11 gennaio 2014 -
Dottor Marchionne, la settimana
scorsa la Fiat si è comprata tutta
la Chrysler, ha cambiato dimensione
e identità e lei non ha ancora detto
una parola. Cosa succede?
"Quel che dovevo dire l'ho scritto
il giorno dopo la firma ai 300 mila
dipendenti del gruppo, insieme con
John Elkann. Adesso dobbiamo
soltanto lavorare perché questo
sogno che abbiamo realizzato, e che
io inseguivo dal 2009, si metta a
camminare, anzi a correre, e produca
i suoi effetti".
Si ricorda come è incominciato
tutto?
"Sì. Avevamo un accordo tecnologico
con Chrysler, un'intesa di minima, e
mi sono accorto che non serviva a
niente, perché non produceva
risultati di qualche rilievo né per
Fiat né per gli americani. È stato
allora che l'idea ha cominciato a
ronzarmi per la testa. Un'idea, non
un progetto. Diceva così: o tutto o
niente. O posso entrare nella
gestione e prendermi la
responsabilità delle due aziende,
oppure perdiamo tempo".
E poi?
"Poi è arrivato il piano. La chiami
fortuna, istinto, visione, quel che
vuole. Resta il fatto che in quel
momento di crisi spaventosa abbiamo
visto nei rottami dell'industria
automobilistica americana la
possibilità di far rinascere una
grande azienda in forma
completamente diversa. E l'America
ha creduto nelle nostre idee e ci ha
aperto le porte".
Vuol dire che soltanto in America
sarebbe stata possibile
un'operazione di questo tipo?
"Dico che per tante ragioni storiche
e culturali noi europei siamo
condizionati dal passato, l'idea di
chiuderlo per far nascere una cosa
nuova ci spaventa. Da loro no: c'è
una disponibilità quasi naturale
verso il cambiamento, la voglia di
ripartire".
Meno vincoli e meno dubbi?
"Se porti un'idea nuova, in Italia
trovi subito dieci obiezioni. In
America nello stesso tempo trovi
dieci soluzioni a possibili
problemi. E poi è arrivato Obama".
Che ha creduto subito al suo
progetto?
"Aveva l'obiettivo di salvare quelle
aziende. La nostra fortuna è stata
di poter trattare direttamente con
il Tesoro, con la task force del
Presidente, non con i creditori di
Chrysler, come voleva la vecchia
logica. Se no, oggi non saremmo
qui".
L'amministrazione vi ha sempre
sostenuti?
"Abbiamo scoperto che il nostro
piano era più prudente del loro. Ma
la seconda fortuna è stata che il
mercato è ripartito prima del
previsto, gli Usa oggi sono tornati
a produrre 15 milioni di veicoli, la
cura che abbiamo fatto a Chrysler
funziona, noi ci siamo, tanto che la
Jeep non ha mai venduto tante
macchine come nel 2013, cioè 730
mila".
Questo basta per mettere Chrysler al
riparo?
"Guardi che in America il mercato
c'è ma è difficile, la competizione
è durissima. Ma nelle vendite retail
lo scorso anno Chrysler è cresciuta
negli Usa più degli altri due big,
Ford e Gm. Siamo il quarto
produttore americano, perché in
mezzo si è infilata Toyota. Quindi
c'è molta strada ancora da fare, ma
siamo in cammino. E meno male che
l'istinto aveva visto giusto nel
2009, perché un'occasione così si
presenta una volta sola nella vita:
non accadrà mai più".
Un piccolo non potrà mai più
comprare un grande grazie alla
crisi?
Abbiamo sfruttato condizioni
irripetibili. È vero che normalmente
il sistema americano è capace a
digerire la bancarotta e a
assicurarti le condizioni
finanziarie per ripartire, perché il
Chapter 11 negli Usa ti lava la
macchia del fallimento. Ma quando
siamo arrivati noi il sistema
digestivo delle banche si era
bloccato, ed ecco che abbiamo potuto
negoziare direttamente con il
governo, cosa mai accaduta prima".
Un negoziatore più facile perché
politicamente interessato al
risanamento aziendale?
