizio la partecipazione della polizia 
									e di organi statali a vari livelli 
									all’interno di operazioni complesse.
									 
									
									Non basta solo indignarci e commuoverci al 
									riguardo, dobbiamo muoverci di più tutti. 
									Attenzione che qui c’è un livello di 
									corruzione… Non devo spiegarlo io a voi. Ma 
									lo stesso elemento che ha visto degli 
									apparati dello stato coinvolti c’è anche in 
									Italia, c’è un processo Stato-mafia in atto 
									nel nostro paese che ha visto la complicità 
									degli uomini degli apparati dello Stato. I 
									mafiosi sono nessuno. Nessuno. Riescono a 
									realizzare i loro obiettivi perché trovano 
									alleanze e compromissioni con segmenti della 
									politica e della finanza, dell’economia. 
									Trovano professionisti che si mettono al 
									loro servizio. 
									
									Qual è secondo te il peggior nemico della 
									mafia? 
									
									Beh, direi che siamo noi. La grande rivolta 
									deve partire dal basso, è la rivolta delle 
									persone che dal basso sentono dentro di loro 
									che il cambiamento ha bisogno di ognuno di 
									noi. Noi dobbiamo essere un cambiamento. 
									Queste realtà che ho incontrato sono un 
									segno di speranza: visti male da molte 
									istituzioni e ostacolati, sono un segno che 
									dimostra che la strada è questa. Cittadini 
									più responsabili e gruppi che agiscono, però 
									la politica dovrebbe creare le condizioni. 
									
									Il problema messicano è che più che “creare 
									condizioni” si creano ostacoli alla libertà 
									di stampa e all’organizzazione e la protesta 
									popolari che di solito vengono smantellate.
									 
									
									La presenza di Libera e la rete ALAS, che 
									promuove l’antimafia sociale, serve a fare 
									in modo per prima cosa di non lasciarli 
									soli, di dare loro un respiro più 
									internazionale con cui arricchirsi 
									reciprocamente e creare visibilità. 
									 
									
									Com’è stato il tuo incontro in Messico coi 
									genitori di Gisela Mota, la sindachessa di 
									Temixco assassinata da presunti 
									narcotrafficanti di fronte all’inizio di 
									gennaio? 
									
									Coi familiari delle vittime ci lavoro da 
									anni e non è un lavoro, è un incontro e ti 
									cambia la vita. Senti più prepotente dentro 
									di te il desiderio d’impegnarti, di fare 
									qualcosa, anche se ti senti piccolo o 
									fragile, perché ci sentiamo tutti piccoli e 
									fragili. Però la convinzione è che non 
									dobbiamo fermarci, dobbiamo avere più 
									coraggio e far emergere le cose positive che 
									ci sono per stimarle, valorizzarle e non 
									lasciare sole queste persone. E’ stato un 
									incontro che porterò profondamente nel 
									cuore. E’ uno dei tanti incontri che ho 
									vissuto con familiari in questi anni per il 
									mondo di fronte ai quali non ci sono parole. 
									Abbiamo parlato anche con tanti silenzi, ma 
									ho trovato in loro una grande dignità. 
									L’incontro, per la loro e la nostra 
									sicurezza, l’abbiamo dovuto fare in un luogo 
									che non fosse casa loro. Quando ci siamo 
									lasciati mi han detto una cosa che mi ha 
									molto colpito. Mi han detto: “Speriamo che 
									sia andato tutto bene”, ma non parlavano di 
									noi e della visita. Il nostro è un incontro 
									che proseguirà per non lasciarli soli e 
									perché Gisela deve vivere attraverso 
									l’impegno di tutti. E perché quei proiettili 
									che hanno ucciso questa ragazza… O sentiamo 
									che hanno colpito anche noi oppure diventa 
									una memoria di incontri molto retorici. La 
									loro preoccupazione era nei nostri riguardi, 
									speravano che non ci avessero seguiti e 
									visti. Loro han cercato di fare un incontro 
									perché temono ritorsioni. Il papà e il 
									fratello hanno rincorso i criminali dopo la 
									sparatoria contro Gisela. C’è stato poi uno 
									scontro con la polizia, alcuni dei 
									delinquenti sono morti. Quindi ci siamo 
									visti lontano da casa. La mamma mi ha detto 
									che la gente le chiede di candidarsi al 
									posto di sua figlia. Ne abbiamo parlato un 
									po’ e non so se lo farà o no. So solo che ho 
									ricevuto ancora una volta una lezione perché 
									penso a cosa vuol dire per un papà, una 
									mamma o un figlio vedersi uccidere le 
									persone care davanti agli occhi. Io lo vivo 
									profondamente dentro e ti senti impotente, 
									ma senti ancora di più la voglia di dire 
									“uniamo le nostre forze, con umiltà, ma 
									uniamo le nostre energie perché non è 
									possibile”.  
									
									Conosci il poeta Javier Sicilia, fondatore 
									del Movimento per la Pace con Giustizia e 
									Dignità nel 2011 che è stato per molti mesi 
									il riferimento del movimento delle vittime 
									della narcoguerra messicana? 
									
									Sì, abbiamo passato del tempo insieme. Ieri 
									a Cuernavaca abbiamo parlato molto, abbiamo 
									fatto un dibattito e un incontro bellissimo. 
									E’ venuto anche lui coi genitori di Gisela. 
									Abbiamo fatto un dibattito anche su quello 
									che stanno facendo loro, per me molto 
									arricchente. Abbiamo parlato di un po’ di 
									tutto perché le ferite delle persone non si 
									chiudono mai dentro. 
									
									Dopo l’arresto del Chapo Guzmán, capo del 
									cartello di Sinaloa, il presidente del 
									Messico ha approfittato per ribadire la 
									“solidità delle istituzioni” e ricordare le 
									varie catture di boss realizzate. Basta 
									questo? Cosa cambia nella guerra alle 
									droghe? 
									
									Ne ho parlato proprio in un’intervista con 
									la giornalista Carmen Aristegui alla CNN. Ho 
									paura di questi miti perché c’è il rischio 
									che tutta l’immagine e l’attenzione siano 
									focalizzate lì e poi ci si distragga da 
									altro. Preso un capo, viene subito 
									sostituito da altri, quindi attenzione a non 
									farne dei miti. 
									  
									
									(fabrizio 
									lorusso / puntodincontro.mx / adattamento 
									DI massimo barzizza 
									e traduzione in spagnolo di 
									
									Fabrizio lorusso.
									
									
									La presente intervista è 
									stata pubblicata anche su huffington 
									post e desinformémonos) 
									  
									
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