"Mica tanto facile. Continuavano a
dirmi che la Fiat doveva metterci la
pelle, cioè i soldi. Ho avuto la
faccia tosta all'inizio di dire no.
Avevamo studiato bene le ceneri
dell'automobile americana, sapevamo
che il rischio era altissimo. Se
vuoi, rispondevo, metto in gioco la
mia pelle, vale a dire reputazione e
carriera, ma la Fiat no. Nemmeno un
euro".
Perché hanno accettato?
"Tenga conto che stiamo parlando
della tragedia del 2009, quando i
manager uscivano per strada con gli
scatoloni perché le aziende
chiudevano, quando la quota di
mercato di Chrysler era precipitata
al 6 per cento, non so se mi spiego.
Certo, ogni tanto mi arrivava un
messaggio dal mio partner al Tesoro:
secondo te, questa rotta si sta
invertendo? Bene, si è invertita.
Abbiamo restituito al governo Usa
tutti i soldi che aveva messo in
Chrysler, 7 miliardi e mezzo di
dollari, abbiamo ripagato tutti e
dopo l'accordo con Veba non dobbiamo
più niente a nessuno. A questo
punto, ci siamo comprati il resto
dell'azienda. Chrysler ha trovato un
partner".
Direi un padrone, no?
"Direbbe male. La nostra non è una
conquista, è la costruzione di un
insieme. Ho scritto una lettera
riservata al Gec, il Group Executive
Council, cioè gli uomini che
gestiscono il Gruppo, e ho detto che
quello di Fiat-Chrysler è per me un
sogno di cooperazione industriale a
livello mondiale, ma soprattutto un
sogno di integrazione culturale tra
due mondi".
Non vi sentite padroni di Chrysler,
dunque?
"Qualcosa di più, di meglio. Abbiamo
creato una cosa nuova. E da oggi il
ragazzo americano che lavora in
Chrysler quando vede una Ferrari per
strada può dire: è nostra. Poi,
certo, se quando sono arrivato qui
mi avessero detto che saremmo
diventati il settimo costruttore del
mondo, mi sarei messo a ridere.
Capisco anche che in questi anni
qualcuno ci abbia preso per pazzi.
Per fortuna gli azionisti hanno
creduto nel progetto e lo hanno
appoggiato. John è venuto subito a
Detroit, ha capito il potenziale
dell'operazione e l'ha sostenuta
fino in fondo".
Lei sa che su questo successo
americano c'è il sospetto che sia
stato costruito a danno dell'Italia,
delle sue fabbriche e dei suoi
operai. Cosa risponde?
"Che è vero il contrario. Questa
operazione ha riparato Fiat e i suoi
lavoratori dalla tempesta della
crisi italiana ed europea, che non è
affatto finita. Non solo: ha dato la
possibilità di sopravvivere
all'industria automobilistica
italiana in un mercato dimezzato.
Altrimenti non ce l'avremmo più. E
invece potrà ripartire con basi,
dimensioni e reti più forti".
Lei dopo la firma è ottimista, ma
proprio oggi il Financial Times le
fa notare che 4,4 milioni di vetture
prodotte da Fiat- Chrysler sono
appena la metà di Toyota, e l'accusa
di essere un abile negoziatore ma
non un costruttore, un uomo
d'automobili. Come si difende?
"Se adesso che ho Chrysler valgo
mezza Toyota, quale sarebbe il mio
valore senza l'America? Quanto alle
automobili, al salone di Detroit
2011 abbiamo presentato 16 nuovi
modelli tutti insieme. E aspettiamo
il nuovo piano Alfa Romeo, per
favore, prima di parlare".
Però Moody's non ha aspettato, e
ha già minacciato il downgrade Fiat
per i troppi debiti e la poca
liquidità dopo l'acquisto di
Chrysler. Chi ha ragione?
"Capisco il loro ragionamento, ma
ricordo che nel 2007 arrivammo a
zero debiti, prima che scoppiasse
quel bordello nei mercati. Bisognerà
vedere con il piano di aprile dei
nuovi modelli dove si posizionerà il
debito. Io non sono preoccupato,
proprio no".
Ma la strada maestra nelle vostre
condizioni non sarebbe un aumento di
capitale?
"Sarebbe una distruzione di valore.
Ci sono metodi, modelli diversi e
innovativi per finanziare gli
investimenti".
Come il convertendo da un miliardo e
mezzo di cui si parla?
"Lasci stare le cifre. Ma il
convertendo potrebbe essere una
misura adatta".
In un passato recente con il
convertendo i banchieri italiani si
sentivano già padroni della Fiat,
non ricorda?
"Ricordo, anche perché quando
venivano al Lingotto mancava solo
che prendessero la misura delle
sedie. Invece la verità è che siamo
qui, pronti a ripartire, ma abbiamo
bisogno di soldi per finanziare la
ripartenza. Le sembra un discorso
troppo esplicito, troppo poco
italiano?"
No, se lei però mi dice dove
quoterete la nuova società.
"Fiat è quotata a Milano. Poi,
andremo dove ci sono i soldi. Mi
spiego: dove c'è un accesso più
facile ai capitali. Non c'è dubbio
che il mercato più fluido è quello
americano, quello di New York, ma
deciderà il Consiglio di
amministrazione. Io sono pronto
anche ad andare a Honk Kong per
finanziare lo sforzo di
Fiat-Chrysler".
Come si chiamerà la nuova società?
"Avrà un nome nuovo".
Quando avverrà la fusione?
"Spero subito, con l'approvazione
del Consiglio al dividendo Chrysler
di 1,9 miliardi. A quel punto il
processo è chiuso, si può partire".
E dove sarà la sede della nuova
società?
"Lo decideremo, anche in base alla
scelta di Borsa, ma mi lasci dire
che è una questione che ha un valore
puramente simbolico, emotivo. La
sede di Cnh Industrial si è spostata
in Olanda, ma la produzione che era
qui è rimasta qui".
Lei dovrebbe capire dove nascono
certe preoccupazioni. Quando è
arrivato in Fiat si producevano un
milione di auto in Italia, due
milioni dieci anni prima, oggi
appena 370 mila su un totale di 1,5
milioni di auto vostre. Come si può
aver fiducia nel futuro dell'auto
italiana in queste condizioni?
Se ritorniamo al punto in cui Fiat
doveva investire in controtendenza
in questi anni di mercato calante,
io non ci sto, perché se posso
scegliere preferisco evitare la
bancarotta. Peugeot ha investito, e
oggi si vede che i soldi sono
usciti, ma il mercato non c'è. In
più bisogna tener conto che le auto
invecchiano, e un modello lanciato
(e non comprato) durante la crisi
sarà vecchio a crisi finita, quando
i consumi possono ripartire. No, la
strada è un'altra".
Quale, dopo le promesse mancate di
Fabbrica Italia?
"Ecco un'altra differenza tra Italia
e America. Là quando cambiano le
carte si cambia gioco, tutti
d'accordo, qui avrei dovuto
mantenere gli investimenti anche
quando il mercato è sparito. No, la
nostra strategia è uscire dal mass
market, dove i clienti sono pochi, i
concorrenti sono tanti, i margini
sono bassi e il futuro è
complicato".
Uscire dal mercato tradizionale Fiat
per andare dove?
"Nella fascia Premium, prodotti di
alta qualità, con concorrenza
ridotta, clienti più attenti,
margini più larghi. In fondo abbiamo
marchi fantastici e per definizione
Premium, come l'Alfa Romeo e la
Maserati. Perché non reinventarli?".
E perché non lo avete fatto?
"E lei, mi scusi, che ne sa? Sa
della Maserati a Grugliasco, dove
lavora gente in guanti bianchi a
scegliere le rifiniture in pelle per
andare sui mercati del mondo. Ma non
sa che in capannoni-fantasma,
mimetizzati in giro per l'Italia,
squadre di uomini nostri stanno
preparando i nuovi modelli Alfa
Romeo che annunceremo ad aprile e
cambieranno l'immagine del marchio,
riportandolo all'eccellenza
assoluta".
Allora perché non lo avete fatto
prima?
"Mi servivano due cose: la capacità
finanziaria, e oggi finalmente
Chrysler come utili e come cassa mi
copre le spalle, e un accesso al
mercato mondiale. Oggi se mi
presento con l'Alfa negli Usa ho una
rete mia di 2.300 concessionari
capaci di portare quelle auto
dovunque in America, rispettandone
il dna italiano".
Dunque mi pare di capire che non
venderà l'Alfa Romeo ai tedeschi, è
così?
"Se la possono sognare. E credo che
la sognino, infatti. L'Alfa è
centrale nella nostra nuova
strategia. Ma come la Jeep è venduta
in tutto il mondo ma è americana
fino al midollo, così il dna
dell'Alfa dev'essere autenticamente
tutto italiano, sempre, non potrà
mai diventare americano. Basta anche
coi motori Fiat nell'Alfa Romeo.
Così come sarebbe stato un errore
produrre il suv Maserati a Detroit:
e infatti resterà a casa".
E cosa sarà degli altri marchi?
"Fiat andrà nella parte alta del
mass market, con le famiglie Panda e
Cinquecento, e uscirà dal segmento
basso e intermedio. Lancia diventerà
un marchio soltanto per il mercato
italiano, nella linea Y. Come vede
la vera scommessa è utilizzare tutta
la rete industriale per produrre il
nuovo sviluppo dell'Alfa,
rilanciandola come eccellenza
italiana".
Lei parla di modelli, parliamo di
lavoro. Questa strategia come si
calerà negli impianti che oggi sono
fermi, o girano con la cassa
integrazione, aumentando
l'incertezza italiana nel futuro?
"Senza una rete di vendita nei
mercati che tirano, far la Maserati
ad esempio non servirebbe a nulla.
Adesso Chrysler ci ha completato
gran parte del puzzle, soprattutto
nell'area cruciale
Usa-Canada-Messico, dove oggi
possiamo entrare con gli stivali
mentre ieri dovevamo presentarci con
le scarpe da ballerina".
Non è che nell'acquisto Chrysler c'è
per caso una clausola di protezione
dell'occupazione e della produzione
americana?
"Neanche per sogno, sarebbe una cosa
tipicamente italiana, che là non è
venuta in mente a nessuno".
Parliamo allora delle fabbriche
italiane. Quando e come
ripartiranno?
"Ecco il quadro. Nel polo
Mirafiori-Grugliasco si faranno le
Maserati, compreso un nuovo suv e
qualcos'altro che non le dico. A
Melfi la 500 X e la piccola Jeep, a
Pomigliano la Panda e forse una
seconda vettura. Rimane Cassino, che
strutturalmente e per capacità
produttiva è lo stabilimento più
adatto al rilancio Alfa Romeo. Mi
impegno: quando il piano sarà a
regime la rete industriale italiana
sarà piena, naturalmente mercato
permettendo".
Sta dicendo che finirà la cassa
integrazione eterna per i lavoratori
Fiat?
"Sì, dico che col tempo - se non
crolla un'altra volta il mercato -
rientreranno tutti".
Scommettendo sull'Alfa e sulle auto
Premium lei scommette sul dna
italiano dell'auto: ma ha ancora
corso nel mondo, con la crisi del
nostro Paese?
"La capacità italiana di produrre
sostanza e qualità, di inventare, di
costruire è enormemente più
apprezzata all'estero che da noi. Il
carattere dell'automobile italiana
esiste, eccome. Tutto ciò è una
ricchezza da cui ripartire. Noi
siamo pronti. Ma se continuiamo a
martellarci i piedi, invece di
puntare al meglio, finirà anche
questa storia".
Ma cos'è il meglio, in un Paese che
perdendo il lavoro sta perdendo
anche la coscienza delle sue
potenzialità, dei doveri e dei
diritti?
"È aprirsi al mondo, trovarsi spazio
nel mondo, non chiudersi in casa,
soprattutto quando intorno c'è
tempesta. Fiat ci prova. Ho scritto
ai miei che possiamo concorrere a
dare forma e significato alla
società del futuro. Anche per me
arriverà il giorno di lasciare. Ma
intanto, dieci anni dopo, è una
bella partita".
(ezio
mauro / repubblica.it / puntodincontro.mx / adattamento
e traduzione allo spagnolo di
massimo
barzizza)
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